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Biennale danza: breve cronaca di un percorso fugace, a tratti smarrito

di Lucia Oliva

Venezia, negli scorsi giorni, sembrava preda di un rapimento. Apparizioni quasi miracolose, come funamboli dell’immaginario, hanno attraversato la città, intersecando il peregrinare fastoso e stanco di un turismo esodante, stordito di stanchezza e meraviglia, che, tra calli dagli spigoli improvvisi e ponti inerpicati, all’improvviso si trovava davanti la danza.
La danza così come sarebbe bello che fosse, buttata in mezzo a una piazza, sudata e stanca, collettiva e intima, baldanzosamente esatta e spavaldamente in prova, disponibile e sfuggente, misterica e di tutti: esercizio di vita nel corpo vivo della città. Il rapimento si chiama Mondo Novo, Gesto Luogo Comunità, il 9° Festival Internazionale di Danza Contemporanea, meglio noto come Biennale Danza, immaginato e pensato da Virgilio Sieni, che dal 19 al 29 giugno ha trasformato Venezia nella capitale internazionale dell’arte coreutica e nel bar di quartiere della danza italiana, una collettività riunita a lavorare, festeggiarsi e riconoscersi.
Già nelle giornate precedenti al debutto, girovagando nel sestriere di San Marco, era impossibile non imbattersi in Agorà, la sezione dedicata alla relazione tra la danza e l’aperto dei luoghi, che invade le piazze con esiti di laboratori. Una dimensione, questa, cara al pensiero di Sieni, affidata qui a coreografi ospiti come Cristina Rizzo, il Leone d’Argento Michele di Stefano di MK, Anton Lachky di Les Slovaks e altre presenze internazionali nei giorni a seguire. Una reazione alchemica  che meno si prende in carico dello spettacolare più è in grado di intervenire, quasi climaticamente, sull’esperienza del luogo. Venezia, si sa, è uno spettacolo, ma uno spettacolo feroce che divora quanto le si affianca. Ma una forma fluida, incessantemente in divenire, incerta tra fragilità e esposizione come quella che può prodursi in un laboratorio, riesce a essere presenza di senso ancor più incisiva di una costruzione compiuta che chiama l’applauso, che svela le identità, che scolpisce la visione. Così è splendida questa danza che si incontra sulla bocca di un campo spalancato all’inusuale, nella visione sghemba del viandante, nella casualità di un attraversamento, nello smarrimento a cui si aggiunge il dinamismo dei corpi e l’invasione della musica, o il riposo colorato e sfatto, dolorante di gioia, dei danzatori. Ed è una danza che invita all’ascolto e non al giudizio affrettato, capace di raccontare una storia altra che non quella, imbellettata, di un prodotto da vendere.

Pur sempre però di Biennale si tratta, e qualcosa in pasto all’ordine del mondo bisogna darlo: ecco allora la sezione più rigorosamente festivaliera, Aperto, ospitata in teatri meravigliosi, lucidata dal prestigio del grande artista. E il grande artista, se non delude, di certo non aggiunge, non in questo primo scorcio di manifestazione.
Saburo Teshigawara con Lines presenta un lavoro paradossalmente monolitico, incessantemente ricorsivo, granitico nella proposta ma poco incisivo direzione, che a tratti appare prigioniero di un bearsi splendido e noto. Si tratta però di una bellezza addomesticata, che non fa male. Danza di aria e di luce, il coreografo e la sua assistente, Rihoko Sato, inanellano un moto ondoso di braccia e di ombre, pittogrammi scagliati in una coreografia ecc in una coreografia ostinata come un tunnel. Tra apparizioni e svanimento, il violino suonato in scena da Sayaka Shoji cementifica con l’aiuto di Bach e Bartok una danza imprendibile, che flirta con l’invisibile, ma che questa volta non è capace di declinare il mistero, nemmeno quello del tempo, e rimane sospensione ostile, quasi una lotta con una visione che non riesce a sorgere.

