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funziona / non funziona: "When the Rain Stops Falling"

di Altre Velocità

When the Rain Stops Falling di Andrew Bovell, spettacolo di teatro di testo, è andato in scena dal 6 al 10 febbraio all’Arena del sole. Due famiglie, i destini che si sovrappongono, scuciono e ricuciono; la pioggia che, costantemente presente, crea una cornice distopica echeggiando l’apocalisse che si avvicina.

Quando la redazione di Bologna Teatri si è riunita per parlare di questo spettacolo, la discussione ha prodotto scoppi e scintille, creando di fatto due fazioni contrapposte: chi era rimasto colpito dallo spettacolo e io, guerriera solitaria, che avevo delle enormi perplessità su tutta l’operazione. Abbiamo deciso di costruire un lavoro di gruppo che ricalchi, il più possibile, la situazione di confronto redazionale. Quello che vi presentiamo è un ragionamento imperfetto e incompleto che cerca di ripercorre idealmente la discussione tra spettatori, augurandoci che vi faccia sentire meno soli quando sperimenterete la spiacevole sensazione di essere gli unici ad avere un’opinione diversa dagli altri.

Francesca Lombardi

perché funziona

Due uomini, padre e figlio, l’uno di fronte all’altro. Parlano con frasi interrotte, incespicano, parole risuonano in tutta la loro imbarazzante banalità in una stanza spoglia e povera, mentre fuori la pioggia incessante preannuncia la fine del mondo. Sono due sconosciuti, non sanno nulla l’uno dell’altro, eppure noi spettatori sappiamo tutto di loro. Le tragiche vicende di un intero albero famigliare si sono aperte davanti ai nostri occhi in un ambizioso ma riuscito congegno di incastri temporali e drammatici dal sapore epico, che si completano e si succedono come ingranaggi di un orologio. Un gioco di padri eternamente giovani che tradiscono e abbandonano i figli, un gioco di madri che invecchiano e lentamente si deteriorano. E noi, seduti sulle nostre poltrone, siamo stati al gioco, abbiamo vissuto con commozione e solidale empatia il manifestarsi dell’impulso pedofilo di Henry Law, la disperazione e il rifugio nell’alcol della moglie Elizabeth Perry e la ribellione del figlio Gabriel; abbiamo provato compassione – letteralmente, cum-patior – per la solitudine di Gabrielle York, per la sua malattia e il lutto del marito Joe Ryan, per il figlio Gabriel, che porta il nome di un padre morto troppo presto e mai conosciuto. Il tutto porta a questo momento: l’anno è il 2039 e l’ultimo Gabriel, travolto dal destino tragico che abbiamo visto risalire come un fiume le generazioni precedenti, dopo aver abbandonato il figlio Andrew lo riaccoglie nella sua vita, nella sua umile e trasandata abitazione. E così vediamo due uomini, padre e figlio, l’uno di fronte all’altro, che parlano ma non dicono nulla. Avremmo preferito un ricongiungimento commovente, contornato da quel lirismo poetico che Bovell ha dimostrato di possedere e maneggiare abilmente, parole romantiche ed esplicative che facessero breccia nella nostra sensibilità umana palesando senza dubbio alcuno il senso ultimo e profondo di ciò cui abbiamo assistito. Nulla di tutto ciò. Se le vicende raccontate da Bovell hanno il sapore di un mito greco, quel padre e quel figlio non sono eroi ma uomini comuni. Siamo tutti noi, privi di risposte perché non conosciamo nemmeno le domande. Così quell’incontro tanto atteso assume l’insopportabile sapore della quotidianità: il disagio, l’imbarazzo, l’ineffabilità di sentimenti repressi e inespressi. Ma nonostante ciò la pioggia, a un certo punto, smetterà di cadere. Perché forse alcune cose finiscono, e altre nascono, anche al di là delle parole.

