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Coltivare l’invisibile. Conversazione con Ermanna Montanari

di Lorenzo Donati

Ospite del Festival internazionale “Giving Voice”, quest’anno organizzato nel mese di aprile a Wroclaw per le celebrazioni dell’anno grotowskiano, il Teatro delle Albe di Ravenna ha presentato a un pubblico internazionale la sua Ouverture Alcina. Abbiamo incontrato Ermanna Montanari per farci raccontare qualcosa su questo prezioso appuntamento biennale, e ne abbiamo “approfittato” per toccare questioni complesse come la voce, la pedagogia teatrale, il concetto di “non rappresentabilità”.

Ermanna, siete stati ad aprile in Polonia. Ci racconti come è andata, che atmosfera avete trovato?
Il festival “Giving voice” è un festival internazionale, con cadenza biennale, organizzato dal Centre Performing Research a Aberstweet, in Galles. In via eccezionale quest’anno si è svolto a Wroclaw, in stretta collaborazione con il Grotowski Institut. Le due strutture si sono messe insieme, organizzativamente ed artisticamente. E’ importante sottolineare che si tratta di un festival fuori da percorsi “alla moda”, incentrato su performance musicali e su un fitto percorso di workshop. Wroclaw è una cittadina più o meno della grandezza di Bologna. Ogni teatro, ogni edificio, è stato “invaso” dal festival: sinagoghe, chiese ortodosse e cattoliche, spazi utilizzati in passato da Grotowski, come lo storico Teatr Laboratorium, e il suggestivo edificio in mezzo alla foresta. C’erano artisti invitati da tutto il mondo: da uno zoccolo duro di addetti ai lavori (150 tra critici, accademici, studiosi, giovani attori), a tanti appassionati e “curiosi” di tutto quello che si muove attorno alle possibilità della voce umana. Noi, insieme a Meredith Monk, eravamo le proposte più “teatrali”, perchè la programmazione era costituita per la maggior parte da veri e propri concerti vocali. C’era per esempio un gruppo di cantori georgiani, meravigliosi, con un concerto all’interno della chiesa ortodossa. A un certo punto del concerto, il clima era divenuto talmente vibrante che il pope insieme agli altri religiosi in platea hanno cominciato a rispondere con i loro canti.

Hai citato Meredith Monk, con la quale c’è stato anche un incontro…
Sì, prima di incontrarci l’avevo solo ascoltata su cd. E ‘una fata settantene magnifica, fa questo spettacolo tutta vestita di rosso. Lei è piccola e sottile, con le trecce lunghe. Canta delle “canzonette” con sapienza e voce leggera, si accompagna col pianoforte. In questo siamo molto diverse, io faccio della recitazione un canto. Per me rimane fondamentale la parola, che diventa colonna, significato, oltre che immagine vocale.

Ci racconti che tipo di lavoro hai proposto ai ragazzi che hanno partecipato al tuo workshop?
Ho immaginato un lavoro che partiva dal percorso sulle “miniature”, che da due anni porto avanti con alcune adolescenti di Ravenna e con le attrici delle Albe, quelle che io chiamo “absidali”. A Wroclaw lavoravo con un grupo composto da attori austriaci, sudafricani, polacchi, inglesi, messicani. Alcuni erano più in relazione al canto, altri più in relazione al teatro. Non potevamo lavorare partendo da qualcosa che appartenesse a tutti, come un idioma. Occorreva trovare un sostrato comune differente, e ho pensato quindi al sogno. Ho chiesto loro di raccontare i sogni che avevano fatto la notte prima, oppure un loro sogno ricorrente. Il sogno è per me la drammaturgia della nostra creatività notturna, quella che cerchiamo poi di mettere in opera durante il giorno. Siamo partiti con i racconti dei sogni, tutti abbastanza sorprendenti. Li ho messi a coppie, cercando delle analogie. Due di loro avevano fatto sogni erotici. Un’altro aveva un sogno ricorrente relativo alla morte, e ha lavorato con una persona che sognava di perdersi in una città svegliandosi quando perdeva il respiro. Cito questi come esempi emblematici, il lavoro si è poi sviluppato attraverso le azioni fisiche.

