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Dall'io alla storia. "Chi ha ucciso mio padre" di Deflorian / Tagliarini

di Altre Velocità

Per la prima volta solo registi invece che drammaturghi o interpreti, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini dirigono la messinscena dell’ultimo racconto autobiografico di Édouard Louis, giovane scrittore francese che ha conquistato i lettori di tutta Europa con una prosa lucida e incisiva .
Chi ha ucciso mio padre, titolo del libro, nonché dello spettacolo andato in scena al Teatro delle Passioni a Modena il 22 e 23 febbraio costituisce, attraverso il racconto di una vera e propria resa dei conti fra un figlio e un padre, un’analisi toccante e veritiera della condizione sociale della classe operaia, della sua emarginazione e del suo degrado. Interpretato da Francesco Alberici, Chi ha ucciso mio padre è un dialogo per voce sola, una “lettera” che un figlio omosessuale consegna idealmente al padre, ossessionato dalla mascolinità, impaurito dalla consapevolezza di essere a sua volta un emarginato, un perdente proprio come le persone che più odia e a cui più teme di rassomigliare: «gli arabi, le donne, i froci» .Lo spettacolo, come il libro, costituisce un atto d’accusa nei confronti della politica e insieme la cronaca della sconfitta di tutti noi .
I colpevoli di questa emarginazione hanno un nome e un cognome: sono Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy, Emmanuel Macron; Quest’ultimo in particolare, sembra suggerire lo spettacolo, associa chi non ha la possibilità di pagarsi giacca e cravatta alla vergogna, all’inutilità. Attualizza la frontiera, violenta, tra chi porta giacche e chi porta magliette, i dominanti e i dominati, chi ha i soldi e chi non li ha, chi ha tutto e chi non ha niente. È come se, in contrasto con le misure intraprese dalla classe politica, si creasse una sorta di “geografia degli ultimi” che riporta al centro della scena tutti quanti gli esclusi della storia contemporanea, la storia quotidiana; il padre dello spettacolo diventa metafora di una condizione che si potrebbe definire di “sottoproletariato” e la sua storia diventa dunque il racconto delle nuove e antiche povertà proprio perché l’assassino del padre diventa “l’assassino plurale”, cioè una società intera, che ha condannato non solo il padre dell’autore del romanzo ma un’intera generazione, quella dei cinquantenni, a essere una generazione senza prospettive di futuro .
Questa riflessione storica, sociale è il tratto più drammatico dell’opera perché’ ci porta una prospettiva attualissima: quella dell’autobiografia privata che si fa racconto collettivo, dell’io che diventa noi, quasi in risposta a un bisogno diffuso, contro la parcellizzazione dell’Italia diffidente e razzista di oggi; in parole povere le riflessioni dello scrittore e, per traslato, di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini sono lo sguardo di chi, attraverso il racconto di sé, si colloca nella storia, nella politica, nella propria generazione.

Federico Miceli

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