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Che cosa pensano gli studenti del teatro in streaming? Un dibattito aperto

di Altre Velocità

Mentre gli attori, i critici, i teatri e tutti i coinvolti sono stati impegnati in un esteso dibattitto ̶ che ha la forma di meetings su zoom, post e videoconferenze ̶ sull’essenza e l’etica del teatro, su quanto sia necessaria la mobilitazione della cultura in streaming, su quanto questo sia un adattamento funzionale o un palliativo inconsistente, potremmo chiederci: che posto occupano gli studenti universitari in questa diatriba forse ormai un po’ sterile? Ne occupano uno?
Cosa ne pensano gli studenti universitari dell’avviluppata diatriba costruita attorno i due «schieramenti», dei «silenti» e dei «presenzialisti» come definiti da Enrico Piergiacomi? (ne parliamo qui: http://www.bolognateatri.net/2020/04/24/streaming-si-streaming-no-streaming-forse-un-dibattito-in-sintesi/)? Noi di Bologna Teatri siamo giovani, quasi tutti studenti e vogliamo prendere la parola.

Siamo numerosi e le nostre molteplici idee riflettono un poco la disgregazione del mondo del teatro e della cultura italiana ma di questo ne parla Altre Velocità qui: https://www.doppiozero.com/materiali/dobbiamo-provarci-tutti.

Prendiamo la parola invitandovi a un simposio che è frutto di un intercambio di opinioni interno, trascrizione di una conversazione spontanea con l’aggiunzione di alcuni inserimenti di chi ha potuto scrivere e ponderare un po’ di più le parole dette, rispetto a chi si ritrova fragile in un’improvvisazione inaspettata. Ma si sa, nella spontaneità è racchiusa una forza, quella della purezza. La domanda attorno cui si smembra la conversazione è: «Che ne pensiamo noi di questo teatro in streaming?»

M. (22): «Non riesco a fare critica ora su quel residuo di teatro che è rimasto, su quell’osso di seppia, direbbe Montale. Mi assento. “In questi giorni…” È scritto così in quasi tutti gli articoli con quel deittico prepotente che vuole fuorviarti e ingannarti come a dire “sono questi, i giorni, non quelli…” Invece i giorni sono gli stessi a quelli di ieri. 24 ore, 1440 minuti, 86400 secondi. Dovrei seguire le letture in streaming dei tanti attori che si stanno donando per tentare di tener vivo ciò che ormai non è. Dovrei. Ci ho provato, giuro. Ma intrufolarmi nelle case degli attori, vedere quel quadro appeso, quella foto incorniciata sulla scrivania che racconta di te… no, non mi va. Non voglio conoscere la tua vita, la crepa sul muro della tua casa, la biblioteca gigantesca che sfoggi in un celato “voglio convincerti che sono intelligente”, e pensare che tu lo sia anche senza avermelo dimostrato coi libri. E poi le pareti. Perché hai scelto la tinta bianca e non verde? No, non voglio entrare nella tua vita. Sul palco mi confessi di te non confessandoti, mi parli di te non parlando di te.»

