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Dentro il corpo, fuori dal tempo: “Corsia degli incurabili”

di Altre Velocità

Se ne sta lì, apparentemente inerte, su una sedia a rotelle. È incastonata in un angolo di ospedale spoglio e rovinato, con la testa delicatamente ferma sullo schienale, gli occhi socchiusi, le gambe appena divaricate e i piedi nudi. Sta lì, l’attrice, Federica Fracassi, i suoi capelli rossi gonfi e leggeri, il mento sottile che le appuntisce il viso ancora morbido nell’incipit di Corsia degli incurabili. Poi si alza il suono e viene illuminata da un piccolo faro appostato tra lei e la linea esterna del palco. «Lama di luce da una vastitas» recita la didascalia iniziale del testo di Patrizia Valduga, poetessa nata nel 1953, penna pungente che distingue, dichiarando il suo gusto, ciò che oggi si può amare e ciò a cui invece bisogna prestare diffidenza; è autrice di questo atto unico, scritto in terzine dal suono duecentesco che vede nel 2010 la messa in scena a firma del regista Valter Malosti.
Quando la luce si illumina accompagnata dal rumore di una profonda vibrazione, ecco che anche il corpo dell’attrice si accende. Tutto il volto si muove – si aprono gli occhi, nascono rughe d’espressione sulla fronte e sul collo – e le mani reagiscono di conseguenza, stringendo le dita e ingrossando i tendini degli avambracci. Da qui in poi, quel corpo sarà luogo di passaggio per molteplici voci (o forse una voce unica dalle tante personalità?) che scatenano azioni e reazioni a seconda dei pensieri espressi, delle immagini sopraggiunte.
Corsia degli incurabili è un atto teatrale in versi, nel quale prendono vita malati, pazienti terminali, sofferenti all’ultimo stadio di sopravvivenza. Sono perlopiù anime spietate, che hanno perso pudore e guadagnato schiettezza, dirette nelle loro invettive contro lo Stato («Signor Presidente della Repubblica, / io non l’ho avuta la Legge Bacchelli») e contro i manipolatori della comunicazione («le tivù ci hanno fatto l’incantesimo…», «vogliono assassinare l’italiano! / Lo vogliono svilire, impallidire, / con lo iènchi filmesco sottomano»), e caute nel rivelare di conoscere l’imbarazzo dei sani che si recano in visita negli ospedali. La Valduga dunque non circoscrive il discorso alle patologie fisiche, ma estende il concetto ai mali della società, della serva Italia, accennando ai sintomi che porta addosso il linguaggio (storpiato, svilito) e ai condizionamenti della cultura di massa sui caratteri degli italiani. In questo modo, l’intimità svelata della figura che abbiamo di fronte non è uno sfogo da ultimo istante di vita, ma la descrizione di un pensiero circolare da fuori a dentro, e il personaggio è come una spugna che assorbe i tanti percorsi di questo fluire ininterrotto che ora, con coscienza, ci ripropone goccia a goccia. È la Fracassi che ci aiuta a comprendere il giro vorticoso della poetessa, è l’attrice che regge con tinteggiature delicate o fiorettate decise quelli che altrimenti avrebbero potuto essere sbandamenti, lampi schizofrenici, stranezze da moribondi.
In quest’unico corpo in scena si riversano più disperazioni, con diversi toni di aggressività e comprensione, di lucidità e abbandono. In ogni passaggio da un registro all’altro, Federica Fracassi  modifica quanto basta la torsione della testa o la fibra della voce, salendo e scendendo di volume a seconda della parola pronunciata, nel rispetto del contenuto e del contesto che la avvolge. Non c’è esibizionismo o esternalizzazione forzata: tutto nasce da un evidente dentro, un magma compatto di dolore e cure, e ogni verso scritto ha una direzione con un suo preciso orizzonte che l’attrice davvero ci fa intravedere.
Nel percorso espressivo dei tanti umori, la regia di Malosti accompagna l’interpretazione della Fracassi con una partitura musicale e un disegno luci che amplificano quanto vediamo incarnato: in alcune fasi dello spettacolo questo sistema non fa altro che ribadire, diventando insistente, caricando l’immagine e il testo che lo spettatore ha di fronte a sé; in altri momenti la partitura è interrotta da voci inattese (pezzi di CCCP, Carmelo Bene, la romanza di Francesco Paolo Tosti citata dalla Valduga ritrasmessa in scena con la voce di Enrico Caruso) o suoni non più solo didascalici e, tra questi, uno ci cattura maggiormente. All’inizio è un sottofondo, un fruscio diseguale a cui la voce della Fracassi si appoggia con un ritmo più stanco, forse più riflessivo. Solo a un certo punto comprendiamo che si tratta del suono di un registratore a nastro, che riavvolto ora ripete il discorso appena sentito dalla viva voce dell’attrice. Questo momento crea all’improvviso uno spazio alternativo alla camera dalle pareti scorticate, e ci spinge a domandarci “dove?” ci troviamo. L’arricchimento che Malosti porta al testo, che la Valduga immagina «a letto, in una stanza d’ospedale», è forse proprio la possibilità di far muovere queste parole anche fuori dalla corsia del titolo, facendoci inoltrare ora in una stanza privata dove si dettano lettere o memorie a un magnetofono, ora in uno schermo o alla radio richiamando a quante più orecchie possibili l’attenzione su alcuni problemi che affliggono la società o la lingua italiana. È solo un attimo, ma basta per farci immaginare uno spazio mobile, che procede dal passato al futuro di chi ci parla, ora persa in un ricordo, ora accesa nella proiezione ossessiva di un piccolo futuro: «Che programmi per oggi?». La domanda, ripetuta più volte dall’inizio alla fine dello spettacolo, ci arriva alle orecchie come una provocazione, un ammonimento. O, più semplicemente, come l’attacco di un dialogo, la seria richiesta di esser presi in considerazione da chi è venuto in visita, amico, parente o spettatore.

di Serena Terranova

foto di Manuela Giusto

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