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L’invisibile armonia di “Circo Kafka”

di Giuseppe Di Lorenzo

«Un maestro di fiori comincia la lezione sciogliendo con precauzione il legaccio che stringe i fiori e i rami fioriti, e dopo averlo arrotolato con cura, lo mette da parte. Considera quinti i singoli rami, dopo ripetuto esame ne sceglie i migliori, dà a essi, piegandoli delicatamente, la forma che devono assumere secondo la loro funzione e finalmente li dispone in un vaso appositamente scelto. La composizione, al suo termine, appare come se il maestro avesse indovinato ciò che la natura sogna nei suoi sogni oscuri»

Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, 1948

Come il maestro di kadō (“la via dei fiori”, arte zen giapponese), anche Claudio Morganti preferisce l’imitazione piuttosto che la spiegazione. Questo perché l’imitazione permette di sondare ciò che è ambiguo senza il peso asfissiante della logica, seguendo piuttosto la strada dell’intuizione. Circo Kafka (una produzione Teatro Metastasio di Prato/TPE – Teatro Piemonte Europa vista in prima assoluta al teatro Magnolfi di Prato) vede un Morganti regista affrontare Il processo di Kafka confrontandosi con l’umorismo irrequieto del grande scrittore di Praga, mettendo su un piccolo e laborioso circo. Lo spettacolo, con Roberto Abbiati in scena che ritrova Johannes Schlosser (rumorista, musicista e illuminotecnico), dura solo 50 minuti e la sua densità non si misura nelle parole, come sarebbe lecito aspettarsi, quanto nel suo adattarsi nevroticamente alle immagini suggestive del romanzo. L’unica citazione che ci viene concessa dal testo originale è in un foglietto in cui ci viene ricordato che «qualcuno doveva aver calunniato Josef K.»; per il resto, Morganti preferisce di gran lunga imitare il romanzo, liberarne la forza evocatrice, consegnarlo nel modo più empirico possibile. L’assurda scenografia che vive, respira, suona e cade fa il paio con i balbettii, i versi e le risatine di Abbiati, che vivono come in una simbiosi cronemberghiana scherzosa mentre lo storto registro musicale fiorisce di didgeridoo, fisarmonica, cornamusa e pure un contrabbasso con una corda sola, costituendo un puzzle timbrico degno di una suite di Gershwin. Questa matassa giocosa sembra il residuato di una vecchia casa abbandonata da un secolo, oggetti inutili, brutti e inutilizzabili, eppure, proprio come il maestro di kadō, Morganti assembla una scenografia che dialoga continuamente con lo spettatore, diventa tribunale, camera da letto e camera mortuaria con microscopici interventi di illuminotecnica e meccanica. A volte è lo stesso Abbiati che accende e spegne ritmicamente le luci e provoca coloratissimi rumori, mentre Schlosser interviene spesso in accordo con un gesto o un verso dell’attore, il tutto senza soluzione di continuità. Oltre ad Abbiati c’è pure un’effige di Josef K., un manichino di legno che sotto la suola della scarpa sinistra ha scritto “Perizia”, che nel linguaggio giuridico odierno, non troppo diverso da quello rocambolesco e asfissiante de Il processo, ha diverse accezioni. Ed è buffo pensare che anche Franz Kafka di perizie ne avesse fatte parecchie, dato che a Trieste si occupava di assicurazioni nell’ambito degli infortuni sul lavoro.

