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Forme di sopravvivenza, tra gli archetipi del quotidiano

di Altre Velocità

Santarcangelo · 13 ha ospitato il primo studio dello spettacolo BE NORMAL!. Potreste raccontarci la genesi e il modo in cui si è strutturato il lavoro?

Rispetto a BE LEGEND!, altro progetto correlato e incluso nel percorso di ricerca Dajmon Project, in cui si richiama l’età infantile di personaggi famosi, BE NORMAL! parla di adulti presentati come anonime nullità, persone che vivono nella fascia media della popolazione. Qui la normalità coincide con una condizione di vita quotidiana che pone ogni individuo sullo stesso piano, senza dislivelli. A oggi lo spettacolo si interrompe all’ora di pranzo, ma l’impianto di base prevede lo svolgersi di un’intera giornata: dalla mattina alla sera. Non si tratta di una giornata realistica, ma di un tempo archetipico e sproporzionato rispetto a ciò che è umanamente sostenibile; in cui si verificano eventi collocabili nell’ordine del non-sense e dell’assurdo, fuori scala per quantità e qualità rispetto al ‘normale’. Il paradosso sta proprio nel parlare del quotidiano cercando di sovradimensionarlo: per cui ai due personaggi che compaiono in scena, personaggi in senso lato perché non fanno altro che negarsi in quanto tali, succede di tutto. A partire da qui, da un lato abbiamo voluto lavorare su qualcosa che ci riguardasse direttamente: cosa significa fare un certo tipo di ricerca in questo momento storico e in un determinato paese; dall’altro, il discorso doveva assumere tratti più generali. Dunque si oscilla continuamente tra il personale e l’epico.

La rappresentazione mette in scena e corrode un contesto, il suo immaginario, ma anche i  protagonisti che lo abitano e il loro portato biografico. Che significato ha, in questo scenario, il momento della rapina a opera di terzi che indossano la maschera di Berlusconi?

C’è un piano narrativo e uno concettuale. Dal punto di vista narrativo, rispetto a una giornata inverosimile e al suo surplus di senso, ci sono eventi che i personaggi vivono direttamente, ma anche momenti narrativi superiori alla dimensione individuale, da loro soltanto sfiorati. E’ciò che si verifica con la rapina, ‘accadimento x’ con cui i due entrano in relazione nella parte finale, senza esserne protagonisti. Sul piano concettuale, visto che la sottotraccia di tutto il lavoro è una riflessione sulle forme e sulle tecniche di sopravvivenza contemporanee, si procede su più livelli: due disperati cercano di superare un giorno infinito, insopportabile e si imbattono in un furto – ‘il’ gesto ultimo compiuto per sopravvivere – che, a sua volta, richiama l’idea della rapina fatta con le maschere dei politici. A questo punto non si poteva non utilizzare il volto di Berlusconi. Così avviene l’incontro con altri individui che hanno le stesse necessità e che indossano l’icona massima del potere, dell’abuso di potere, della ‘rapina legittima’. Poi affrontando un discorso sul teatro e sul sopravvivere facendo arte, l’oggetto rapina viene collocato all’interno di un museo d’arte contemporanea definito da una serie di immagini che hanno una risonanza di tipo economico: la valutazione dell’opera, la risposta e l’efficacia mercantile. Tant’è che mentre poco prima abbiamo visto persone che prendono la metropolitana alle otto del mattino e poi assisteremo a un licenziamento, c’è chi nel frattempo si muove per rubare un barattolo di Merda d’artista, perché vale centocinquantamila euro.

Da dove è tratto e a cosa si riferisce il frammento sonoro che accompagna la scena della rapina?

Il frammento è tratto da The international, un film di Tom Tykwer con Clive Owen. In quel caso la scena è ambientata al Guggenheim, dove non ha luogo una rapina, ma un incontro in cui plurimi agenti dei servizi segreti danno inizio a una sparatoria per catturare un individuo poi ucciso affinché non parli. Di fatto però, quel tipo di audio non serviva  per richiamare un film specifico ma per dichiarare un mondo completamente altro, finzionale. Una delle tante pulsioni attive in questo lavoro è quella di ragionare sull’ ‘osceno’, nel senso di ‘fuori dalla scena’, per far sì che accadano cose fruibili ma nascoste alla vista, alludendo a tutto l’impossibile che può esserci appena superato il limite della quinta. Ma, come sempre nelle produzioni di Teatro Sotterraneo, non si tratta di un gioco citazionistico che richiede di indovinare una precisa corrispondenza. Di solito quando ci avvaliamo di una citazione è per far riferimento a un immaginario comune, rimandando a qualcosa che tutti possano riconoscere.