Valeria Venturelli

Gli oggetti sul palcoscenico sono importanti più che in ogni altro luogo. In una temporalità sospesa, estratti dal loro contesto “naturale”, assumono un peso maggiore. La bravura del regista e degli attori sta nel riuscire a restituire questa “pesantezza”. L’oggetto è lì perché ha una funzione, vuole comunicare, non è un surplus meramente decorativo. In When the Rain Stops Falling tutto quello con cui interagiscono gli attori assume una gravità peculiare. Le cose nominate, maneggiate, assaporate, colpiscono direttamente lo spettatore, è come se la storia non potesse farne a meno. Gli oggetti ricorrono e si rincorrono incessantemente nel vorticoso scorrere del tempo, assumendo, nel finale, una forza attrattiva capace di ricongiungere tutti i protagonisti attorno a un tavolo, come un magnete speciale che attrae pezzi di metallo sparsi nel tempo e nello spazio. La zuppa di pesce, le cartoline, il cappello, gli ombrelli si intrecciano alle vite dei personaggi creando una trama che sa di poesia e di pioggia.

Marcella Pagliarulo

«So cosa vuole. Vuole quello che tutti i giovani uomini vogliono dai loro padri. Vuole sapere chi è.»

La scena si apre con l’apparizione sul fondale di un albero genealogico che traccia la parentela di due famiglie, Law e York: quattro generazioni di padri e figli, delle loro madri e mogli. Lo spettacolo When the Rain Stops Falling del drammaturgo australiano Andrew Bovell si propone come una ricerca della propria identità, legata indissolubilmente al micro-cosmo familiare e al macro-cosmo della storia. Bovell usufruisce del paradigma strettamente teatrale che per conoscere il presente interroga il passato. Il passato silenziosamente entra in ogni scena, «scrolla via l’acqua dall’ombrello; lo appende all’attaccapanni, si toglie l’impermeabile e lo appende all’attaccapanni accanto. Va alla finestra e guarda fuori.» È una potente metafora sull’impossibilità di scappare dal passato evidenziando che tutti noi siamo modellati da quello che è avvenuto prima. La natura deterministica del tempo è una delle cruciali figure e viene evidenziata attraverso l’uso dei leitmotiv delle medesime frasi pronunciate dai diversi personaggi e nella vita stessa degli oggetti che si tramandano di generazione in generazione incarnando la memoria. Il drammaturgo australiano mette sottosopra il processo lineare dello scorrere del tempo storico e l’imprevedibilità del tempo climatico. Egli sovrappone il passato, il presente e il futuro decomponendo il loro succedersi e instaura una costante temporale climatica che è la pioggia. L’uomo che abita tale spazio è in balia di questi due agenti e soltanto nel momento in cui egli decide di confrontarsi e dunque di prenderne atto crea la possibilità di instaurare un ordine nuovo. Andrew con la decisione di incontrarsi con il padre perso da anni interrompe la consuetudine della propria famiglia di nascondersi di fronte agli ostacoli della vita e affronta apertamente la storia delle sue radici. Bovell ci porta a riflettere sull’importanza delle nostre azioni, le loro conseguenze e la capacità di agire che esiste in noi, l’unica in grado «di impedire la nostra distruzione come specie umana».

Jovana Malinaric

Il fascino di When the Rain Stops Falling risiede principalmente nell’albero genealogico rappresentato anche sul libretto, un labirinto di date di nascita, relazioni e soprattutto nomi simili gli uni agli altri. Questi all’inizio confondono ma a mano a mano che la storia prosegue distinguere i diversi personaggi e le rispettive storie diventa intuitivo, come quando uno sconosciuto arriva a essere un amico. In questo spettacolo tutto è collegato, non tramite un importante tema ricorrente ma attraverso le piccole cose: zuppe di pesce, modi di dire, pareti bianche (ma bianco sporco, il bianco puro è troppo freddo). Queste sembrano apparentemente insignificanti se prese singolarmente, ma il loro ripetersi fa capire che dietro c’è ben altro. Il continuo intrecciarsi delle storie della famiglia York e della famiglia Law nel corso di ottant’anni e in due continenti diversi fa riflettere su come tutti siamo in qualche modo costantemente immersi nelle trame della Storia. Ogni nostra azione dà avvio a una reazione a catena di eventi che può portare a cambiare irrimediabilmente la vita di numerose persone. È celebre l’idea secondo la quale il battito d’ali di una farfalla scatenerebbe un uragano dall’altra parte del mondo; questo spettacolo dimostra quanto ciò possa essere vero, anche se al posto di un uragano sembrerebbe più opportuno parlare di un’incessante pioggia che sembra durare decenni.

