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Dont’ worry be happy. "La gioia" di Pippo Delbono

di Altre Velocità

La gioia, andata in scena all’Arena del Sole dal 2 al 4 marzo 2018. Uno spettacolo che scava nelle profondità dell’uomo e della vita e che costringe gli spettatori a immedesimarsi in ogni attore sul palco, in ogni parola detta da Pippo Delbono, presente in scena con una camicia un po’ sgualcita e un microfono in mano. Anche quando non c’è, la sua voce è li. E tu, seduto a guardare questi personaggi, un po’ folli, un po’ emarginati, un po’ soli, non puoi che abbassare le tue difese di fronte a così tanta verità. Questo spettacolo fa nascere riflessione ed empatia, e ci fa sentire un po’ tutti vicini. Nonostante sia un lavoro molto personale, in cui Delbono in qualche modo si mette a nudo, raccontandoci un periodo molto buio della sua vita, c’è qualcosa di universale che mi fa pensare possa essere il racconto di ogni uomo. La vita, come la scena, è attraversata da zone nere, cupe, in cui il dolore e la disperazione prendono il sopravvento, rinchiudendoci in gabbie senza luce. Ecco che in quelle cavità più oscure possiamo trovare l’energia e la forza per rinascere; è nel dolore più profondo che troviamo la gioia più vera, quella gioia che come ci ha spiegato l’attore-autore non è un passatempo, non è ridere, è scavare in profondità. E quando si indaga così tanto inevitabilmente ci si confronta con scheletri e sofferenze. Dont’Worry Be Happy (Bobby McFerrin) apre lo spettacolo facendoci subito spuntare un sorriso e un pensiero, non preoccuparti, sii felice. L’atmosfera è questa, anche quando Pippo Delbono ci fa vedere la brutalità della sua vita ci rassicura mostrandoci che se ne può uscire. E così fanno anche le meravigliose composizioni floreali di Thierry Boutemy, che accompagnano lo spettacolo come una metafora della gioia, della vita e dell’essere umano. Non siamo forse anche noi l’esempio più lampante della ciclicità della natura? Così come durante le stagioni, un fiore nasce, muore e risorge, lo facciamo anche noi in modi differenti. Questa estrema voglia di ricerca della gioia, di positività anche e soprattutto nel dolore, questo connubio tra gioia e sofferenza culminato nel confronto con la morte e percepibile nella ricerca di quella luce che lo spettacolo insegue per tutta la sua durata è anche espressione della filosofia buddista, che accompagna la vita di Pippo Delbono da diversi anni. Oltre a questa filosofia orientale di grande ispirazione, in sala c’è anche un’altra presenza importante: il segno scenico e personale di Pina Bausch è presente e costante, la distesa di fiori che si trasforma in foglie autunnali, l’insieme di corporeità diverse, le esperienze che diventano gesto e danno speranza mi fanno pensare che Pina Bausch sia lì su quel palco, insieme a Pippo Delbono. La gioia dentro la quale ho visto tanta sofferenza, verità e solitudine. Una solitudine che ha deciso di esprimere attraverso il racconto non racconto di alcuni personaggi che sembrano essere tutti considerati emarginati dalla società o folli. Abbiamo un clown, un uomo sordomuto, un profugo di guerra… una donna che nelle movenze sembra essere un’isterica ottocentesca. Dove nasce l’idea di raccontare la gioia, passando per i margini e per la follia? «Emarginati, chi è l’emarginato? È un concetto molto importante da rimettere in pista. Per me sono emarginate queste signore impazzite che vanno al supermercato tutte uguali, queste persone che si mettono tutte le stesse cose, le stesse scarpe. Bologna è piena di emarginati, parlano tutti allo stesso modo, rappresentano un mondo che ha quasi toccato il fondo. Allora io, in questo mio tempo di grande dolore, mi sto trovando in una storia che mi chiede di andare in profondità. La gioia è un rapporto inevitabile con il dolore, gioia aldilà della gioia nella morte. Questi elementi sono sicuramente inevitabili in delle persone che hanno attraversato delle zone nere, come il ragazzo rifugiato, come Bobò. Poi nelle zone nere ci passiamo tutti, in certi momenti e con una certa intensità. È interessante allora capire come l’essere umano, andando in quelle zone forse può capire qualcosa in più sulla gioia.» Perché la parola gioia la spaventa? «La gioia non è ridere, quello è un passatempo. Spesso è banalizzata ed è considerata come una forma di ecstasy. Quel tipo di gioia non ti fa andare in profondità nella vita e questo mi fa paura. Però la gioia la voglio. Se chiudo gli occhi sogno di andare a sciare, sogno più questo che le grandi esperienze, in questo momento.» Ho visto lo spettacolo due volte. Venerdì 2 e domenica 4 marzo. Durante la prima replica ho sentito pronunciare una frase buddista che diceva «la gioia si può trovare anche nella morte». È quindi dalla sua vicinanza al buddismo che deriva il connubio tra gioia e morte ? «È vero stasera non l’ho detto, ma c’erano altre cose che non avevo detto. È un lavoro che è cresciuto e si è migliorato molto secondo me… è meglio adesso di venerdì però quella frase l’ho persa per strada. Bisogna arrivare alla morte con gioia, perché se no per quale motivo siamo cristiani, cattolici, buddisti musulmani ? perché poi dovresti arrivare a quel momento in cui in qualche modo sei in contatto, sei in armonia, però è dura perché invece sei pieno di paura, di debolezze. Io ho quasi 60 anni e devo cambiare, devo rinascere, è questo che sta succedendo. Solo se ricomincerò da come ero da bambino, riuscirò a compiere questo percorso e a quel punto sarà bellissimo, senza pesantezza. In questo modo quando arriverò a compiere 60 anni sarò liberato.» In questo spettacolo nell’aria c’era anche Pina Bausch. Quanto è stata significativa la presenza di questa grande maestra nella sua vita e nel suo modo di fare teatro?

«Io e Pina siamo sempre un po’ vicini. È stata la persona che mi ha cambiato la vita. Probabilmente a un certo punto ha anche rifiutato il dolore… anche lei ha sempre cercato la gioia. Io forse ho il buddismo in più di Pina, perché lei scappava sempre un po’ dalla parola morte, non la voleva sentire; a un certo punto si è lasciata morire, io le dissi di farsi curare perché sono un fanatico delle cure ma lei non voleva vederne neanche una. Però sì, sono storie che continuano, io mi sento come se in qualche modo avessi sempre un po’ di Lei dentro la mia vita… Un po’ di Pina Bausch è sempre lì… anche la sua tristezza, la sua melanconia che però cerco di cambiare. I maestri bisogna cambiarli, ucciderli per dargli onore se no rifai Pina e non è interessante. A me adesso non interessa neanche rivedere i suoi spettacoli perché non sono carne viva. Invece qua sì c’è Pina, so che qui, ora c’è. Pina disse: Pippo Delbono è l’unico che riesce a mettere insieme cose così diverse, personaggi così diversi e non so come faccia e io dissi: ma Pina mi hai insegnato tu questo, io avevo visto da lei che metteva questi corpi, e lei disse: sì, ma adesso tu sei andato molto più avanti. Questo è.»

Natasha Scannapieco

(Hanno collaborato Mariangela Cicciarella e Flavia Mazzarino con il supporto audio-visivo)

 

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