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Democrazia in America: uno sguardo molteplice fra politica, suoni e loggione.

di Altre Velocità

Democracy in America. Pensi a Alexis de Tocqueville. Poi vai a cercare qualche informazione sulla piéce di Romeo Castellucci, ultima produzione della Socìetas Raffaello Sanzio, e leggi che il suo non vuole essere uno spettacolo politico. Com’è possibile? Com’è possibile mettere in scena un trattato sulla democrazia e affermare che non è uno spettacolo politico?  In realtà, quello andato in scena all’Arena del Sole l’11 e il 12 maggio è uno lavoro profondamente politico anche se non nella sua accezione più comune; prendendo in prestito le parole di Raffaele Laudani, non lo è «in senso didascalico». La politica è l’arte di governare e in questo spettacolo si parla di democrazia, forma di governo largamente diffusa in quel mondo occidentale in cui “per fortuna o purtroppo” viviamo. Non si parla di “politica politicante”, per usare una battuta cara a un noto politico, ma, citando nuovamente il professor Laudani, di «un tentativo di scandagliare l’anatomia della democrazia e della violenza ricorrente che la attraversa e che oggi esplode in maniera evidente». La creazione del regista di Cesena si apre con parole apparentemente senza senso, un esempio di glossolalia registrato in una chiesa pentecostale statunitense. Parole che rimandano alla superstizione religiosa che caratterizza e ha caratterizzato in particolar modo la zona nord delle ex colonie inglesi. Quelle dove arrivarono i puritani, partiti il 6 settembre 1620 da Plymouth a bordo del Mayflower, quelle dove nasce la classe dirigente capitalista statunitense dopo la Guerra di Secessione vinta dai nordisti, quelle che de Tocqueville descrive in continuo movimento e che Castellucci mirabilmente ritrae nella prima parte dello spettacolo. Laudani dice di essere rimasto colpito da come il regista sia riuscito nell’introduzione allo spettacolo a rappresentare visivamente quell’essere in continuo movimento della società statunitense attraverso «quei corpi saltellanti a metà tra un gregge e uno sciame di cavallette». Tocqueville la osserva e descrive spiegando come nella neonata democrazia statunitense l’uguaglianza non si sia tradotta in un attributo statico ma in un principio mobile, dinamico, la cui caratteristica principale è dare le stesse possibilità di successo a tutti i cittadini; la chiama «uguaglianza delle condizioni». È uno sguardo dialettico anche quello del regista che nel primo dei due dialoghi scritti con la sorella Claudia Castellucci propone come protagonisti un marito (Giulia Perelli) e una moglie (Olivia Corsini) puritani, e sembra ricordare la ferocia della massa, non sempre disposta alla comprensione dell’altro e tendenzialmente incline a un giudizio omologato ed omologante. Una ferocia espressa anche con immagini impattanti come quella di una donna nuda coperta di sangue che si trascina cercando riparo dietro al passato, alla classicità di un bassorilievo. In questa prima parte di spettacolo è ingombrante, come si può capire, la presenza della religione che accompagna molti spettacoli del Castellucci, una religione dogmatica, che non va compresa e che non riesce a dare risposte. Riesce solo a fare richieste e a dare un ordine alla vita delle persone che la seguono. L’inconveniente è dietro l’angolo, una domanda, un sacrificio, un mancato ritorno e ci si comincia a chiedere perché quella che avrebbe dovuto essere la terra promessa si dimostri così amara. Ed è allora che «non si è più cristiani ma cristiani per ostinazione». [caption id="attachment_1488" align="aligncenter" width="1000"] ph Guido Mencari[/caption] La seconda parte dello spettacolo è allo stesso tempo legata e slegata dalla prima. I due protagonisti, Hokolesqua e Avonaco, sono interpretati dalle medesime attrici vestite di una sintetica pelle indigena. Castellucci la introduce con un immagine che cade dal cielo, due figure mobili, due caratteri antichi o due arti danzano sopra la scena, sembrano ricordare lo sterminio dei nativi, una riproduzione mobile di ciò che Picasso ha mirabilmente dipinto in Guernica. Nuovamente il focus del dialogo sta nella capacità di comunicare però, se nella prima parte la domanda che si ponevano i coloni riguardava come avere maggiore capacità di comunicazione e maggiore probabilità di essere ascoltati dal loro Dio, qua ci si interroga riguardo all’utilità di apprendere la lingua degli invasori. Non si vuole imparare a comunicare per farsi ascoltare e ottenere qualcosa in cambio, si vuole comprendere per evitare di cadere negli inganni, comprendere per conoscenza, per convivenza e, perché no, per