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Cenere e fuoco. Uno sguardo alla mia generazione a teatro

di Giuseppe Di Lorenzo

Non aveva che 21 anni Matthew Gregory Lewis quando scrisse Il Monaco nel 1796. L’opera, a causa di una certa esuberanza giovanile e un carattere viperino, era zeppa di scene scabrose ed eresie di ogni genere e scatenò un putiferio alla sua pubblicazione, costringendo il giovane Lewis a riscriverla più di una volta. Non che tutto questo fermò in alcun modo la forza seminale del romanzo, che ha influenzato i teorici del surrealismo come Breton e gli epigoni cinematografici come Luis Buñuel, passando per Antonin Artaud che negli anni ’30 lo riscrisse in francese, fino ad autori pop contemporanei come Grant Morrison.

In un tiepido dicembre del 1927 in Texas, un appena trentenne reverendo cieco conosciuto col come di Blind Willie Johnson pubblica un “hymn”, un inno religioso, piuttosto particolare. Dark Was the Night, Cold Was the Ground non è un classico blues cantato con la Parola di Cristo; è invece il suono dilaniante di un coltellaccio sulle ruvide corde di una chitarra, l’abisso dentro l’uomo evocato con l’ausilio di un solo strumento e di poche tremule note. Pensate che nel 1977 venne lanciata la sonda Voyager 1, la quale dopo una lunga e ponderata selezione, sta ancora oggi suonando a frequenze invisibili in tutto l’universo le sofferenti note del reverendo cieco del Texas, come prova indiscutibile dell’ingegno umano.

Compiuti 26 anni nel maggio del 1941, Orson Welles poteva guardarsi indietro con la consapevolezza di aver fatto la storia della radio, del teatro e del cinema, mettendoci tutti in guardia dai pericoli dell’informazione e di chi la possiede.

Di esempi come questi, del genio giovanile come rottura delle regole imposte dalle precedenti generazioni, ne abbiamo a bizzeffe fin dall’antichità, per cui forse non dovremmo stupirci più di tanto quando, andando a teatro per la prima nazionale di una giovane compagnia, coviamo nel silenzio della sala delle altissime aspettative. Probabilmente non ci rendiamo conto di aver sviluppato un bias culturale, perché guardare alla storia attenendoci esclusivamente al tracciato del genio è come guardare una cattedrale con l’ausilio di una lente d’ingrandimento. Eppure frequentando le ultime due edizioni del festival Direction Under 30 del Teatro Sociale di Gualtieri, come anche tante realtà del teatro della mia generazione o della musica, della poesia e dell’arte in senso lato, diventa pressoché inevitabile porsi la domanda: cosa mi aspetto dai giovani della mia età? Ma sopratutto: è giusto aspettarsi qualcosa?

Direction Under 30 è il Festival italiano che si svolge «nel più bel teatro del mondo» (cit. Nicola Borghesi), nella cornice di quella che è una delle più suggestive piazze della penisola, che sembra predisposta ad accogliere le tensioni più disparate. Ciò che distingue questi tre densissimi giorni da altre realtà simili è la radicalità dietro il progetto di dare rappresentanza ai giovani a teatro. I sei spettacoli finalisti vengono scelti da una giuria selezionatrice a cui non viene richiesta nessuna specializzazione, se non l’essere anagraficamente sotto i trent’anni. Questo vincolo è imposto anche alle compagnie partecipanti e alla giuria popolare, mentre per la giuria critica si richiede qualche competenza minima nel settore. In questo modo le compagnie sono consapevoli di recitare di fronte a una sala composta quasi interamente di loro coetanei, una prospettiva piuttosto inedita nel panorama italiano.

Ultimamente si sente spesso parlare, almeno tra gli addetti, di un incremento degli abbonamenti, visibile anche dalle statistiche del Fus. Certo è che, seguendo l’andamento dei frequentatori di spettacoli e di intrattenimento fuori casa fornito annualmente dall’Istat, forse essere così ottimisti sullo stato del teatro non è propriamente un approccio scientifico, così come anche non notare l’indifferenza dei giovani nei confronti dello spettacolo dal vivo, quarta o quinta opzione dopo cinema e musica. Chiedersi perché il teatro in Italia attragga così poco i giovani ha senso se si conosce cosa i giovani vorrebbero dal teatro e quello che effettivamente questi gli può dare. Ciò che tenterò di fare adesso è seguire i percorsi tematici che hanno caratterizzato quest’ultima edizione di Direction Under 30, tracciando delle ipotesi sulle tensioni e sulle urgenze della mia generazione a teatro, favorendo uno sguardo verso il futuro, che sia limpido o meno.