R. (23): «Cos’è il teatro? Questo dovremmo chiederci. Io credo che il teatro sia una forma d’arte simbolica capace di legare realtà e mondo delle idee attraverso l’immaginazione. Il teatro, allora, non è in ciò che vediamo, neppure ciò che sentiamo, siamo noi il teatro: la nostra soggettività, la nostra esperienza, la nostra vita intera che si ferma per una manciata di minuti a capire chi è davvero, chi siamo davvero. La performance in una scenografia è lo specchio di noi stessi nella quotidianità che tanto ci attanaglia. Spesso andiamo a teatro, così come al cinema, per fuggire dalla realtà per rifugiarci in una storia che, senza rendercene conto, è la nostra storia: desideri, paure e conflitti.
Fuggire in sala o ritagliarsi un posto in casa, dal vivo o su uno schermo, poco importa, noi siamo affamati di storie, poi di persone e luoghi: altrimenti potrei soffermarmi sul ciuffo decisamente terribile di un attore, fantasticando se sia voluto o meno, se lo porta tutti i giorni, cosa ne pensa la moglie che magari è in sala e arde di gelosia quando con quel ciuffo bacia un’altra donna sul palco. Qual è la differenza tra questo fantasticare e quello su uno schermo? Allo stesso modo, vedendo una foto di coppia incorniciata dietro l’attore posso immaginare la moglie che tiene il telefono e gli fa le smorfie mentre lui cerca di recitare solennemente l’Amleto trasformando un monologo in un “essere, o non essere (sposati), questo è il dilemma”.
Nulla potrà mai eguagliare la visione dal vivo che si presta, nelle sue atmosfere, a immergere più facilmente lo spettatore nella storia ma non per questo il teatro muore fuori dalle sale. Perché il teatro non è lì, il teatro è nelle nostre esperienze, nelle nostre facoltà immaginifiche e mentali capaci di immergersi in ambienti scarni o ricchi che con pochi oggetti sono capaci di metafore molto più grandi. Lo streaming, gli schermi piccoli, i podcast sono strumenti fondamentali per l’informazione del teatro che, però, non è riuscito o non ha voluto spingersi più in là. Ci voleva un’emergenza planetaria per rivalutare qualcosa che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che ha molto da offrire seppure smaterializzando e ri-materializzando volti e sensazioni molto lontane. Il teatro sta cambiando e con lui anche le abitudini dello spettatore, ma il bello delle forme d’arte è proprio questo: possiamo scegliere di quale categoria far parte. Goldoni diceva che “il teatro è la vita e la vita è il teatro”, se questo è vero, allora il teatro è trasformazione, figlio ed espressione del mondo che ci circonda, un mondo in cui i volti e le relazioni sono più digitali che reali, un mondo capace di superare la freddezza di uno schermo e vivere le emozioni di un soffio su una candelina, lacrime di gioia un po’ amare, palpabili anche a chilometri di distanza.»

M. (M non è uno studente, è un critico con anni alle spalle che fa da mentore ai giovani. Ve ne renderete conto in fretta): «La riflessione è bella ma va storicizzata! Credo che il miscuglio tra rappresentazione e realtà, tra finzione e verità, una delle tensioni a trovare la ricetta alchemica di ogni forma di creazione, vada esplorata nei contesti, e così la verità anche prosaica di certi spettacoli d’oggi prova a rompere la finzione insopportabile della pseudo verità da studio televisivo: in un circolo che non sai dove inizia e dove finisce. Vi cito un passo dell’ultimo romanzo di Walter Siti:

“Esiste il romanzo verità? La verità ha a che fare con la scienza e la giurisprudenza, non con la letteratura né con la vita. Si mente narrando come si mente vivendo, se è menzogna riportare il finito all’incommensurabile – l’incommensurabile è sempre con noi, qualche volta ci precipita addosso all’improvviso e altre volte ci stuzzica, ci provoca, per tutto il tempo della nostra durata. Viviamo chiedendo alla vita quel che la vita non può dare, proiettiamo nel vuoto i nostri dèi inesistenti o fingiamo che l’umanità sia misura del cosmo e che valga la pena raccontare vite singole come sintomo e simbolo dell’Assoluto”».