Possiamo fare qualche esempio concreto?
Una di loro aveva sognato di essere una macchina da cucire, e che stava cucendo un pene. Le ho così chiesto di agire come una macchina da cucire, rielaborando il rumore della macchina con la voce. Un altro aveva sognato di essere in una piscina, nudo, ma la piscina diventava gelatinosa e lui non riusciva più a districarsi. Ho messo in relazione i due attori e i loro sogni, aiutandoli a elaborare una drammaturgia autonoma, un dialogo scenico fondato sulla relazione vocale. E’ stato un grande divertimento, ognuno di loro è riuscito a farsi specchio della drammaturgia dell’altro. Alla fine, mi hanno confessato che nessuno di loro si era mai trovato a lavorare in questo modo, partendo da materiali “propri”, e intimi. Non vi era nulla di imposto. Ho proposto il mio “modo”, che parte dai sogni, dall’abisso che mi propongono.

Mi pare di capire che l’incontro col tuo modo di lavorare abbia messo i partecipanti di fronte alla questione della libertà, che poi va fatta passare per un rigore profondo di scavo e presa di coscienza…
Gli attori erano molto contenti, mi hanno raccontato di avere avuto parecchie esperienze formative in cui veniva loro proposta una tecnica, alla quale dovevano adattarsi. In questo caso, invece, avevano la sensazione che fossi io ad adattarmi a loro. Credo che sia stato un rapporto alchemico, io ho lavorato sulla materia dei loro sogni, e tale materia aveva per loro una senso tangibile, una visione concreta da sviluppare e in cui districarsi. All’interno di tale processo di lavoro, portavo particolare attenzione agli attacchi vocali, a quella che è la dimensione di un suono, lirica, drammatica, comica o più adatta al canto.

Parliamo ora dell’Ouverture. Come nasce l’idea di tornare a lavorare su L’isola di Alcina, che cosa ha comportato, che rapporto c’è fa questa nuova versione e il lavoro originario?
Luigi Ceccarelli mi aveva chiesto di riprendere L’Alcina, che da qualche anno non andava più in tournèe. Più che riallestire lo spettacolo, ho pensato che si poteva lavorare sul fantasma di Alcina. Così insieme a Marco abbiamo azzerato tutto, scene luci e figure, passando dallo spettacolo del 2000 a questa versione di “concerto”. Ora io indosso l’abito nero della Cazzafuoco (il personaggio di Sterminio interpretato da Ermanna Montanari nell’omonimo spettacolo del 2007, vincitore di quattro premi Ubu fra i quali “migliore attrice dell’anno”, n.d.r), in un buio spazio attraversato da lampi di luce. Sul viso ho la biacca bianca, come l’aveva Alcina, e in mano una calla. E’ la manifestazione di un fantasma che fugge, ma non si sa dove fugga, incalzato dalla musica di Ceccareli e sorpreso dai “tagli” di luce che ha costruito Marco, come delle ferite attraverso le quali emergo. In questo modo, l’Ouvertureesalta la natura di concerto dello spettacolo da cui è tratta, mettendo in primo piano il combattimento, il continuo andare e venire, tra la partitura elettroacustica di Ceccarelli e la mia partitura vocale.

Una volta, interrogata a proposito, dicesti che la voce da sola è una domanda. Mi chiedevo, stando sul lavoro con Ceccarelli, cosa diventa la musica per la voce. Si può parlare di architettura, o essendo un combattimento va considerata “altra”, come uno straniero?
Tutte queste cose che dici. E’ chiaro che nell’Alcina l’architettura è sia vocale che musicale. Quando abbiamo iniziato a lavorare, Ceccarelli scrisse la musica per corno, suonato a fiato e rielaborato elettronicamente. Aveva un’unico strumento di riferimento, così come la voce era un’unico strumento e insieme dovevano incontrarsi e scontrarsi. Luigi mi faceva sentire dei suoni, ai quali io “rispondevo” con i miei suoni vocali. La sua musica era un totale artificio, e io stessa uso la voce sempre come artificio. L’artificio è già di per sé architettura. La voce è una domanda perchè la voce ci trascende nel momento stesso in cui ci è data. La voce che siamo, bisogna partire da lì.

