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Essere o dover essere: il "Tristan und Isolde" di Pleger e Polzin

di Altre Velocità

Luce e suggestioni visive: questi i due ingredienti principali su cui si basa la produzione che inaugura l’anno al Comunale di Bologna, per la bacchetta dello slovacco Juraj Valčuha. Il Tristano e Isotta ideato da Ralf Pleger e Alexander Polzin gioca molto sul potere evocativo dell’apparato scenico. Si potrebbe parlare di uno spettacolo d’impatto piuttosto che di analisi, da sentire piuttosto che da rimuginare. La scelta di Pleger e Polzin aderisce pienamente al nucleo tematico del libretto. Regia e scenografia giocano sul ribaltamento di prospettive che scaturisce dalla dissonanza tra l’essere e il dover essere dei protagonisti, e centrano in pieno il messaggio dell’opera di Wagner, intuibile dalle parole dei personaggi: se qui, sulla Terra, non c’è spazio per altro amore che non sia mero costume sociale, forse è la realtà a essere illusoria, e ciò che soltanto assaporiamo di notte nel sogno, la morte, ci può liberare dai suoi vincoli – allora l’azione viene rigirata come un calzino, e quanto avviene all’interno dei personaggi si riversa sul palcoscenico in un decrescendo di concretezza, dove permane tuttavia l’elemento-luce come espressione dell’amore vero, quello della notte.

Lo spettacolo si apre sull’interno di una caverna di stalattiti di ghiaccio, che si illumineranno dopo l’effetto del filtro d’amore. L’enorme specchio che ricopre il fondo della scena duplica presenze e ghiaccioli, lascia affiorare a tratti i fantasmi del reale (il coro), e soprattutto include la platea in questa trappola di apparenze e verità. Nel secondo atto, ambientato in una sorta di sogno bianco dove solo la veste di Isotta è diventata sgargiante di passione da candida che era nel primo atto, campeggia un albero di corpi dormienti. Il terzo atto, invece, trova la sua ambientazione in un limbo al confine tra la vita e la morte. Qui alcune decine di tubi di plastica creano prima uno sciame di buchi neri, poi una gabbia d’ombra, poi una pioggia di luce, sospesi in universo chiuso su un muro dai cui margini sembra trasparire un Aldilà luminoso. E proprio la luce, con l’avvicinarsi della morte degli amanti, si fa sempre più intensa, fino a un’ultima esplosione di una bianchezza pura e bellissima, che avvolge tutta la scena e segna la fine del tormento per i due innamorati.

Ci si potrebbe chiedere se l’aspetto della recitazione, contenuta e a volte incongruente col libretto, non sia stato trascurato a vantaggio della maestosità degli effetti. Ma, d’altra parte, nessuna regia più tradizionale sarebbe risultata tanto in linea con il contrasto tra essere e dover essere che Pleger e Polzin hanno deciso di raffigurare con la messa in scena del mondo astratto dei sentimenti piuttosto che di quello fisico, ma illusorio, della realtà.

Elisa Ciofini

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