L’adorazione della cenere

Tradition is not the worship of ashes, but the preservation of fire. 

Gustav Mahler

Un elemento certamente peculiare che abbiamo subito notato nel cartellone del festival è stata la presenza di ben quattro spettacoli su sei di teatro-danza. Per quanto Silvia Mei, in un incontro avvenuto durante i giorni di Direction Under 30, ci abbia avvertito dei pericoli di una categorizzazione a priori di uno spettacolo – che sia prosa o teatro-danza o qualsivoglia definizione – questa ingombrante presenza non è passata inosservata alla giuria popolare. Tra gli altri elementi palesati c’è poi stato un quasi inesistente utilizzo delle peculiarità del Teatro di Gualtieri (con un palco inverso che crea una scenografia imponente e inevitabilmente influente su qualsiasi spettacolo), a parte la piccola performance canora durante Tutto il sole di oggi di Claudia Rossi Valli. Altro elemento presente è il rapporto con la tradizione, non esclusivamente in senso teatrale.

Nella direttiva di un rapporto con la tradizione si muovono con esiti estetici e drammaturgici completamente differenti Angelica Bifano e La Lucina. La prima propone uno spettacolo già rodato, Mamma son tanto felice perché, in cui l’attrice si divide in tre personaggi (mamma, figlia e nonna) per poi moltiplicarsi sul palco inscenando un colossale pranzo di famiglia. L’uso del dialetto e la recitazione stessa rimandano al teatro italiano del dopoguerra, così anche le dinamiche di quelle famiglie rappresentate durante il neorealismo con i toni della tragedia greca. La Lucina invece nel suo Sonosarò investe lo spettatore con una costante metamorfosi della prossemica, rifacendosi a un apparato estetico della sperimentazione anni ’80 e gravitando attorno alla parola declamata, sommessa e urlata di Antonio Moresco. Anche questa, in fondo, è tradizione. Eppure mi pare il caso di chiedersi cosa sia la tradizione nell’epoca dell’archiviazione digitale della conoscenza umana, quando ci troviamo di fronte a fenomeni come la glitch art o alcune derivazioni di nicchia della musica elettronica, ovvero al cospetto di una rielaborazione di una nuova iconografia che comprende la televisione e tutta la cultura pop che l’ha attraversata tra gli anni ’80 e ’90. Il continuo riferimento ad astruse celebrità della musica commerciale giapponese o ai manga, presenti nelle forme più avanzate di ricerca artistica sotterranea, altro non sono che un celebrare l’infanzia e le sue promesse perdute attraverso un’iconografia universalmente riconoscibile. Ogni epoca ha fatto riferimento a un paradiso perduto, ma senza scomodare John Milton possiamo certamente notare che questa tensione, antica quanto l’umanità, si sta trasformando in cifra solo adesso che abbiamo uno sconfinato archivio video-fotografico a portata di mano.

La questione del rapporto con la tradizione, per quanto largamente discussa in sede di giuria critica, credo sia quindi un falso problema. Perché dovremmo aspettarci necessariamente una rottura? Non c’è forse così il rischio di notare solo quello che non c’è negli spettacoli delle giovani compagnie, invece che rimanere in ascolto delle urgenze che necessitano di esprimere?

Precaria quotidianità

Il governo ha ragione
a non darti mai niente
sei giovane e incosciente
e non meriti niente
sei solo un vagabondo
che non cerca un lavoro
che gira per la strada
con la testa tutta vuota

I Nuovi ’68, Il governo ha ragione (1980)

Prescindendo quindi dalle influenze tecniche o estetiche, ciò che maggiormente ha suggestionato la giuria popolare e il pubblico giovane del festival sono stati quegli spettacoli che, a prescindere dalla categorizzazione o dalla grammatica teatrale, parlavano direttamente alla loro generazione. Mamma son tanto felice perché, Tutto il sole di oggi, Un po’ di più e Her-on sono tutti e quattro spettacoli che mettono in scena una vita precaria e incerta, guardando a se stessi come metro delle proprie sconfitte e vittorie.

