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Dopo Milo Rau non provo più compassione

di Altre Velocità

Consiglio musicale per la lettura: Settima Sinfonia di Beethoven 

[embed]https://www.youtube.com/watch?v=xrfHa5AOWew[/embed] Sembra la riflessione di Anna Harendt, quella di Milo Rau: la banalità del male. La banalità del male è quella che si infila sotto le scartoffie della burocrazia; quella dei piccoli funzionari di corte, che eseguono, eseguono, eseguono. È banalità del male quella che priva della ragione e della coscienza, della presenza a se stessi e della facoltà di decisione; quella che permette di passare dall’orrore alla compassione, dall’inaccettabilità concreta all’indifferenza virtuale. Sul palco, Ursina Lardi mostra la seguente immagine: Cosa proviamo di fronte a questa foto (http://www.internazionale.it/tag/aylan-kurdi)? Compassione. Forse non conosciamo nemmeno il nome del bambino che muore. Nel settembre 2015, i media sostenevano che Aylan avesse rotto il muro dell’indifferenza: a oggi, di abbattuto c’è stato solo il regolamento di Dublino sul diritto di asilo europeo, modificato in una direzione tanto più restrittiva e selettiva (http://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2017/03/10/regolamento-di-dublino-diritto-d-asilo). Che cos’è la compassione? Di noi, chi avrà compassione? Chi ci vedrà quando soffriremo? Chi ci vedrà quando moriremo? «Ora che io recito che costa state pensando? Che cosa state facendo qui?» Si accetta di farsi passare immagini di ogni tipo sotto gli occhi, nel quotidiano: sappiamo quanto di nostro c’è in questa scelta? La Lardi, attrice svizzera già affermata in diverse pellicole, per la prima volta in scena con Rau nel suo monologo di più di un’ora ci parla dell’essere presenti a se stessi con un’esattezza e una prontezza maniacali. Ci dice che «la presenza dell’attore è vincere l’inerzia con assoluta concentrazione». Ma cosa succede se questa concentrazione, e di risposta questa presenza assoluta, viene a mancare? Cosa succede con l’inerzia? Ce lo dirà quasi sul finale, Ursina. Nel frattempo una storia in prima persona sulle zone di guerra civile congolesi: un flusso di parole instancabile sputato con occhi segnati dal suono di quelle; la lucidità delle iridi era la stessa del suo ritmo, implacabile. Sul palco lei, capelli biondo cenere e tubino blu elettrico; lei dietro un leggio che somiglia a quelli dei comizi politici; alle sue spalle, il suo primo piano proiettato su un maxi schermo. Siamo a teatro ma qual è la realtà? Guardo il palco o le vibrazioni in HD di un monitor? Poi il cortocircuito non è più solo dello spettatore, ma anche dell’attore. Si smette di essere presenti a se stessi, si perde la concentrazione, si va per inerzia: allora si può anche “pisciare” su un palco. Azione ripetuta chissà quante volte, meccanicamente, dall’attrice. La stessa, sempre la stessa: e che cos’è la ripetizione se non atto di inerzia per eccellenza? Lì dove non serve nemmeno più la concentrazione, si innesta l’automatismo dell’essere umano, tendente per natura ad abituarsi, a inserirsi in meticolose routine. Si “piscia”, allora, su un palco dove sono ammucchiate sedie, sgabelli, comodini, reti, buste dell’immondizia: gli appigli al reale di una società che figura la propria identità in azioni prestabilite, convenzioni e sicurezze, ma non è presente a se stessa. L’urina scende sul perbenismo, sulle apparenze, sulla facilità di giudizio. Il viso della vittima occhi negli occhi con quelli dei carnefici. «Morirete tutti», non stenta a dire. Noi i nazisti, lei l’ebrea. Noi i trafficanti, lei la disperata. Consolate Sipérius si avvicina alla telecamera che le punta addosso e i suoi occhi neri bucano lo schermo. Lei, la vittima. Del nostro perbenismo, del nostro premio all’apparenza, della nostra facoltà di giudizio, degradata. Un agnello sacrificale che sta su di un palco, viaggia in tournée con Rau, è di una spontaneità bambina: eppure la storia alle sue spalle è direzionata dalle scelte di una famiglia belga che desidera un figlio per fargli guardare la tv, da una guerra che l’ha segregata in orfanotrofio. E allora la compassione è anche dire a una ragazzina di 11 anni, del Burundi, che se ha già le forme di una donna è normale, perché è nei suoi geni di bambola: normale perché lei è diversa. «Un fucile è più veloce per cambiare le cose, ma io credo lo stesso che il teatro lo possa»: è Ursula a dirlo, nel Conversando condotto da Roberta Ferraresi a fine spettacolo. «Quando il massacro si avvicinava io alzavo il volume al massimo»: la settima sinfonia di Beethoven prendeva gli spazi tra le assi del pavimento: lì dove la polvere delle rovine si arresta, ammucchiandosi in strati di morte, la musica passa; attraverso superfici permeabili di ferro battuto, la musica passa. Ora non provo più compassione, non partecipo più a niente.  

Angela Curina

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