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foto di Alice Brazzit
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“Best Regards”, o della forza dinamica di un pugno

di Giuseppe Di Lorenzo

È prassi che il giorno prima di ogni nuova edizione di Direction Under 30, il Teatro Sociale di Gualtieri proponga uno spettacolo tra i più rilevanti della scena contemporanea, e non c’è dubbio che alla vigilia di questa decima edizione D’Agostin fosse visibilmente emozionato di trovarsi lì, su quel palco rovesciato dove un tempo c’era una platea e per un breve periodo un cinema a luci rosse. Diversi altri critici attorno a me già si prodigavano mentalmente a evitare nelle loro recensioni i soliti riferimenti al caldo appiccicoso della Bassa, alla sua pervasività e alle storie che nasconde. Come il rito che dovrebbe essere, il teatro comincia ben prima che si apra il sipario, tutti noi assumiamo la nostra posa, il nostro ruolo, e accettiamo silenziosamente le regole del gioco. Si comincia. C’è solo D’Agostin su un palco vuoto con in fondo una tenda di luci al led, comincia chiacchierando, come se stesse improvvisando, ma è tutto già parte della coreografia, sta danzando con le parole. Forza da cui scaturisce ogni movimento il racconto della sua relazione con Nigel Charnock, geniale ballerino, coreografo e regista teatrale fondatore della compagnia DV8 – Physical Theatre, morto a soli 54 anni nel 2012. Proprio Charnock in un articolo del Guardian affermava che: «I’m more of an entertainer, I make shows, really, I make pieces, I don’t make work», più eloquente di così c’è solo un cazzotto in un occhio, ma io evidentemente avevo bisogno di un intero spettacolo di cazzotti per capire cosa volesse dire questa frase, fino in fondo. Per usare una metafora dal mondo del pugilato, D’Agostin apre con un abile gioco di gambe che mi spiazza fin da subito per la sua stratificazione. Parla di lettere, delle missive che Charnock si spediva da solo a teatro per un suo spettacolo, delle lettere di Virginia Woolf, di Elisabeth Bishop, di Rainer Maria Rilke, di Calamity Jane. Parla del fatto che ogni lettera comporti con sé la consapevolezza sia in chi scrive che in chi legge del destino, delle sue fatalità, della caducità delle promesse. Ancora oggi le lettere sono un modo asincrono per entrare in contatto con un pensiero cristallizzato dal passato, e proprio da questa impressione si dispiega lo spettacolo, che decostruisce una lettera scritta proprio a Charnock. Il primo colpo che mi arriva è ovviamente un diretto, morbido e dritto sulla mascella, una bellissima fase di calibrazione ritmica. D’Agostin prende l’elemento fondamentale dell’autobiografismo, la parola, e la scompone in pezzi, creando una particolare tessitura ritmica che s’incastra con quella coreografica in un meccanismo tanto lineare quanto efficace. «Vomiting», «verbosity», nel solco del cut-up di William Burroughs le parole si diradano e il loro accostamento crea nuovi attriti, l’autobiografia progressivamente diventa racconto del particolare evitando a tutti i costi l’universale, con le parole che a cascata generano nuove relazioni di valore. Può sembrare un difetto, ma è tutt’altro. È tutto piuttosto progressivo, in un delicato crescendo che inizia da gestualità geometriche che battono sul tempo delle parole, per poi in breve tempo diventare passi di danza sempre più decisi e muscolari. C’è molto spazio per la teatralità, D’Agostin si mette persino a imitare un presentatore televisivo per introdurre se stesso e il suo nuovo singolo in uscita – un simpatico esperimento di chamber pop tra Perfume Genius e Weyes Blood, costruito anche questo su un crescendo lineare. Sembra quasi il mago delle feste di compleanno che entra ed esce dalla sua tendina: saluta, compie un’azione sul proscenio, e poi sparisce nuovamente lasciandosi continuamente dietro nuovi oggetti di scena che hanno il solo scopo di puntellare lo spazio ritmicamente. Ritmo, melodia e crescendo, come una sinfonia, oppure un incontro di boxe. Quando il crescendo è al suo apice D’Agostin canta e danza con una intensità che quasi fa dimenticare l’incredibile esercizio fisico che sta compiendo tra teatro, autofiction e concerto, un vero e proprio one-man-show. Più che angoscia della perdita c’è una melanconia che attraversa questo sentito omaggio al lavoro di Charnock, e quello è il gancio, il colpo più duro da affrontare, perché arriva alla conclusione di un movimento intero del corpo che proietta tutta la sua forza dinamica nel pugno. Il lutto e l’impossibilità che le parole hanno di descrivere la complessità di una persona sono elementi tanto comuni quanto particolari, ma in nessun momento Best Regards si prende delle velleità universali, anzi ne rifugge restando cocciutamente sulla sua storia, la sua sensibilità, il suo racconto. «Possiamo essere felici del fiorire senza conoscerne le radici?».

