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Da Oz al terrorismo. I segni dell’arte nella società

di Lorenzo Donati

Quando una società mette a fondamento dei suoi luoghi di potere la produzione di immagini, è lecito domandarsi quale spazio o ruolo possa ritagliarsi l’arte nel dominio dell’immaginazione. Se il confine fra realtà e finzione è diluito in un presente mediatico, viene il sospetto che siano paradossalmente poche le immagini che ci circondano, perché quelle in circolazione sono consumate, già servite con una corrotta e univoca decodificazione. Da qui potremmo partire per avvicinarci a due lavori di Fanny & Alexander, due rivoli produttivamente meno impegnativi rispetto agli ultimi Dorothy. Sconcerto per Oz e Amore (2 atti). Al Nobodaddy di Ravenna si sono visti insieme, nella forma del dittico, due spettacoli apparentemente antitetici eppure percorsi dalla stessa tensione. K.313, tratto dal Breve Canzoniere di Tommaso Landolfi, si apre con due attori, uomo e donna, che preparano la scena disponendo pochi oggetti su un tavolino. Una videocamera li rimanda sul grande schermo alle loro spalle, in un bianco e nero che rievoca la sgranatura dei video dei terroristi. Indossati dei passamontagna e seduti al tavolino, inizieranno un dialogo sulla poesia che scivola di continuo in una discussione amorosa, una richiesta dell’uomo di giudicare principi, sonetti e lettere che si risolverà in un’indagine sulla vita e sul linguaggio, spinto verso una «divina inconcludenza» come la musica di Mozart del titolo. Him pare un tentativo in questa direzione, e quello stesso schermo ora proietta il film Il mago di Oz di Victor Fleming del 1939. Sotto alle immagini sta un attore in ginocchio come dirigendo un’orchestra, impegnato a doppiare tutti i personaggi, dalla bambina Dorothy all’uomo di latta, dalla strega cattiva fino al ciarlatano mago di Oz. Ma c’è un dato ancora più evidente a unire i due lavori, ed è la scelta delle icone che veicolano il racconto: Marco Cavalcoli/Him dà voce al film nei panni di un Hitler bambino, citazione di un’opera di Maurizio Cattelan, mentre i dialoganti di K.313, sul finale, reclinano il capo evocando l’episodio del sequestro del pubblico al Teatro Dubrovka di Mosca da parte di terroristi ceceni. Perché il trascinante doppiaggio viene eseguito da una figura di morte? Come mai il precedente dialogo d’amore e d’arte si raggela citando la cronaca? Dopo la visione di questo dittico, ci accorgiamo che non sappiamo come maneggiarle, queste immagini, non possediamo nessuna etichetta pronta per archiviarle. Rimangono sospese, poi affondano con fastidio nel nostro bagaglio di codici interpretativi, infine, come un guizzo, riemergeranno insieme alla questione iniziale sul ruolo dell’arte in questa nostra società.

*Pubblicato su Hystrio n.2 2008

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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