M. (22): «Caro Roberto, prima di addentrarci in sentieri paludosi e di percorrere strade a noi ignote forse è bene prendere in mano la cartina geografica per evitare di cadere in burroni o cascate imperdonabili. La nostra partenza è stata da incoscienti, ammettiamolo. Partire così, senza preavviso, con la scusa di essere guidati dall’amore del teatro; un romantico ce la perdonerebbe, un cinico o un critico un po’ meno. Vantaggio: abbiamo uno sguardo inedito su ciò che vediamo. Svantaggio: ci incastriamo in cunicoli pericolosi che altri prima di noi hanno, con fatica e ingegno, già attraversato. “Cosa è il teatro?” Per uscire vivi e poter proseguire dobbiamo necessariamente attraversarlo.
Il teatro è, se ci addentriamo nell’etimologia del termine, il luogo della vista. Un ossimoro! Il nostro cunicolo è il luogo della vista! Non stupiamoci già dall’inizio perché la via delle contraddizioni è infinita e dovremo percorrerla non appena usciremo di qui. Non mi spingo oltre nella definizione di teatro, perché molti studiosi potrebbero puntarmi il dito contro, avendo una conoscenza del tragitto da percorrere molto più approfondita della mia. Una volta aver accertato che il teatro è il luogo della vista, è opportuno concordare su un punto: il teatro è un luogo di incontro tra attore e spettatore. In mancanza di uno dei due, lo spettacolo non si può svolgere. E non solo. Aggiungo che, di regola, se nel pubblico è presente una sola persona lo spettacolo non può farsi. Questo significa che il teatro necessita di contatto. Fisico. Non solo tra attore e spettatore, ma anche tra spettatore e spettatore. Dunque, se il teatro necessita di contatto fisico puoi constatare anche tu che quello in streaming non è teatro. E non lo sarà mai.
Il teatro non si può fare in streaming, perché necessita di un incontro con l’altro. Un contatto non avviene né a livello fisico né emotivo. Io guardo l’attore che legge, ma lui non guarda me, ma il pallino della telecamera. Un contatto avviene se almeno ci guardiamo.
Io per lui non esisto: non mi vede, non gli interessa la mia reazione, se rido, piango, applaudo o faccio buu, a lui non interessa. Dovrei non provare empatia per lui, che non la sta provando per me. Ma non ci riesco. Nelle borse più nere dei suoi occhi noto lo sforzo infinito di chi vuole dare tutto quello che ha: se stesso. È come se una tempesta coronavirusiana apparisse all’improvviso e travolgesse irrompente la via che stiamo percorrendo. L’acqua che cade dal cielo è tanta, tantissima, troppa! Non faccio in tempo a prendere l’ombrello che la cartina geografica è completamente bagnata, non si legge più niente. È da buttare. È da reinventare. Ho paura, tanta paura. Ora che faccio? Come mi oriento? Dove vado? Poi però guardo te, che non sei terrorizzato come me. Tu non hai paura del cambiamento.
E così, con un sorriso, prendi il cellulare e apri Google Maps. Per ora continuiamo il viaggio così, sperando di non perderci!

M.P. (28): «Voglio citarvi un passo di Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito.

Da un po’ di tempo a questa parte si avverte un’altra aggressione. Proviene dall’universo della moda e del design, che parassitano l’arte impiegando le proprie strategie e così facendo la impoveriscono, la volgarizzano.


Bhé, anche io sento un’aggressione, una minaccia, e la trovo laddove la cultura è stata sfruttata per creare un’identità a qualcosa di quantificabile in un prezzo. Di certo, il teatro ne è più immune… Ma non sono ugualmente d’accordo quando l’apprezzamento di alcune pratiche risiede solamente nel fatto che attrarranno più gente quando sarà possibile farlo. È un pensiero che comprendo, ma che preferirei, ad ogni modo, chiamare con il nome di “marketing”»

M.A. (24): «Però avete provato a fare il paragone con il cinema? Anche in questo linguaggio c’è la distanza virtuale tra noi e quello che vediamo dietro lo schermo, sia esso minuto, del computer o grande, di un cinema. Eppure riusciamo perfettamente a emozionarci! Magari è una questione di comunicazione e in vista di questo sta a noi saper trovare una capacità percettiva tale da permetterci l’immersione in quello che gli attori ci stanno proponendo».

G. (22): «È difficile immergersi in quella realtà lontana del video, ci si può distrarre troppo facilmente perciò preferisco ascoltare. Stanno rispondendo con molte fiabe, favole o storie che vengono soltanto narrate e dove si può soltanto ascoltare».

L (25): «Anche io preferisco ascoltare la voce piuttosto che guardare gli attori in streaming. Stiamo sperimentando nuove forme di teatro, sì, ma a questo punto cosa lo differenzia da un audiolibro? Ha senso come esperimento?»