Eppure che ci sarà mai di tanto interessante in una esistenza composta da pacchi di Amazon spediti da chissà dove, maglioni comprati online troppo grandi, VHS sbiadite di pranzi al mare in famiglia, perché tutto questo dovrebbe smuoverci alcunché? A guardare ciò che manca in Her-on di Giulia Spattini (Balletto Civile) notiamo uno spettacolo che non sfrutta tutte le risorse di danzatrice di Spattini né le sue potenzialità come profondità drammaturgica. Eppure nel rito di passaggio messo in scena, il più banale di tutti ovvero quello dall’adolescenza all’età adulta, c’è tutta l’angoscia di scoprirci in una carne nuova, c’è la noia e la paura, c’è spazio anche per il gioco e ovviamente per il cazzeggio. Spattini con la sua splendida androginia mette in scena l’irrequietezza e lo spaesamento di chi ha creduto alle promesse della tv, della scuola e della famiglia per poi accorgersi che non dobbiamo saltare una pozzanghera, bensì una voragine di cui non vediamo l’altra sponda. La scena che mi ha fatto riflettere maggiormente è stata quella dello sguardo al passato. La protagonista sta danzando quando all’improvviso cade un vaso fracassandosi per terra. A quel punto irrompe l’infanzia tramite un video in VHS, e lei non può interpretarla quella roba là, perché è già successa, è dentro di lei come in una matrioska di personalità. Un pacco di Amazon lo possiamo aprire o rispedire indietro, un maglione troppo largo lo possiamo aggiustare o portarlo così come viene, ma l’infanzia è accaduta, la possiamo solo subire.

Lo spettacolo che ha vinto il premio della giuria popolare e che ha provocato forse la miglior responsività da parte del pubblico di Gualtieri, non solo giovane, è stato Un po’ di più di Zoé Bernabéu e Lorenzo Covello, che hanno messo in scena una storia d’amore dal carattere decisamente autobiografico, anche questo uno spettacolo di teatro-danza. Un po’ di più si svolge proprio come una sinfonia, con lunghi momenti dilatati e posati che delimitano quelli più dinamici e irrequieti, alternando in maniera efficace un registro maggiore e uno minore. Non si può certamente dire che siamo di fronte a una messa in scena che provoca in alcun modo lo spettatore: la linearità della storia (si conoscono, si mettono insieme, abitano insieme, litigano, si riscoprono) è totale, come anche quella della prossemica e degli elementi scenici, e persino la musica ricalca i momenti più concitati rischiando di scadere nel melò hollywoodiano, ma c’è una concitazione e una trasparenza nel mettersi a nudo che dissocia lo spettatore da sé per rivedersi sul palco. Non è tanto una storia a lieto fine quella di Bernabéu e Covello, bensì una storia senza il filtro dell’esperienza che si stupisce per cose banali e si emoziona per piccole tenerezze, che esagera il dramma e vive l’incertezza di essere con spasmi e frasi spezzate. La ricostruzione di una relazione in Un po’ di più passa attraverso piccoli passi che si ripetono meccanicamente finché, stufi della reiterazione, si concedono qualcosa di più. Ma questo isolamento dal mondo, questo fuggire dall’occhio degli adulti e quindi dal loro giudizio, non è l’anticamera dell’indifferenza? Non stiamo forse adorando la cenere mentre dovremmo preservare il fuoco?

Come bere un bicchiere d’acqua

Appena risalito dall’abisso, mi sveglio da straniero in un luogo mai visto prima, tuttavia, dato che per me è naturale trovarmi spaesato nei non-luoghi, mi basta udire voci lontane per sentirmi a casa ovunque, permettendomi artifici spontanei, gettandomi in ambigue immedesimazioni non richieste ma richieste, violando le conseguenze che la violazione dei sacri limiti tra due persone comporta… no, sto sbagliando in qualcosa, il nervoso ed il quieto si alternano freneticamente dando origine al più incomprensibile dei mali che mi esaspera fino ad esplodere la realtà in molteplici “adesso.”

