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Che cos'è il teatro partecipativo?

di Altre Velocità

Il teatro partecipativo di Roger Bernat a cura di Cristina Valenti in collaborazione con Carmen Pedullà. Il progetto prevede tre appuntamenti: la conferenza spettacolo Fanny & Alexander To be or not to be Roger Bernat (29 Marzo, ore 21.00); la tavola rotonda Forme della partecipazione (30 Marzo ore 16.00); la performance di Roger Bernat_FFF, Domini Pùblic (31 Marzo, ore 18.00). Il progetto propone una riflessione e un approfondimento sul teatro partecipativo, una pratica volta a superare la rigida distinzione tra spettatore ed evento scenico attraverso il coinvolgimento attivo del pubblico all’interno della dinamica performativa. Gli spettatori diventano infatti spett-attori e co-autori della scena. Domini Pùblic di Roger Bernat consentirà al pubblico di provare un’esperienza in tal senso: allo scopo di sperimentare quelle che sono le dinamiche sociali sottese alla partecipazione ludica, gli spettatori saranno invitati ad esperire la performance sulla base di indicazioni date loro in cuffia. Quella del teatro partecipativo è un’attività multiforme e sfaccettata, da alcuni apprezzata, da altri guardata con sospetto; questa scheda, senza la pretesa di una risposta definitiva, cerca di fare un po’ di chiarezza intorno a i tanti interrogativi, mettendo in luce i diversi punti di vista sulla questione. Quando e come nasce il teatro partecipativo/relazionale? Il ruolo dello spettatore ha catalizzato l’attenzione dell’attività teatrale. Questo nuovo modo di pensare il teatro ha forse origine da un percorso iniziato nella seconda metà del Novecento, momento in cui i registi hanno sentito il bisogno di lavorare a stretto contatto con corpi “non professionali”, capaci di rappresentare in maniera più veritiera le complesse identità sociali. In queste esperienze rientrano il cosiddetto “teatro sociale”, “teatro popolare” e “teatro dilettantesco”; ovvero tutti gli ambiti teatrali in cui sono chiamati a recitare figure ai margini della società, portatrici di un significato intrinseco: con la loro presenza si mettono di fronte al pubblico una serie di interrogativi che vanno oltre la recitazione, introducendo problemi sulla realtà che ci circonda; come spiega Rodolfo Sacchettini: «I “teatri delle diversità” sono stati per molto tempo, e continuano in alcuni casi a essere, le strade più eclatanti per interrogarsi sul binomio, quanto mai discusso, di “teatro e realtà”» (https://www.altrevelocita.it/teatridoggi/11/la-qualita-dellaria/153/la-realta-a-teatro-domande-aperte-allultima-stagione.html) L’arte relazionale nasce negli anni Novanta partendo da questi “teatri delle diversità”, ma se ne distacca introducendo altri temi e diverse modalità di recitazione. In questa nuova prospettiva non c’è la volontà di denunciare classi sociali emarginate o porre dinanzi al pubblico una critica sociale: l’intento principale del teatro relazionale è quello di coinvolgere il pubblico nella riproduzione scenica, allo scopo di rendere lo spettatore consapevole del proprio ruolo. Il teatro relazionale cerca di avvicinare il pubblico alla realtà, usando linguaggi specifici che riescono a tradurre sulla scena il mondo che ci circonda. Le modalità attraverso cui si esprime questo nuovo modo di fare teatro sono molteplici: il coinvolgimento del pubblico può basarsi su giochi di ruolo, oppure su dispositivi virtuali, che diventano parte integrante dello spettacolo. La nascita delle neuroscienze e lo studio del pubblico Secondo Guy Debord, teorico della società dello spettacolo, «la passività dello spettatore diventa la regola di comportamento delle masse contemporanee». Dunque il teatro relazionale, che tende a riattivare il ruolo del pubblico, può essere visto come un mutamento di paradigma straordinario: lo spettatore è stato rivalutato parte attiva nello spettacolo, poiché, come spiega Richard Schechner, «è co-responsabile del significato della performance». Molte esperienze performative, che cercano di rendere partecipi gli spettatori, assegnano al pubblico un ruolo attivo. Lo sviluppo delle neuroscienze ha dato un enorme contributo a queste ricerche sul ruolo “attivo” del pubblico, infatti una gamma di oggetti ci permette di indagare “il lavoro delle spettatore” in tempo reale. Questi nuovi strumenti scientifici riescono a misurare l’attività celebrale del singolo spettatore: ad esempio, attraverso l’esame dell’EEG, si può dedurre il tipo d’immagine che il soggetto ha difronte. Ovviamente l’EGG è uno strumento fruibile solo in laboratorio, ma esistono strumentazioni più semplici in grado di monitorare l’attività dello spettatore. Di recente è stato messo in commercio un bracciale dotato di quattro sensori (PPG), che descrive le variazione delle pulsazioni e della pressione sanguigna, e su questa base calcola l’impatto emotivo dell’opera teatrale sullo spettatore. Questi nuovi dispositivi per chi si occupa di teatro si rivelano molto utili, consentono di capire come reagisce un pool di spettatori difronte ad una rappresentazione teatrale: «Secondo questa “estetica autoptica”, il meno qualificato a parlare dell’evento è proprio chi vi ha partecipato: parlano per lui i dati rilevati dai vari sensori, raccolti e accuratamente analizzati dai “tecnici”. Lo spettatore, il pubblico, torna oggetto passivo: se non dell’evento spettacolare in cui magari viene “scatenato”, almeno dell’analisi delle sue reazioni e del suo comportamento» (Oliviero Ponte di Pino, http://www.ateatro.it/webzine/2015/07/31/fenomenologia-dello-spettatore/) [caption id="attachment_1169" align="aligncenter" width="767"] No title Yet di Kinkaleri[/caption] Rendere partecipe il pubblico cambia il modo di fare teatro? Sicuramente il teatro relazionale sente il bisogno di costituire un rapporto più stretto con il pubblico; ma l’analisi scientifica di quest’ultimo è davvero efficace? È uno strumento valido su cui il nuovo teatro può porre le sue basi? Durante il secondo convegno internazionale del progetto europeo Prospero, Il teatro e i suoi pubblici: la creazione condivisa (2012), moti punti critici sono emersi rispetto al futuro di questo teatro partecipativo, soprattutto in merito alla fenomenologia dello spettatore. Durante il convegno sono stati dedotti tre possibili livelli di studio nell’analisi del pubblico, ovviamente livelli che s’intrecciano profondamente fra loro:

