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Disillusioni e speranze. Intervista a Jean-Baptiste Demarigny (LeStudio)

di Francesco Brusa

Questo articolo fa parte di Speciale Est. Voci da un’altra Europa

Dopo avere dato vita e partecipato a numerose esperienze teatrali all’estero, fra il Marocco e i Territori Occupati Palestinesi, Jean-Baptiste Demarigny incontra Sanja Maljković a Belgrado nel 2009 per uno spettacolo sull’esperienza storica della Jugoslavia. Decidono di continuare a collaborare e fondano il teatro LeStudio, una sala totalmente indipendente nella capitale serba che funziona come una struttura “ufficiale”: un repertorio di spettacoli messi in scena a rotazione che si infoltisce di anno in anno, esplicitamente teso ad attirare un pubblico generalmente estraneo al teatro. Con un occhio però alle questioni politiche che attraversano l’attualità del paese.
Il crescente nazionalismo, il rapporto con i conflitti passati, la mancanza di visioni di sinistra sono alcuni fra i temi che convergono nelle performance di LeStudio: uno spazio nuovo e composito, che prova a fare i conti con il “crollo di speranza” nella società serba.

Una domanda di contesto. Le persone con cui collabori fanno parte di una generazione diversa da quella di alcuni “grandi nomi” del teatro serbo (Dah, Mimart, Blue…), una generazione che è diventata artisticamente attiva nell’immediato dopoguerra. Noti differenze nel loro approccio verso il teatro?

Premetto subito che il mio punto di vista non può che essere limitato e parziale. Detto ciò, io ho effettivamente scelto di collaborare con la generazione che è cresciuta durante la guerra ma è entrata nell’età adulta quando il conflitto era oramai concluso. Si tratta di un contesto mutato, certamente: per chi è nato nel 1983 come Sanja significa sentire il problema della “ricostruzione” come urgente. Significa aver partecipato alle lunghe dimostrazioni contro Miloševi, aver assistito alla caduta di quest’ultimo e alla successiva elezione di Đinđić con tutto il conseguente carico di speranza e ottimismo verso il futuro che, però, è tragicamente naufragato con la sua morte. Ecco, se per la generazione del Dah Theater la grande ferita aperta era ovviamente rappresentata dal conflitto, per quella seguente direi che lo è stata la morte di Đinđić (assassinato da un cecchino il 12 marzo 2003). Si tratta di un forte sentimento di disillusione: è l’amara convinzione che qualsiasi cosa tu cerchi di mettere in pratica nel contesto serbo non funzionerà, non porterà a un cambiamento. Un contraccolpo enorme rispetto all’ondata di speranza che aveva attraversato per la prima volta la società serba con Đinđić. 
Senza nulla togliere al loro lavoro, penso che il Dah Theater abbia un approccio quasi da “esterni” che non tiene in considerazione tale frattura e invita il pubblico a sollevarsi, a reagire, dicendo: “è possibile!”. Ma no, non è possibile dal mio punto di vista. O meglio, non lo è finché non fai i conti con la mancanza di speranze e le sue cause, finché non analizzi più a fondo le tue emozioni e non capisci l’esatto punto in cui hai smesso di lottare. In ogni mio spettacolo cerco sempre di andare a toccare questa dimensione: la convinzione diffusa che nulla sia possibile nella società serba, convinzione che credo costituisca la differenza più vistosa tra le due generazioni.

In che modo dunque cercate di affrontare il tema? Qual è la vostra concezione di teatro politico?