Mi rendo conto che sia difficile descrivere questo spettacolo senza scadere nella lista della spesa, ma Circo Kafka è talmente saturo e veloce che non ci si crede: è come una serata al circo da bambini, in cui forse ci aspettava più risate e più sconcerto, ma non per questo risulta meno efficace. L’ironico spaesamento è il punteruolo registico che Abbiati ci aveva già anticipato in un’intervista su Altre Velocità, illuminandoci con un’affermazione di Morganti: «Kafka leggeva Il processo ai suoi amici e loro ridevano tantissimo». Durante Circo Kafka non si ride a crepapelle, ma sicuramente sogghigniamo parecchio. Abbiati sbuffa e si dimena come un clown, s’appisola su una sedia invisibile ed enuncia un monologo con l’armonia a bocca: eloquente come un Marcel Marceau, il parossismo parodico di Kafka si tinge di diverse intonazioni. C’è però un momento in cui la parola s’interpone e rompe lo schema di continua e irrequieta digressione, e questo avviene circa a metà spettacolo: Abbiati si ferma e chiede a Schlosser se non dovesse intervenire a quel punto della pièce con una certa canzone. Nasce così un’equivoco che si trasforma anch’esso in un’ulteriore digressione, proprio secondo il canone kafkiano, e Abbiati “improvvisa” una filosofia della bicicletta. Come la catena della bicicletta, così anche gli organi della gallina e il movimento del sole hanno qualcosa in comune, ovvero che, sebbene di natura diversa (il primo meccanico, il secondo biologico e il terzo cosmico), sono tutte urgentemente in moto (la prima se pedalata, il secondo per necessità darwiniana, il terzo come effetto collaterale del big bang) e prima o poi il loro moto cesserà e dovranno fermarsi. Proprio di questa terribile armonia parla Il processo: Josef K., da quando viene svegliato dall’irruzione delle guardie, vive in un costante stato di assedio, non è mai davvero libero anche se apparentemente lo è, e ogni volta che pare fare un passo avanti per il processo scopre in realtà che è ancora al punto di partenza. Perfino quando incontra la persona di maggiore influenza verso il tribunale, un pittore mendicante, questi gli rivela che esistono solo due modi di riuscire nel processo: rinviare all’infinito oppure con un’assoluzione apparente. In nessuno dei due casi, dunque, viene presa in considerazione l’assoluzione definitiva: una metafora superlativa della moderna vita super-burocratizzata che Abbiati evoca nella sua “filosofia”: mossi da un moto senza motivo apparente, sempre accusati e colpevoli di qualcosa, in attesa che la morte ci assolva.

La morte e il vuoto vengono costantemente richiamati durante Circo Kafka. Verso il finale Abbiati si veste di tutto punto e fa per andare via dal teatro, si avvicina quatto quatto all’uscita quando una voce dall’oltretomba lo richiama: «Josef!». Il poveretto salta dallo spavento ma tenta comunque di proseguire, arriva perfino a mettere le mani sulla maniglia quando di nuovo: «Josef!». Allora si ricompone, butta all’aria tutti i vestiti e torna in scena. Nel romanzo è il sacerdote delle carceri a richiamare K. al suo dovere di imputato, ma nella cornice onirica dello spettacolo la fuga di K. sembra quasi una fuga dal suo dovere di personaggio. Un po’ come nel precedente lavoro di Morganti Il caso W., anche qui affrontiamo i fantasmi del secolo scorso, il povero signor K. che è anche Kafka ma è sopratutto un simulacro vivente delle angosce e delle ansie dell’età moderna, è un fantasma come Woyzeck, la sua dimensione letteraria gli sta stretta e così vive e respira e cammina in mezzo a noi.

Josef anela il vuoto, vorrebbe scappare da questa sua condizione di irrilevanza nei confronti di un destino che ha perso Dio per trovare a suo posto una Giustizia cieca e irragionevole. Ma è lui stesso sintomo della sua malattia, così come quando cerca di dormire, si corica sul letto, spegne la luce e quasi subito un fastidioso scampanellio lo sveglia. O come la sedia messa di lato che a fine spettacolo s’innalza verso la luce, una metafora della storia che il sacerdote delle carceri racconta a K., di un uomo che attende stoicamente che vi venga aperta la porta che conduce alla “Legge”, considerato nella mutevole metafora del sacerdote come un uomo libero, sebbene passerà su quella sedia tutti gli anni rimanenti della sua vita fino a intravedere una luce dalla porta, poco prima di morire. L’invisibile armonia di Circo Kafka riesce nell’intento di evocare in scena la narrazione digressiva e cangiante dello scrittore di Praga e il registro sognante e ironico di Morganti trova concordanza con la sua messa in scena apparentemente confusionaria, quasi come se il maestro avesse indovinato ciò che la natura sogna nei suoi sogni oscuri.

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