Nel complesso BE NORMAL! sembra far deflagrare il dispositivo del lavoro e restituisce, in modo ancor più forte che in passato, la sensazione di trovarsi di fronte a un baratro che genera spaesamento. A partire da qui: come si inserisce l’opera nel percorso e nella poetica di Teatro Sotterraneo?

Dal punto di vista linguistico per la prima volta l’intenzione è stata quella di immettersi in un quadro narrativo e di farlo saltare. Abbiamo conservato la relazione diretta con il pubblico inserendola però in un racconto in cui non mancano i personaggi, dove ci sono orari che scandiscono il tempo; pur restando ai confini del realismo, in una dimensione a tratti assurda. Sotterraneo non pratica un teatro rappresentativo, piuttosto sviluppa il discorso del non io, all’interno di un racconto che deflagra: per cui compare in scena una trentenne che dichiara continuamente di non fare la trentenne, e i fatti che precedono sono inverosimili rispetto a quelli che li seguiranno. Il tentativo è stato quello di lavorare su qualcosa con cui non ci eravamo mai confrontati, come la narrazione esplosa. In più avendo scelto di non parlare di figure leggendarie e lontane da noi, è stato naturale, ma anche doveroso e interessante agire un minimo parallelismo con il nostro essere ‘normali’, appunto. Anche in rapporto al discorso vero/falso in teatro, per cui ci si trova contemporaneamente di fronte alla finzione e al corpo reale di un performer. Approfondiremo poi il discorso sul tipo di normalità, quella del teatro e della sua crisi, specificità che ancor più ci riguarda e che non abbiamo mai affrontato negli altri spettacoli. 

Rispetto a quanto ci avete raccontato sino a ora, che valore ha l’atto dello smascheramento che permette all’attrice di passare da un personaggio all’altro, da cantante di strada a trentenne tanto di finzione, quanto reale?

Quando entra in scena la cantante di strada la maschera non le copre totalmente il viso, si riconosce chi la indossa e non si può pensare si tratti di qualcun altro. Fare finta di non rendersene conto sarebbe paradossale o pericoloso dal punto di vista narrativo. E il gioco dello smascheramento, del denudamento torna a inserirsi nel rapporto tra il personale, le storie e il generale che rimanda al modificarsi della compagnia, al fatto di dover essere – anche per specifiche contingenze – in due sul palcoscenico. Comunque, piuttosto che sfruttare una situazione corale, raccontando una giornata in cui non è affatto scontato riuscire a restare vivi è interessante trovarsi di fronte due attori che cercano di fare n persone, attraversano n fatti, attuando altrettante tecniche di sopravvivenza. E lo si fa scegliendo di dire al pubblico “siamo sempre noi”, chiarendo che non sto raccontando un personaggio, ma lo sto agendo e lo faccio con le due gambe, le due braccia e la testa che ho a disposizione sulla scena. C’è sempre un discorso sul limite, che può essere superato solo se si ristipula di continuo il contratto con il pubblico. Così come accadeva in Homo ridens, si dichiara la finzione, e il gioco di scomposizione del personaggio in quanto tale si lega all’idea che la personalità oggi coincida con mille profili diversi, mille identità. Lo sappiamo e lo ripetiamo proprio perché ne siamo coscienti. La stessa oscillazione tra personaggio e performer, in questo caso bambino, è presente anche in BE LEGEND!. Il fatto che i due speaker che affiancano il piccolo Amleto dichiarino si tratti del Principe di Danimarca è un’enorme menzogna, via via smentita e destrutturata. Anche qui il credere o non credere deve essere costantemente rinegoziato.

A cura di Nicola Ruganti e Francesca Bini

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