G (22): «Mi immagino un rilancio più forte di questo tipo di teatro dopo la pandemia».

L (25): «Come se adesso stessimo approfondendo quello che potremo vivere nel futuro in un teatro?»

G (22): «Si anche. Ci arriva perché ci narra e quindi può arrivare ovunque. Quando tutto ciò sarà finito immagino il teatro di narrazione composto da attori e spettatori nei luoghi più disparati come boschi o biblioteche. Posti in cui si può narrare e ascoltare e stare vicini».

L (25): «Questo è magnifico ma già avviene a prescindere. Il punto è: stiamo cercando nuovi modi di fare teatro? L’idea di farlo in streaming quanto ha senso? Può avere senso farlo in radio perché è coinvolgente, ma questo rimane sempre teatro?»

F (F come potrete intuire non è uno studente, anche lui si classifica tra i nostri mentori): «È una questione sull’essenza teatrale, vale la pena chiedersi cosa accade allo spettatore. Probabilmente può ancora esserci un’esperienza immersiva, ovvero teatro per una persona. Anche adesso c’è la relazione 1 a 1 tra opera e spettatore, senza la presenza di altri spettatori. Ricordiamoci che qualcosa di simile avveniva e avviene già con la radio, con le forme teatrali in radio come il radiodramma, che ha una sua lunga storia e dignità artistica.

L.O. (24): «Anch’io penso che si tratta di una soluzione “emergenziale” che di questi tempi è utile a non perdere l’allenamento con la visione e ad essere consapevoli che questo non ci basterà. Non vedrei quindi lo streaming come qualcosa su cui investire o da cui poter ripartire in questo senso. Ma è anche vero che andrebbe analizzata la natura del singolo spettacolo (oltre che la qualità con cui è stato realizzato), per poter formulare un giudizio non solo a priori».

Ed ecco l’avvicendarsi di due interventi di due delle tre guide di questo Simposio che in un attimo districano i nostri dubbi e li portano su una dimensione più estesa ed elaborata. Anche qui, ve ne renderete conto in fretta.

L: «Nelle utopie del teatro del ‘900 si pensava ad abbattere le barriere tra finzione e realtà, a uscire dalla rappresentazione e raggiungere l’uomo. Adesso, paradossalmente con lo streaming ci viene fame di finzione. Vedere l’uomo ci sembra poco. Perché accade questo?»

M: «Il video è invasivo anche nel teatro e lo era anche prima per cui giocoforza dobbiamo confrontarci con la civiltà di immagine e riproduzione. Il teatro a volte si dimostra complice, altre volte silente. La quarantena ci pone radicalmente davanti questo problema. Possiamo dunque ragionare su cosa emerge e su quali strade si possono aprire per il futuro di un teatro che vive in una società principalmente mediatica?»

M.P (28): «Concludo con un’ultima citazione di un passo di Anselm Kiefer, L’arte sopravviverà alle sue rovine:

«A volte mi capita di seppellire i quadri sottoterra. Li inumo, e sopra sistemo una campana con cui possano manifestarsi, segnalare la loro presenza. Come il custode di St. Marx, aspetto il suono della campana per liberare i miei quadri dal coma».


Ecco, Come per i musei, l’essenza del teatro non è di certo custodita nella sua scatola muraria, quella che ogni settimana apre le porte per accogliere il suo pubblico. Ma si manifesta nel pubblico, inteso come contesto. In questo momento, immagino, è come se avessimo a disposizione due campane, una di bronzo pronta a suonare per rivelarsi e una di vetro, per cui ogni cosa si amplifica e rimbomba. Mi auguro si possa andare verso una strada che stia a metà tra la poesia e il brigantaggio, un luogo dove potremo essere rivoltosi quanto gentili sognatori, dove saremo critici e attenti, e pure un po’ imprudenti, perché allora, e solo allora, potremo davvero dire che andrà tutto bene».

La redazione di Bologna Teatri,
A cura di Chiara Capizzi

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