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Datata e frustrante: "L'anatra all'arancia" di Barbareschi

di Altre Velocità

L’anatra all’arancia, traduzione italiana della commedia del 1967 The Secretary Bird di William Douglas Home. Battute travolgenti dette quasi senza respirare oppure trascinate all’inverosimile, mostrano allo spettatore una coppia che sta insieme da oltre vent’anni, Lisa e Gilberto, ormai ben consolidata nonostante i continui tradimenti da ambedue le parti. Lo spettacolo si apre con i due coniugi a lato del palco, intenti a giocare una partita a scacchi. Le mosse contestate sguaiatamente, prima dal personaggio di Luca Barbareschi (Gilberto) e poi dal personaggio di Chiara Noschese (Lisa), si trasformano ben presto in uno scambio di commenti rivolti non più al gioco stesso bensì al rapporto extraconiugale che Lisa sta portando avanti con il “Principe” Volodia, un russo che l’ha conquistata pochi mesi prima e che ora la vuole tutta per sè in una fuga romantica a Parigi. «L’anatra all’arancia è una bellissima storia universale di un uomo e di una donna e di come il protagonista si inventi un modo per riconquistare la moglie che lo ha tradito e che amava, architettando un piano per dimostrarle che lui è il suo unico amore anche dopo 25 anni», dice Barbareschi nella presentazione ufficiale dello spettacolo, che è andata in scena al Teatro Duse dal 2 al 4 febbraio 2017. Ma di amore, se così lo vogliamo chiamare, ce n’è ben poco. Un affetto quotidiano piuttosto, usurato dalla vita ordinaria che per riprendere vigore ha bisogno di sotterfugi trasgressivi e minacciosi come può essere il tradimento, prima dell’una poi dell’altro. Una scenografia minimalista composta da un divano, due sedie, una lampada a stelo e soprattutto un satellite blu appeso al soffitto dall’apparente inutilità, accoglie improvvisamente un terzo personaggio: il maggiordomo, che sfugge quasi subito all’occhio dello spettatore intento a preparare l’anatra all’arancia, richiesta che Lisa gli ha fatto in attesa dell’arrivo di Volodia. Quando quest’ultimo fa il suo ingresso, una serie di gag prese in prestito dalla slapstick comedy (come ad esempio le ripetute cadute dovute ad un gradino subdolo), fanno inquadrare fin da subito allo spettatore il ruolo buffonesco e marionettistico del personaggio. Il finale si riesce ad intuire già prima della fine del primo tempo che comunque a confronto del secondo risulta ancora godibile. Gilberto in tutto questo, tra un drink e l’altro, non rimane passivo, anzi. Invita nella turbolenta casa la segretaria, la sua amante, l’ultimo ingranaggio di una drammaturgia prevedibile ma che riesce ad essere ben interpretata da tutti e cinque gli attori protagonisti. Una giovane segretaria, affascinante e provocante come vuole lo stereotipo (che verrà definita “burina” dalla stessa moglie a fine spettacolo), si scatta foto dal telefono cellulare appeso al collo come nemmeno nei primi anni Duemila, in un disegno registico che ritrae così una gioventù incapace di inserirsi in una qualsiasi conversazione “tra uomini” di per sè piena di inutili parole. L’utilità della signorina Pizziconi raggiungerà l’apice quando si trasformerà letteralmente in un sopramobile che Gilberto userà come porta drink. Paragonata ai figli della coppia, diventerà a tutti gli effetti il classico stereotipo utilizzato dalla “meglio gioventù”, secondo i quali ai giovani d’oggi piace restare coccolati e accuditi dai propri genitori, rimanendo incapaci di costruirsi una propria vita se non da parassiti. Una piacevole e innocua commedia per il pubblico più vissuto, leggermente datata e frustrante per coloro che ancora devono farsi una strada in questa giungla chiamata vita, poichè l’unico modello che li rappresenta in questo spettacolo dimostra superficialità e ignoranza. Sono queste infatti le uniche caratteristiche proprie della gioventù che solamente le persone mature notano (come lo stesso Gilberto), tralasciando completamente qualsiasi altra peculiarità anche solo lontanamente positiva.  

Margherita Piccoli

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