  1. L’analisi del pubblico rispetto allo spettacolo cui prende parte
  2. L’analisi del pubblico rispetto al contesto sociale in cui è inserito
  3. L’analisi del pubblico rispetto al contesto storico
Dunque, lo studio del pubblico prevede un climax ascensionale, che parte dalla performance teatrale fino ad arrivare al contesto storico in cui è inserito, ovviamente attraversando il piano sociologico. Come per ogni altra arte anche il teatro vive per il pubblico; non si è mai visto uno scrittore che scrivesse e pubblicasse solo per se stesso, e lo stesso vale per il regista, che crea l’opera per un fine, ovvero per essere guardata lo spettatore. La prima riflessione sul pubblico riguarda la sua passività, che nell’immaginario comune si contrappone all’attività dell’attore; ma è davvero così? Secondo Marco De Marinis, si è affermata addirittura una «ideologia partecipazionista» che ha le sue radici nelle rivoluzioni teatrali del primo Novecento, che hanno messo al centro la relazione attore e spettatore. (http://www.ateatro.it/webzine/2012/10/20/dossier-larte-dello-spettatore-per-una-fenomenologia-del-pubblico-teatrale/) Ma cosa vuol dire rendere partecipe lo spettatore? Una delle derive possibili vedrebbe lo spettatore inserito fisicamente nello spazio dello spettacolo e spinto ad agire, a fare. In una versione più radicale, si eliminano sia gli attori sia gli spettatori, che diventano tutti «partecipanti» all’evento. Esistono molti dispositivi partecipativi: dispositivi dialogici, deliberativi o estetici; ma tutti questi messi per far partecipare il pubblico rischiano di snaturare la natura dell’opera teatrale. [caption id="attachment_1171" align="alignleft" width="1200"] The evening di Richard Maxwell[/caption]   Staticità dello spettatore e molteplicità dei pubblici Una seconda strada per affrontare il nodo della passività dello spettatore parte dal presupposto che attore e spettatore siano elementi costitutivi dell’evento teatrale proprio nella loro irriducibile differenza: se lo spettatore rimane fisicamente fermo non vuol dire che smetta di pensare difronte all’opera che si svolge davanti ai suoi occhi. Osservare non per forza vuol dire essere passivi, anzi, potrebbe essere il vantaggio dello spettatore rispetto all’attore. Per dirla con le parole di Jacques Rancière, il consumatore di prodotti culturali (non solo teatrali) è un “osservatore distante” ma un “partecipante attivo”. Negli ultimi decenni l’idea di pubblico si è evoluta moltissimo: il pubblico, ad oggi, non è più visto come un’entità monolitica indifferenziata. Negli anni ’80 e ’90 il pubblico è stato piuttosto valutato come un aggregato statistico, diviso in tanti settori in base alla distribuzione sociale degli spettatori: esistendo una molteplicità di pubblici si sono andato a delineare vari teatri, ognuno dei quali tende a soddisfare le pretese del proprio pool di spettatori: Pubblici diversi cambiano il dispositivo teatrale. Diventa dunque importante lavorare sulla molteplicità dei pubblici, anche perché questa varietà regala all’artista il margine di incertezza indispensabile al processo creativo. In concreto di cosa si tratta? Contemporanea Festival 2016 (Prato) è stata un’importante occasione di confronto con esperienze concrete di teatro relazionale, ma anche di approfondimento intorno alle implicazioni e riflessioni che questa pratica porta con sé. Dalla conferenza di Claudio Morganti, che ha condiviso con il pubblico le sue riflessioni sul senso e la sostanza del teatro a partire dall’indagine sul ruolo dello spettatore, si è passati ad una programmazione nella quale le diverse performance prevedevano le più svariate modalità di coinvolgimento attivo del pubblico. Tra queste troviamo lavori di carattere esperienziale, in cui lo spettatore è al centro, coinvolto in quanto persona. Esempi in tal senso sono stati Todo lo que está a mi lado Ferdinando Rubio, che, in una ambientazione urbana, fa partecipare una sola persona alla volta; o come la performance-installazione by NN di Katia Giuliani al Metastasio, in cui lo spettatore si trova solo, con in mano carta e penna su cui poter scrivere e lasciare un proprio pensiero. Il