Alla vigilia della consegna del Leone d’Oro viene presentato Bound, di Steve Paxton, un lavoro dell’82 riproposto qui attraverso il corpo di Jurij Konjar. È un grande omaggio alla eredità culturale della Postmodern Dance, al suo radicale egualitarismo, alla democratizzazione del corpo e della danza e alla sua irriverente critica sociale, artistica, politica. In una superficie spettacolare dove tutto ha lo stesso peso e valore, i momenti danzati si intrecciano, in un ambiente di proiezioni e suoni del mondo, alla relazione con oggetti innocui della quotidianità: uno scatolone di cartone, assi di legno, una sedia a dondolo. Il corpo diventa allora oggetto tra gli oggetti, spartendo con l’inanimato il suo valore aggiunto, o agente teatralizzante in frammenti di azioni dadaiste che rivaleggiano con lo squarcio improvviso della danza in una trasformazione surreale e stupefatta di quanto lo circonda.
Uno spettacolo che si guarda con tenerezza e riverenza, non curandosi dello scorrere degli anni ma chinando il capo a una rivoluzione che ha reso possibile lo stato di quest’arte così come oggi la conosciamo.

Aura, la sezione dedicata al rapporto tra danza e opera pittorica, diventa spazio aurorale di ricerca, dove però i coreografi si scoprono a ripercorrere le proprie ossessioni.
Burrows e Fargion, nel loro ormai consolidato universo espressivo, presentano The Madonna Project, dove alla danza di mani e di gesti di Burrows, esatta e indecifrabile come una lingua aliena, si accompagna la voce (e la diamonica) di Fargion in una litania di Madonne, quasi a sfogliare un catalogo di storia dell’arte. Ma tra le pagine di questa bellezza antica, iconograficamente evocata, compare ritmicamente l’orrore del mondo: Madonna dei call center, Madonna con autobomba, Madonna con operatore umanitario. Lampi di reale nella quiete della raffigurazione sacra, pagine impazzite di un reportage fotografico che ci riporta alla spietatezza della realtà.

Jerome Bel con Senza Titolo continua a giocare con le aspettative del pubblico rispetto all’oggetto-spettacolo. Un circo sciroccato, festante nei cromatismi e negli accostamenti improbabili, entra e si dispone frontalmente agli spettatori, ordinato come in una foto di classe, riflesso speculare e insieme evidenziato di ciò che ha davanti. Nell’angolo un cartello di cartone, con la scritta “1000”. Quasi sommessamente, il gruppo inizia a contare. Il gioco è subito svelato, il dispositivo è chiaro, eppure si rimane ad ascoltare quasi non si sapesse come va a finire. Ogni tanto qualcuno del gruppo,  composto da danzatori e da corpi con un’altra storia addosso, si prende una pausa, ogni tanto un tono, un’inflessione, un sorriso oppure uno sguardo sfonda la neutralità della processione numerica e li si sta a guardare, in un rapimento ottundente, chiedendosi quale sia il racconto segreto che ognuno di loro fa nella voluta stolidità della consegna. Poi la rottura. Entra il coreografo e porta via il cartello, fermando la conta in un casuale 635, e inizia la festa. Uno alla volta alcuni dei performer prendono il proscenio e iniziano la loro danza, mentre il resto del gruppo ammassato dietro di loro tenta di imitarli. Si vedono stacchetti bollywoodiani, interpretazioni di danze popolari siciliane, omaggi al musical. Qualunque sia il grado di difficoltà della proposta l’imitazione è sempre estemporanea e perciò la consegna è impossibile, l’aspettativa frustrata, l’inadeguatezza sovrana: non c’è spazio, non c’è tempo, ma c’è un inseguire divertito e divertente che irride l’esattezza e la natura del farsi danza, il suo testardo inseguire un modello o la vocazione a una perfezione “ottusa”.
Quando si lascia la città, di malavoglia, resta la nostalgia per questo festival, un mondo novo ancora tutto da scoprire, certi che le azioni dei suoi incredibili abitanti saranno in grado di trasformare la qualità dell’aria.

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