Silvia Libanore

Uno spettacolo che ti colpisce e ti fa quasi venire i brividi, quasi come se quella pioggia imperterrita ti fosse entrata nelle ossa. Centrale nella storia è la temporalità, in particolare il modo in cui i legami si trasformino nel tempo e di come trasformino anche noi. Ma la vera protagonista è la famiglia, due in realtà, gli York e i Law legati da un segreto inconfessabile. Le sovrapposizioni temporali e i monologhi sono portati in scena in modo dinamico e alternativo, merito anche degli attori tutti estremamente credibili nei loro ruoli. Un’attenzione particolare la si deve senz’altro a Caterina Carpio nel ruolo della ormai adulta Gabrielle York capace di esprimere la pazzia ormai parte del suo personaggio, dei mostri e delle ombre che la perseguitano dà troppo tempo. Ma anche Tania Garribba alias Elisabeth Law adulta colpisce tutti trasmettendo l’estrema amarezza per quella vita sbagliata, e lo fa con la potenza dello sguardo, uno sguardo triste che mantiene fino ai saluti. Non da meno gli altri attori a partire da Emiliano Masala nei panni di Henry Law il personaggio ombra che lega i destini delle due famiglie, la giovane Elisabeth interpretata da una fresca e dolce Camilla Semino, Fortunato Leccese che con l’aria da sfortunato e intraprendente ragazzo conquista l’amore del pubblico nei panni di Gabriel Law insieme a Anna Mallamaci nei panni della giovane Gabrielle York; delicate le interpretazioni di Marco Cavalcoli alias Gabriel York, Lorenzo Frediani alias Andrew Price e infine Francesco Villano nei panni di Joe Ryan. È una storia da cui scaturiscono delle riflessioni etiche, perché vengono inscenate delle realtà sociali di cui spesso si prova fastidio solo a parlarne, tra queste in primo piano sicuramente la pedofilia del padre, l’alcolismo, la depressione Ma è anche di questo che abbiamo bisogno, le realtà scomode vanno affrontate, e When the Rain Stops Falling è proprio ciò che riesce a fare.

Martina Anselmeti

perché non funziona

Appena uscita dalla sala dopo la visione, ero rimasta molto colpita. È bastato confrontarmi con alcune mie colleghe, e dare il tempo di sedimentarsi a ciò che avevo visto, per cambiare radicalmente idea. Lo spettacolo presenta la storia di due famiglie dai destini incrociati, la cui vicenda viene narrata rompendo le logiche temporali, che, non differenziandosi da una qualsiasi epopea famigliare raccontata nei romanzi o nelle serie tv, utilizza la frammentazione come espediente post-drammatico a fini puramente estetici. La scenografia, talmente pulita e perfetta, ha più l’effetto di uno schermo cinematografico – una quarta parete asfissiante – che ignora completamente la componente partecipata: l’evento in presenza viene subordinato a favore di una scelta estetica isolata, che non rende unico il momento di relazione, non differenziandolo dagli altri prodotti artistici mediali. Ciò che rimane è un’immagine che può solamente essere assimilata.

I legami di parentela, indispensabili ai fini della narrazione, non vengono restituiti intellegibilmente dal testo spettacolare; il pubblico è costretto a leggerli in controluce sul foglio di sala, per riuscire a comprendere lo svolgimento della trama.

Lo stesso fulcro dello spettacolo, la rappresentazione di diversi piani temporali attraverso la compresenza in scena dei medesimi personaggi in anni diversi, crea un impatto molto forte ma fondamentalmente inefficace: quello che viene riconsegnato è un eccellente apparato armonioso che colpisce superficialmente, un bell’intrigo appassionante che non rimanda a altro se non a se stesso. “Sotto il regime liberale del capitalismo concorrenziale, il teatro ha come funzione lo svago e il divertimento delle classi possidenti, ma diviene anche un’impresa commerciale, che deve attirare il pubblico venuto a divertirsi […]” (Georges Gurvitch 1894-1965)

In conclusione, tengo a specificare che non per forza il teatro debba creare connessioni semiologiche per essere efficace, ritengo però che abbia il dovere di ricoprire – soprattutto a causa dell’epoca in cui viviamo – un ruolo differente. La spettacolarità non può rimanere fatto autoriflessivo ignorando il contesto sociale e antropologico in cui è calata, che ha bisogno, oggi più che mai, del teatro e della presenza spettatore-attore. Il genere d’arte di cui ci stiamo occupando, quando non è legato a un’urgenza, rischia di assopirsi, ignorando la sua parte più rivoluzionaria.

Francesca Lombardi

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