teatro relazionale porta con sé anche un’indagine sullo spazio performativo, che diventa luogo di condivisione tra attori e spettatori, come nel lavoro di Kinkaleri, No Title Yet, in cui il pubblico, in uno spazio riempito dalla sola musica, iniziano a ballare quasi fossero in un locale, dal momento che lo spettacolo pare non avere inizio. A loro si aggiungeranno i danzatori e un fotografo che cattura le immagini di ciò che sta accadendo tra performer e pubblico, poi proiettate ingigantite sui muri circostanti. In questo modo, dunque, le modalità di fruizione della performance mutano totalmente e non è più chiaro quale sia il vero spettacolo. Il lavoro di Kinkaleri, facendo tesoro di esperienze come l’happening e il clubbling, ripropone la questione dello spettatore e del suo coinvolgimento, come scrive Roberta Ferraresi: «Quella dell’essere insieme, performer e spettatori, persone, a fare – ma soprattutto a vedere- uno “spettacolo”, tanto gli uni quanto gli altri» (http://www.doppiozero.com/materiali/spettatoriattori) The Evening di Richard Maxwell: uno spettacolo tradizionale o un’esperienza di teatro relazionale? Richard Maxwell, drammaturgo e regista della compagnia New York City Players, attore di professione, con il suo spettacolo The Evening (primo debutto alla Biennale di Venezia nel 2005) lavora sullo smontaggio della rappresentazione e sulla decostruzione della messinscena , sulla base di un ripensamento del rapporto tra teatro e realtà. La trama è (apparentemente) semplice e banale: una giovane cameriera-prostituta di un bar di provincia vuole lasciare tutto per cercare qualcosa di meglio altrove, ma la notizia provoca reazioni contrastanti dei clienti. Ma questo scappare che aleggia nell’aria pare essere impossibile, un sogno, un’attesa, al pari di Godot (per approfondire la trama: http://www.doppiozero.com/materiali/il-teatro-del-reale-richard-maxwell). Lo spettatore si trova di fronte ad una scena realistica e quasi priva di profondità, dal momento che si sviluppa in pochi metri e gli attori paiono muoversi in un ambiente bidimensionale. Trama e scena, dunque, rimandano ad un teatro di impostazione tradizionale, ma la classica relazione platea scena si incrina fin dall’inizio sia attraverso lo svelamento della finzione, sia attraverso lo sfasamento tra attore e persona. Come spiega Rossella Menna, l’attore in questo lavoro si può definire “attore-persona”, il quale non viene «assunto nella dimensione teatrale come sé (il performer) , ne come altro da sé (il personaggio) come come sé-in-scena, come persona colta nell’atto di fare i conti con la dimensione teatrale» L’attore fa scaturire da sé il personaggio, il quale già esiste in ciascu interprete, in una sorta di strategia a “togliere” (http://www.doppiozero.com/materiali/il-teatro-del-reale-richard-maxwell) Quindi: «Contro il realismo si impone allora il reale, una sincerità esasperata, che si manifesta nella monotonia tonale che scaturisce dalla dizione mnemonica di un dialogo che non si finge improvvisato, oppure in una impennata affettiva che non risponde ad alcuna logicità ma piuttosto a una urgenza intrinseca dell’attore in un dato momento dello spettacolo, nella irritante sensazione di uno sforzo non celato di ricordare le battute, e così via» A questo punto lo spettatore, consapevole di trovarsi di fronte a meccanismi di decostruzione dello spettacolo, comprende che i temi proposti dall’opera (la fuga impossibile, l’altrove, l’impotenza) posso avere significati molteplici: non solo mimetici, dunque, legati all’Inferno dantesco da cui è tratta l’opera, ma anche riflessione sul teatro e i suoi principi. Lo spettatore è in platea, ma è attivo intellettualmente: lo spettacolo, attraverso l’ostentazione di una rappresentazione decostruita, vuole invitare il singolo spettatore a crearsi un proprio punto di vista, a pensare e riflettere andando oltre ciò che vede accadere in scena, rivedendo il proprio concetto di teatro, esattamente come fa l’attore. È chiaro dunque come spettatori e performer non paiono più così distanti.  

A cura di Ilaria Cecchinato e Gisella Governi

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