Uoki Toki, sequenza dei titoli delle 10 tracce di “Cuore Amore Errore Disintegrazione”, 2010

Cristallizzando le sensazioni di fine festival, recuperando quindi dalle notti insonni e dai trecento cambi di treno e bus necessari per tornare a casa, percepivo un salubre sconforto nel non aver assistito a un colpo di coda di questi teatranti, a una bella sferzata arrogante. Praticamente non ho mai provato un groppo alla gola, mai una sensazione sgradevole. Dopo più di una settimana penso di aver ceduto a quella presuntuosa malinconia, perché mi sono abituato ad aspettarmi qualcosa dall’artista quando invece delle volte bisognerebbe solo ascoltare con attenzione quello che ha da dire. Ovviamente il mio non è un chiudere gli occhi della ragione per aprire quelli del cuore (cit.), dei limiti e delle problematiche dei singoli spettacoli abbiamo ampiamente discusso e buona parte di quei confronti si sono riversati sul Papavero blog e indirettamente su certi sottotesti presenti nel secondo numero dell’Insalubre. Quello però che ho notato facendo sedimentare non solo i rimasugli delle baldorie notturne ma anche qualche pensiero, è stato che non è rompere con la tradizione sinonimo di gioventù, ma bensì la nostra capacità di fare società per conto nostro, con le nostre regole e le nostre identità, con i nostri linguaggi e le nostre tradizioni.

Una frase che mi ha molto colpito durante un incontro con la giuria popolare è stata «non puoi mettere in scena la società di internet». L’ha detta Bube Mannocci, in giuria critica con me, in mezzo a una diatriba di cui non ricordo molto altro. La dimensione preposta alla rivoluzione linguistica è ovviamente il web e per quanto pittori, scultori, cineasti, teatranti e musicisti vorranno rappresentarla, questa assume significato solo attraverso i suoi codici e cifre. Ovvio, tutto è riproducibile, e quando Frank Zappa o chi per lui disse che «parlare di musica è come ballare di architettura» probabilmente non conosceva Iannis Xenakis, ma questo non è un problema, perché la fluidità dei linguaggi è invisibile. Ciò che è importante è che il contesto sia fertile per svilupparli. Forse il punto è questo o questo è uno dei molti punti: non è Lewis con Il Monaco ha cambiare le sorti di certa letteratura, ma il contesto attorno che lo legittima a farlo. Probabilmente è una banalità, ma siamo giovani per cui è più facile scusarci per aver sparato qualche baggianata.

Questo non assolve in alcun modo il teatro giovanile da una certa reticenza verso la sperimentazione e quindi al rinnovo di certe formule accademiche. Può essere utile fino a un certo punto sviluppare un linguaggio comunitario, ma c’è sempre il rischio che questo si risolva in una bolla. Definire una messa in scena solamente dalle sue direttive narrative, esaminando per filo e per segno ogni passaggio alla ricerca di buchi di trama o errori di congruenza, significa avere ridotto le potenzialità del teatro al minimo. Non è quello che succede a Gualtieri ovviamente, eppure anche nelle discussioni tra giuria critica e popolare si parlava pochissimo di interpretazione e chiavi di lettura, soffermandoci troppo spesso sugli elementi strettamente tecnici. Può essere un deficit delle giurie, certamente, ma credo che le analisi e le recensioni pubblicate in questi giorni denuncino comunque non una scarsa qualità quanto un impoverimento della discussione.

Non credo, anzi, sostengo che non sia necessaria la rottura dei canoni per creare un confronto prolifico che sedimenti l’opera teatrale e la faccia rivivere nel nostro quotidiano. Al tempo stesso però credo sia pericoloso escludere a priori, in un luogo così sicuro e protetto come Direction Under 30, ogni ricerca ai confini dei linguaggi, non tanto per sconcertare il pubblico o far rincitrullire la giuria critica, ma perché se è vero che la vita oggi è così precaria per noi giovani, economicamente e moralmente, non lo è il palco. Quello è il luogo in cui si possono tirare le fila, mostrare l’ordine dietro il caos o il caos dietro l’apparenza dell’ordine. Rischiare dunque non è rompere qualcosa ma costruire qualcos’altro, sfuggendo dai contesti gli elementi necessari per appicciare il fuoco e lasciare che sia questo a divorarci tutti. Per cui sì, dobbiamo aspettarci qualcosa quando andiamo a teatro, altrimenti è davvero diventato un rito, come il caffè la mattina o il bicchiere d’acqua prima di andare a letto.

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