Appoggiandomi a Hannah Arendt, direi molto semplicemente che è politico tutto ciò che riguarda il vivere insieme a livello di società. In Serbia il rapporto con la guerra è ancora un argomento vivo e controverso, il nazionalismo crescente o il fatto che non esistono praticamente movimenti “di sinistra” sono altri due temi caldi che mi toccano molto. È possibile affrontarli in maniera diretta (e l’ho fatto in due spettacoli) ma più passo tempo in questo contesto, più mi rendo conto di quanto una prospettiva del genere rischi di essere manchevole. Se vuoi produrre un teatro capace di parlare alle “masse” e non a una ristretta cerchia di illuminati, occorre riuscire a parlare da un punto di vista “interno”, ovvero partire da una sorta di negazione che in generale attraversa la società serba. Sostanzialmente, il popolo di questo paese si sente vittima della storia e se tu ti ci rivolgi dicendo che in una certa misura è anche colpevole non ti starà a sentire. Rischi di mancare completamente il bersaglio: è come dare un’aspirina a qualcuno che si è rotto la gamba!
Penso che cercare di trasmettere un messaggio sia sbagliato a priori in teatro, non intendo certo il teatro politico come propaganda. Al contrario, quello che provo a fare è assumere le prospettive di lettura sulla società e sulla storia più comuni per cercare di metterle in crisi dal di dentro. Dici di essere una vittima? Vediamo perché pensi ciò, vediamo di partire da lì e capire se si riesce a superare insieme tale schema di lettura o, almeno, renderlo più complesso e ricco di dubbi o domande. A essere quasi sempre toccate sono le questioni dell’identità nazionale e dei suoi miti fondativi: in uno degli ultimi spettacoli parto dalla battaglia della Piana dei Merli del 1389, evento cruciale nella storia serba e nella formazione della sua coscienza collettiva.

Hai parlato di un teatro che si rivolge alle masse. Credi che a volte alcuni spettacoli contemporanei diventino troppo autoreferenziali?

Penso che spesso il cosiddetto teatro “sperimentale” o “indipendente” sia in realtà una bolla. Vale a dire che si viene definiti “sperimentali” non tanto perché si sperimenti effettivamente più degli altri ma perché al contrario si è portatori di una certa estetica, oramai ben riconoscibile: rifiuto del personaggio, assenza di storia, prossimità con la dimensione della performance…
Da questo punto di vista, la nostra attività come Teatro LeStudio non può definirsi come sperimentale: io amo le storie, amo i personaggi. Mi piace insomma qualsiasi elemento che fornisca una chiave di accesso al teatro a ogni tipo di spettatore. Penso che a volte sussistano pregiudizi verso chi non frequenta abitualmente il teatro: si crede che possa apprezzare solamente le serie televisive e che non sia interessato in alcun modo all’arte scenica. Ma non è vero: nel momento in cui gli fornisci degli strumenti per comprendere e capire, si lascerà trasportare senza alcun problema.
Un teatro popolare non vuol dire automaticamente commerciale, o almeno questa è la nostra scommessa. Nel momento di costruire uno spettacolo, ci diamo solamente due regole: fare qualcosa di nuovo, su cui non abbiamo alcuna idea rispetto alla piega che prenderà e che quindi ci costringe a svilupparci (in tal senso, siamo sperimentali) e porre il pubblico in una situazione in cui si senta rispettato, senza che debba essere “iniziato” a certi linguaggi per seguire la performance.

La vostra struttura è comunque indipendente dalle istituzioni. La consideri una condizione necessaria per creare un teatro popolare?

Posto che non ho nulla in contrario al fatto che lo Stato investa nel teatro e crei strutture “ufficiali”, in un certo senso sì. La nostra esperienza, più che da tensioni artistiche strettamente personali, nasce e si sviluppa proprio attorno all’esigenza di attirare un tipo di pubblico che generalmente non segue il teatro (e penso che in una certa misura ci stiamo riuscendo). Volevamo un contesto in cui lo spettatore venisse ai nostri spettacoli innanzitutto perché si sentisse in qualche modo “a casa”, e per farlo è chiaro che ci servisse una totale autonomia a livello organizzativo. Chiunque lavori al Teatro LeStudio ha lo stesso identico salario, abbiamo aperto una piccola accademia in cui è possibile studiare generi teatrali difficilmente trattati altrove (il teatro di burattini, ad esempio), riusciamo a sostenerci grazie alla vendita dei biglietti e l’unica forma di pubblicità che utilizziamo è il passaparola. In più, dopo gli spettacoli, invece delle classiche discussioni frontali, abbiamo una sala-bar in cui gli spettatori possono incontrare in modo più informale gli attori e parlare di ciò che hanno appena visto. Il pubblico è composito e ci siamo trovati davanti a reazioni spesso molto differenti fra loro, soprattutto nel caso in cui parte delle persone era cresciuta nella ex-Jugoslavia e parte no. Uno spettacolo sulle varie identità nazionali dei Balcani che pensavamo avesse il tono della commedia, per esempio, da molti è stato percepito come qualcosa di drammatico o che, comunque, facesse commuovere.
Ecco, il teatro come uno spazio in cui le persone possano riconoscere se stesse: questo vorrei che fosse LeStudio, e in parte lo è già.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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