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Caro cavaliere errante. "Io, Don Chisciotte" di Fabrizio Monteverde

di Altre Velocità

L’eccentrico Io, Don Chisciotte non ha limiti, così come i corpi dei ballerini in scena, capaci di modellarsi creando una moltitudine di ritmi e atmosfere. Ideato e coreografato da Fabrizio Monteverde, lo spettacolo (andato in scena dal Teatro Duse) fa rivivere in chiave contemporanea la storia di Don Chisciotte, il protagonista dell’opera di Cervantes. Egli è un nobile appassionato di romanzi cavallereschi, ma ne legge talmente tanti da non saper più distinguere la realtà dalla finzione, credendosi egli stesso un cavaliere. Questi libri, preziosi tesori da custodire, sono in scena: all’apertura del sipario vediamo il protagonista intento a leggerli. Nel frattempo è come se i personaggi delle avventure lette si materializzassero nei corpi dei ballerini vestiti di blu.
Essi sono gli stessi che, nel corso della vicenda, cercano di ostacolare il protagonista: sono coloro che vorrebbero umiliarlo ed emarginarlo.
Improvvisamente arriva una donna incinta, munita di carriola, che vuole prendere tutti i testi; viene immediatamente fermata ed è come se anche lei, da quel momento, entrasse nel magico mondo delle nobili gesta, non staccandosi più dal suo Don Chisciotte. Almeno quasi mai. La pila di libri è sembra dunque sì una fonte di pazzia, ma anche – e soprattutto – una fonte di conoscenza capace di formare personalità e di rendere le persone libere: qualcosa che fa distinguere i due personaggi dalla massa di gente.
Le suggestive musiche di Ludwig Minkus e altri sono caratterizzate da un leitmotiv: quello, a tratti allegro e dominante, che indica l’arrivo di questa gente “estranea”. Alla musica si aggiunge poi una luce significante, spesso proveniente dall’alto, tesa a creare macchie di chiaroscuro. Ombre grandi stagliate sul fondale si fanno piccole e viceversa.
Sembra di assistere a una lunga serie di peripezie. Alti e bassi, come nella vita, hanno accompagnato i due protagonisti. Ma alla fine i loro “nemici” ce la fanno: colpiscono Don Chisciotte. È morente, ha delle frecce conficcate nel petto. Si ostina a vivere però, anche lui non si arrende, nonostante i pianti e nonostante le derisioni. La sua amata compagna di avventure arriva, lo aiuta e lo pulisce dal sangue che, al contrario del corpo da cui fuoriesce, sembra farsi sempre più vivo. A un tratto la scodella dell’acqua diventa il suo elmo, il bastone la sua arma. Con una posa statuaria, raggiunta con dolore, il sipario si chiude: eccolo Don Chisciotte. È ammaccato, insanguinato, ma senza il rimorso di aver vissuto una vita che non gli apparteneva.

Vorrei riportare qui ciò che viene detto da una voce fuori campo all’inizio dello spettacolo, poiché credo sia fondamentale per una certa chiave di lettura: «[…] ai visionari, a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno, ai reietti […] ai folli – veri o presunti – agli uomini di cuore, a chi non vuole distinguere tra realtà o finzione, a tutti i cavalieri erranti; in qualche modo, forse giusto e ci sta bene, a tutti i teatranti». Questa meravigliosa dedica è per qualcuno: per coloro che nonostante tutto, continuano ad amare e sognare ardentemente, ad agire indipendentemente. Questa voce ci ricorda che alcuni di noi, fortunatamente, sono un po’ Don Chisciotte.

Giorgia Pagano

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