(dal sito dell’Associazione Teatro Sociale Gualtieri)

Non avevo mai capito niente di Marco D’Agostin almeno fino a quando ho potuto vedere Best Regards, e ora mi sento uno stupido. C’è un momento dello spettacolo che non vi descriverò per lasciare il giusto alone di mistero a una scelta drammaturgica brillante nella sua semplicità, ma è necessario che vi citi queste parole che vengono enunciate da D’Agostin (non sono sue, ma di Chiara Bersani): «Possiamo essere felici del fiorire senza conoscerne le radici?». Ecco, in quel momento mi resi conto che avevo guardato tutti gli spettacoli di D’Agostin al contrario, mi sembrò come se il palco rovesciato del Teatro Sociale di Gualtieri avesse cominciato a ruotare su se stesso per permettermi di drizzare la mia visione. Il motivo è presto detto, ed è l’insospettabile legame tra quelle parole e una riflessione di John Dewey a cui ricorro spesso quando parlo di critica: «È certo possibile godere dei fiori nella loro forma colorata e nella loro delicata fragranza senza conoscere nulla delle piante sul piano della teoria. Ma chi si propone di comprendere il fiorire delle piante è tenuto a scoprire le interazioni tra suolo, aria, acqua e luce solare che condizionano lo sviluppo delle piante». Insomma, comprensione e fruizione non sono la stessa cosa evidentemente, e alla luce di questo potrebbero sembrare parole superficiali quelle di Bersani, dette col cuore magari, ma pericolosamente frivole. Eppure c’è un altro paradosso da snodare, perché come critici diciamo spesso ai nostri lettori che non dovrebbero aspettarsi sempre l’emersione di un senso dallo spettacolo, ma piuttosto preferire l’esperienza pura e senza pregiudizi, cioè prepararci a accogliere la meraviglia (per quanto filtrata dalla somma delle nostre esperienze e dei nostri studi, ovviamente). Eppure non mancano di certo riflessioni che tacciano lavori come quelli di D’Agostin di evitare una maggiore profondità che disinneschi gli elementi retorici dell’autobiografismo, lasciando lo spettatore con poco o nulla da portare a casa. Credo di aver finalmente capito che la bellezza del modo d’intendere la danza per D’Agostin si celi proprio nell’esperienza immediata, nel suo irrompere nella nostra come lo scoppio di un petardo, e pur avendolo già compreso credevo sinceramente fosse un difetto, e anche piuttosto grave.

Nella nostalgia di D’Agostin così come nei suoi elementi malinconici, non c’è un processo in atto di appiattimento della profondità, sono naturali conseguenze di un linguaggio espressivo che per essere il più trasversalmente possibile gioca su stilemi che provocano una forte identificazione a livello generazionale. C’è la fascinazione per l’analogico, con le lettere e la loro caducità novecentesca, c’è la folgorazione del talent show con gli improvvisi crescendo della musica e le imprevedibili doti canore di D’Agostin, c’è la frammentazione del linguaggio dei social, questi elementi come anche altri forniscono in un bagaglio complessivo di esperienze del tutto normali, a tratti perfettamente banali. Eppure funziona. Funziona perché D’Agostin riesce davvero a elaborare con cura il suo fiore, la stratificazione che applica non è verticale ma orizzontale come i tempi che viviamo, dove è la somma di micro-informazioni a comporre il mosaico della nostra conoscenza del mondo, sempre più parcellizzata da fonti e linguaggi diversi. La danza di D’Agostin è effimera e caduca, non cerca il respiro dell’opera, ma possiede una peculiare empatia con lo spettatore, al quale vuole regalare un’esperienza che non sia troppo dissimile per bellezza e fragilità allo sbocciare di un raro fiore, l’unica cosa che ci chiede effettivamente D’Agostin di fare è di condividere quella gioiosa emozione con lui.

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