contrastare. Non vi è una conclusione, solo una discussione che lascia aperte le porte dell’interpretazione, dell’immaginazione, non vi è, come nella prima sezione dello spettacolo, una richiesta di fiducia ma di comprensione. Ho letto che, mai come in questo caso, in uno spettacolo di Castellucci è presente una trama, un racconto che segue gli spunti dei dialoghi. Questa trama sarebbe però impossibile senza le immagini che li circondano: il bassorilievo, i balletti, le pelli scuoiate dei nativi, sono questi a rendere dialettico lo spettacolo, a regalargli un senso profondo. Sono le immagini il vero legame col libro di de Tocqueville e sono sempre loro che ci fanno porre delle domande, che ci regalano suggestioni. Leggere i dialoghi al di fuori del contesto immaginifico in cui li ascoltiamo sarebbe inutile ai fini della comprensione perché fuori contesto risultano semplici, al limite del banale, chiunque potrebbe porsi quelle stesse domande. Questo perché questi stessi dialoghi sono immagini in movimento e fanno parte di un’opera in cui non vi è preponderanza di un elemento sull’altro, in cui l’armonia è totale e inscindibile. Pietro Perelli L’AMERICA SONORA E NATURALE DI SCOTT GIBBONS La democrazia in America, ultimo lavoro di Romeo Castellucci, è uno spettacolo capace di catturare lo spettatore dentro la sua atmosfera, costruita in particolar modo attraverso due dimensioni, due spazi: quello visivo e quello sonoro. Quest’ultimo è il campo in cui lavora Scott Gibbons. Il musicista americano è un collaboratore di Castellucci di vecchia data, il primo spettacolo affrontato insieme è infatti Genesi: from the museum of sleep, del 1999; durante la loro carriera il sodalizio è continuato, sfociando in progetti monumentali come la Tragedia Endogonidia. Un aspetto del processo compositivo di Gibbons viene definito da Enrico Pitozzi «sonico», ovvero: «Un suono-corpo di origine organica che, inserito in un processo di sintesi, tende a disperdere e rendere irriconoscibile la sorgente d’origine pur mantenendone una traccia residuale, una memoria». Scott Gibbons parte quindi dalla realtà naturale per far diventare il suono particella, frammento di ascolto che, accumulandosi, diventa «nuvola di suono», vibrante fisicamente nello spettatore/ascoltatore. È interessante vedere come Gibbons sia arrivato a interrogare le potenzialità sonore della sfera organica: «Nel 1992 avevo un discreto numero di sintetizzatori, qualche attrezzatura di registrazione e un piccolo studio. Quell’anno frequentavo l’università e avevo a disposizione una stanza piccolissima. Un giorno utilizzai insieme un microfono, tre macchine del suono, un campionatore, due riverberatori e un mixer. A un certo punto uscii dalla stanza e trovai delle rocce. Fu una rivelazione. Capii che ciò che stavo cercando riguardava l’essenza “organica” del suono». L’allusione a queste rocce, da cui parte la sua ricerca, non può che rammentarci come proprio la pietra faccia spesso capolino in La democrazia in America: con il sostantivo rock viene con insistenza nominata nel dialogo fra i due indiani, come marmo nel bassorilievo classicheggiante che fa sfondo ad alcune scene, come pietra focaia con cui Elizabeth vorrebbe accendere il fuoco. È un suono di oggetti che si percuotono, forse proprio rocce, quello che anticipa il dialogo fra i due puritani e l’azione della donna. Lo guida con durezza timbrica fino a una sessione dove delle note allungate artificialmente rendono la possibile melodia irriconoscibile; ascoltiamo forse un inno americano deformato mentre sono proiettate le date cruciali della nascita della nuova democrazia. Il concetto di nascita, non solo storica ma anche carnale, è ripreso acusticamente da gemiti femminili, dal pianto di bambini e dai suoni che ricreano un mondo acquatico, come il ventre materno oppure una palude primordiale e misteriosa in cui i coloni si imbattono esplorando il nuovo mondo. L’aspetto selvatico di questo paese vergine è un contesto naturale che ben si avvicina all’universo di Gibbons, che lo restituisce ricostruendo la foresta con un immaginario sonoro composto di canti di uccelli e rumori di insetti. C’è poi l’uso dei microfoni, posizionati a captare l’eco dei campanacci della coreografia iniziale, oppure il percuotere dei capelli dell’attrice su una sbarra di metallo; il riverbero del suono si espande fino a diventare simile a una campana che accompagna verso la fine dello spettacolo. A completare questo quadro vi sono i canti di tradizione americana: il gospel, il canto blues degli schiavi, e quello puritano che chiama a «seguire l’aratro utile». Per concludere, Scott Gibbons, applicando la tecnologia al mondo naturale, è capace