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Caro Seneca ti scrivo… le parole dei classici per reagire al presente

di Altre Velocità

Caro Seneca,
ti scrivo, così mi allontano un po’. Mi allontano dagli spazi stretti di una casa diventata troppo familiare, dalle voci meccaniche del telegiornale, dal rumore di questo silenzio in scena, come di uno spettacolo giunto al gran finale. Ma questa volta no, non c’è stato nessun gran finale: quel sabato trascorso a teatro neanche pensavo sarebbe stato l’ultimo, e allora, forse, col senno di poi, ci si accorge di non aver applaudito abbastanza. L’unico applauso che oggi mi resta è una emoticon del cellulare, che posso apporre, come commento, nella pagina Instagram di Unibo, dove il Centro Studi “La permanenza del Classico” ha dato il via al progetto Parole per noi, che ha coinvolto diversi attori professionisti in letture tratte da autori antichi. Sorge spontaneo il collegamento con la situazione attuale; infatti, a partire dal primo post, si può subito stabilire una analogia: il passo tratto da “Eneide” di Virgilio, letto da Toni Servillo, in cui Enea porta in salvo il vecchio padre, caricandolo sulle spalle, ci fa pensare a come oggi figli e nipoti si prendono cura dei genitori anziani e dei nonni, soggetti più fragili e più esposti al contagio. In Sandro Lombardi, che legge da “Sui benefici”, troviamo un riferimento più esplicito: una lode alla professione del medico, il quale ha fatto più di quanto gli è stato richiesto, non per la sua reputazione, ma perché «ha temuto per me». Infine Massimo Popolizio che ci propone, citando da “Antigone” di Sofocle, una riflessione sulla grandezza dell’uomo, per concludere con una frase a dir poco lapidaria e piena di speranza: «solamente alla morte l’uomo non troverà mai una fuga, ma ha già trovato fuga da malattie senza rimedio». Oltre al filone legato alla malattia, emerge quello legato al senso della comunità e a ciò che può fare ciascuno di noi per il bene dello Stato. Viene citata, infatti, una peste più terribile che affligge la società: la mancanza del senso di rispetto e di giustizia, lo legge Anna Bonaiuto dal “Protagora” di Platone. Quindi Umberto Orsini, che invita, tramite la lettura dalla “Repubblica” di Platone, a partecipare insieme alla gioia e al dolore, considerando lo Stato al pari di un corpo umano, in cui alla sofferenza di una sua parte corrisponde un malessere generale. Questi sono solo alcuni esempi dei tanti attori che si sono messi in gioco, tra i quali c’è chi ha tentato un’interpretazione del personaggio, chi ha preferito limitarsi alla sola lettura, chi non si è affatto mostrato in video, dando maggiormente spazio al nostro ascolto. Il più delle volte, però, si percepiva l’assenza del teatro, cioè della finzione e della distanza tra le due pareti, ma, data la tipologia dell’iniziativa proposta, ho gradito vedere non l’attore, ma l’uomo, spogliato della sua “persona”, ovvero, nel senso etimologico del termine, della sua maschera.
Ma la mia lettera è rivolta a te, caro Seneca, perché, oltre a essere il più gettonato della nuova rassegna online, sei, tra i filosofi, quello che aggiunge più domande alle mie domande, attivando in me un senso di consapevolezza maggiore riguardo a ciò che posso fare io, oggi, innanzitutto per me stessa. Perché oggi abbiamo tantissimo tempo, ma, come tu ci fai notare, abbiamo tantissimo tempo per sprecare il nostro tempo. «Semper victuri vivimus», viviamo, cioè, come se dovessimo vivere per sempre: tendiamo a procrastinare, a rimuginare, a rimpiangere il passato e a temere il futuro, ciechi davanti all’evidenza: passato e futuro, entrambi figli illegittimi di un presente che abbiamo tradito.
E questo nemico invisibile è venuto a ricordarci che non siamo immortali, ma abbiamo ancora possibilità di mettere a frutto il nostro tempo. Come disse una volta a lezione Ivano Dionigi, professore emerito dell’Alma Mater, altro protagonista del progetto in veste di traduttore, «i classici sono coloro che ti allungano la vita». Sì, perché ti fanno vivere vite non tue, leggerai o tradurrai frasi non tue, penserai con la mente di altri, per scoprire, alla fine, che erano proprio quelle le parole che stavi cercando. Ti accorgerai che quei discorsi, quei sospiri, quelle affermazioni non sono altro che frammenti di eternità palesati nel tuo quotidiano vivere. E io ho accolto queste Parole per noi, recitate da grandi attori, con la stessa semplicità e umanità con cui le ascoltai, anni fa, dal mio professore del liceo. E anche solo questa reminiscenza per me è già vita, e in un certo senso diventa teatro. Teatro, dal greco “theàomai”, è vedere, prima che ascoltare, ma alla sua base c’è la condivisione degli stessi valori: anche se non eravamo insieme, ognuno di noi si sarà sentito parte di una stessa comunità. In un mondo in cui Instagram crea legami fittizi tra gli individui, la lezione di Unibo costituisce un tentativo di superare il connubio tecnologia-disumanizzazione, restituendo al dispositivo un’anima che forse non ha mai avuto, o che, comunque, non avremmo mai pensato potesse avere.

Giorgia Renghi

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