Dove si colloca, in questo contesto, l’uso del dialetto romagnolo?
Il dialetto romagnolo è una lingua ultralocale, morta, per molti sconosciuta. Ma ha una musicalità potentissima. Ha lo stesso effetto che hanno su di me i canti georgiani e iraniani o quelli dei tenores sardi. Quando restiamo incantati davanti alle chiese di Borromini o di Bernini, così diversi nel costruire, non ci chiediamo mai “cosa significano”, piuttosto intuiamo, ognuno con la propria emozione, percepiamo un senso di grande bellezza nel comporsi di tanti segni e linguaggi.

Se la voce è una domanda, forse si possono ricostruire alcune delle richieste che essa pone, anche considerando la diversità delle figure che hai portato sulla scena.
Le domande, nella pratica scenica, sono ogni volta diverse. Alcina è malata d’amore ma non può “morirne” (è una fata!) , questo è il suo cruccio. Isis, in La mano, è una figuretta che gira in tondo in cerca di un centro, cerca invano il fratello morto, grande rocker suicida. Due abissi, e nello spettacolo io do voce a entrambi. Ancora differente è l’interrogazione di Rosvita, in cui debbo dare voce a un intero teatro di marionette, a imperatori, come Diocleziano, al governatore Dulcizio, ai soldati, alle prostitute che si redimono all’improvviso, e si gettano sul fuoco, e gridano “prendimi!”, a tutte quelle che non hanno preso aria. Debbo farmi coro, in me sola. Alfred Jarry amava Rosvita per il suo essere antipsicologica, per il suo antinaturalismo. Le “domande” di cui stiamo parlando si presentano solo quando si è pronti, quando si sprofonda nella materia scenica.

Anche Rosvita è un lavoro che hai ripreso, rimettendolo in scena a distanza di anni…
Alcuni lo hanno definito un concerto punk. La questione che solleva è politica: «Come posso non piegarmi alla dittatura del presente?». Rosvita presupponeva un mondo metafisico, come a dire che c’è qualcosa che ci supera, che non sta rinchiuso nel nostro egotismo. Questo ha a che fare con la ripresa, diciassette anni dopo, in una versione completamente mutata da quella del ’91, ora siamo su una pedana bianca inondata di luce, una zattera alla deriva, un richiamo alla nave dei folli. Parlare di politica attraverso un atto poetico, come qualcuno ha scritto, era proprio il mio intento. Ci sono anche i canti gregoriani: Diocleziano ne rideva, non ne poteva più, diceva che era necessario tagliarle quelle teste che osavano cantare a un altro dio in sua presenza.

Come ultima domanda, mi premeva tornare sull’accenno che hai fatto al laboratorio delle “absidali”. In quel percorso, spesso insisti sul concetto di “non rappresentabilità”. Volevo chiederti due parole su questo, sapere se si tratta di una prospettiva che poni anche nei workshop all’esterno, e come si concilia con l’anima “pubblica” dell’attore.
Quando parlo di “non rappresentabile” intendo una modalità di lavoro, che per necessità deve restare appartata. Per me è fondamentale. Il laboratorio delle “absidali” non ha fini produttivi, ovvero di “rappresentazione”, e proprio lì sta il suo senso. Se mi abituo, in quanto attrice, ad avere un tempo sì, sulla scena, sì a creare azioni e voci, ma liberato dall’urgenza produttiva, quel tempo genererà in me una “ricchezza” che un domani (o quel giorno stesso!) mi farà da nutrimento al desiderio di “rappresentare”. E’ un coltivare l’invisibile, il privato, il sogno, affinché possa domani nutrire il visibile, l’atto “pubblico”.  

Fotografia di Claire Pasquier

L'autore

  • Lorenzo Donati

    Tra i fondatori di Altre Velocità, è assegnista di ricerca presso il Dipartimento delle Arti all'Università di Bologna, dove insegna Discipline dello spettacolo nell'intreccio fra arte e cura (Corso di Educazione professionale) e Nuove progettualità nella promozione e formazione dello spettacolo al Master in Imprenditoria dello spettacolo. Immagina e conduce percorsi di educazione allo sguardo e laboratori di giornalismo critico presso scuole secondarie, università e teatri. Progettista culturale, è tra i fondatori di Altre Velocità e dal 2020 co-dirige «La Falena», rivista del Teatro Metastasio di Prato. Fa parte del Comitato scientifico dei Premi Ubu. Usa solo Linux.

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