di portare sulla scena – citando le sue parole – «un suono fisico, in grado di toccare lo spettatore a un livello biologico ed emotivo, personale, terrificante». Matteo Boriassi Fonti: https://sciami.com/scm-content/uploads/sites/9/2016/11/e-pitozzi-sonicit-diasporiche-arto.pdf https://sciami.com/scm-content/uploads/sites/9/2016/11/f-acca-scott-gibbons-prove-drammaturgia-2005.pdf APPUNTI DALLA GALLERIA, DEMOCRACY IN AMERICA VISTA DA UNO SGUARDO MUTILATO Accostarsi all’opera di un artista visionario e importante come Romeo Castellucci della Societas, ampiamente e giustamente celebrato sulla scena internazionale, dovrebbe poter essere un’azione pseudo-liturgica. Si dovrebbe poter entrare a teatro in punta di piedi e ugualmente uscirne, e lasciare decantare le immagini assorbite sul fondo della coscienza per soppesarne il precipitato. L’11 e 12 maggio La democrazia in America, ultima creazione dell’artista, prodotta dalla Societas, sbarca all’Arena del Sole di Bologna, e lo fa con la forza di un evento a cui tutti vogliono partecipare per poter trionfalmente rivendicare in società “io c’ero”. A motivo della scarsa disponibilità di posti, la posizione riservata a noi giovani cronisti è il loggione, e chiunque ricordi la celebre canzone di Paolo Conte, saprà come al pubblico in galleria giungano piuttosto “lampi” e suggestioni episodiche, che una visione organica e frontale dello spettacolo. A questo motivo, facendo di necessità virtù Bologna Teatri tenterà in questa sede una restituzione a brani e bocconi ed impressioni fugaci che molto hanno di soggettivo e poco di professionale, ma speriamo, qualcosa di interessante:

  • davanti a me una coppia si dà un bacio, col ginocchio urto inavvertitamente la testa della ragazza che si volta scocciata; cala il buio e allo sguardo di biasimo segue l’apertura d’effetto: coreografia di campanacci e ballerine in divisa, bianche, che esibiscono bandiere bianche con cui anagrammano il titolo dello spettacolo (ogni bandiera ha su scritta una lettera, ndr). Appaiono nomi di nazioni del mondo, forse vittime di ingerenze americane, e frasi che si prestano a interpretazioni ironiche. Si apre il gioco delle associazioni, il pubblico ride e sembra impegnato a ragionare. Due signori si accorgono che se fossero in seconda fila potrebbero evitare l’ostacolo visivo della balaustra di metallo e conseguono un primo risultato in direzione della qualità fruitiva, cambiando posto a sedere. Sul palco una donna si lacera le vesti e si copre di sangue, colpisce coi capelli violentemente una sbarra orizzontale calata dall’alto. Il risultato è di grande effetto e suggestione e i due signori annuiscono compiaciuti, mentre la coppia si tiene per mano.
  • Sul palco due personaggi parlano, sono i coloni americani, i primi americani bianchi che nel 1600 si insediarono sulla costa atlantica. Anzi, prima di loro c’erano dei sottotitoli, ma da quassù non si leggono, allora ascolto il dramma dei coloni, che è in italiano e i sottotitoli fortunatamente non servono. Due attrici impersonano sia il personaggio maschile che quello femminile; la ragazza davanti mormora al suo moroso qualcosa che ha a che fare coi diritti acquisiti dopo lunghe lotte. La penuria di cibo fa vacillare la fede del personaggio femminile, il terreno della nuova terra promessa non dà frutto e pare che lei stia cedendo alla superstizione, di notte si reca nel bosco dalle guaritrici della tribù indiana. Il marito di profonda e inattaccabile fede cristiana cerca di riportarla sulla retta via. Perdo di vista entrambi i personaggi quando si avvicinano al lato sinistro del palco per attendere il giudizio degli anziani, espresso sotto forma di sottotitoli. Attorno a me alcuni si alzano in punta di piedi toccando le plafoniere con la testa, altri interrogano il vicino di posto che gode di un punto di vista migliore di almeno venti centimetri.
  • Immagini sfocate, fumose e danze frenetiche, le luci e la musica incalzano il sabba pagano, che ricorda le vicende di Salem. Il pubblico è molto preso e svariati schermi scattano rivolti verso il palcoscenico. A qualcuno sfugge un flash, ma dato il momento concitato non ci si fa troppo caso e lo spettacolo continua.
  • Il fondale antichizzante e marmoreo viene girato e si tramuta in canyon di terra rossa. Due nativi americani parlano la loro lingua, e questa volta mi viene in aiuto un foglio fornito dalla maschera all’ingresso del loggione, in cui è riportato per esteso il dialogo finale in questione. Gli schermi dei telefoni si accendono e tante lucine illuminano di significato il momento forse più toccante dello spettacolo. Alessandro Carraro
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