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“Augusto” di Sciarroni. Una certa impotenza della danza

di Francesco Brusa

Se il bianco è “lo spazio semantico dell’assenza”, il gesto – per Sciarroni, in Augusto – diventa strumento con cui scavare un vuoto di linguaggi e di significato. Questo bianco, questo vuoto che è poi il luogo teatrale in sé e per sé, viene riempito all’inizio dello spettacolo dai performer seduti in cerchio. Ciascuno, a turno, inizia poi ad alzarsi e a roteare camminando intorno agli altri. Ripetizione e differenza: seguono tutti il medesimo ritmo, infondendolo però – e con misurata discrezione – della diversità imposta dalla propria personale struttura corporea e dalla propria personale presenza “attoriale”. Così, dopo che un performer inizia a ridere – prima divertito (ci sembra), poi nervosamente (ci pare, ancora), infine meccanicamente senza intenzione – gli altri lo seguono, rendendo l’accavallarsi delle risate uno scroscio indistinto che va a caratterizzare l’intero spettacolo.

Il coreografo mette in scena, o meglio “mette in spazio”, movimenti e interazioni tutto sommato semplici e perfettamente intellegibili. Ciò su cui invita a soffermare lo sguardo è proprio la relazione fra individui, fra entità danzanti: corpo a corpo, espressione in rimando ad altra espressione fisica, sintonia e curvatura del moto singolare che vanno a comporre un disegno organico, percorso da incessanti crepe ma coerente nelle sue premesse. Esaurito il cerchio, gli interpreti compongono nuove figure. Li vediamo disporsi a coppie, oppure formare schematismi scenici dal forte taglio geometrico. In ogni caso (e forse a differenza di precedenti lavori, come Untitled_I will be there when you die, in cui a far da collante è comunque un’estraneità di fondo) sembra esserci una certa complicità fra attore e attore, o più precisamente la messa in campo di un’ipotesi di complicità che pare pervadere i corpi in movimento con gli altri corpi in movimento che si trovano di fronte. Se qualcuno sul palco ride, ride anche chi gli si trova vicino e così via sino al pubblico (in un misto di partecipazione e imbarazzo, a dire il vero). È, se vogliamo, il tentativo di estendere il principio di creazione coreografica al di là del palco: se la danza (o meglio, il disegno coreutico) consiste innanzitutto nella “individuazione di un ritmo possibile entro i confini di un contesto real-finzionale”, la risata viene qui elevata ad abbrivio e afflato della cadenza spettacolare la quale – grazie alla fisiologica trasmissibilità della risata stessa – viene per così dire “sporta” verso il pubblico. Fino, però, a uno strappo centrale. Tutti in piedi, i performer si muovono entro le traiettorie di un caos calmo, di un equilibrato amplesso. Improvvisamente, o almeno in maniera che percepiamo come improvvisa dentro il fluire del ritmo, lo scroscio delle risate collettive viene rotto dallo schiocco di uno schiaffo dato da un danzatore a una danzatrice. È un lampo a squarciare il bianco: il disegno coreografico si interrompe, gli sguardi vanno insieme a convergere sulla scena della persona che, dopo il colpo, è caduta a terra.

Alcune teorie sull’origine biologica della risata affermano che tale peculiare reazione fisiologica sarebbe nient’altro che il sintomo della consapevolezza di uno scampato pericolo. Un metodo, cioè, del nostro organismo per “scaricare l’energia in eccesso” che si accumula durante uno stato di tensione. Ora, è come se Sciarroni – attraverso questa sospensione dello svolgimento drammaturgico – volesse quasi mostrarci la contraddittoria genesi della risata. Assuefatti ormai dalla cadenza meccanicamente ilare dello spettacolo, percepiamo lo strappo narrativo come un vero e proprio salto nel vuoto. Anzi, “nel pieno”, visto che è nello spazio dell’assenza e della pura forma che si era sviluppata fino a quel momento la nostra partecipazione spettatoriale. E infatti, se nella prima parte di Augusto il gesto della risata viene spogliato di ogni contenuto o senso ulteriore per divenire puro e semplice “tassello formale”, con l’improvvisa irruzione dello schiaffo in scena (e la conseguente interruzione del riso) una ridda di significati riaffiora alla mente con anche una certa violenza. Vi leggiamo sopraffazione, dominio, magari pure complicati dalla dinamica di genere che pare essere sottesa all’azione. Eppure, dopo poco tutti ritornano a ridere, la persona a terra si rialza e l’andamento coreografico riprende come se niente fosse. O meglio, come se si fosse trattato semplicemente di un piccolo “scherzo”. Ancora, siamo inevitabilmente spinti verso una contrapposizione interpretativa, a un conflitto di linguaggi: nel gesto brutale e diretto troviamo per forza di cose anche l’ispessirsi del dramma, un aumento della tensione, mentre il riso (pur con tutti i suoi caratteri nevrotici e inquietanti) non può che provocare in noi un senso di maggiori tranquillità e distensione narrative.

Ma il tentativo di Augusto non era proprio quello di disattivare il significato che comunemente attribuiamo ai segni esteriori delle reazioni emotive? Non era la risata un mero “tassello formale”? È come se Sciarroni, nel creare un’interruzione drammaturgica che chiami in causa l’origine biologica del gesto, ci mostrasse in realtà una certa impotenza della danza, la sua incapacità infine di trasmutare ogni cosa in ritmo e movimento. D’altronde, la poetica del coreografo premiato quest’anno con il Leone d’Oro alla carriera è molto spesso incentrata sull’errore e sullo scarto. Come rilevavamo su queste pagine a proposito di Untitled_I will be there when you die, i suoi spettacoli spingono i performer in scena e noi con loro a soffermarsi «con uno sguardo di dispiacere e consapevolezza dell’inevitabilità dello sbaglio, dilatandolo», andando a eliminare ogni traccia di virtuosismo «pur conservando il lavoro sul corpo». E il corpo, allora, anche in Augusto si rivela per ciò che è sempre stato: terreno di transito di discorsi e significati, non tabula rasa ma “materia oscura” che continuamente si frappone fra l’astratta ipotesi ritmica e il suo effettivo concretizzarsi sul palco.

La “via” di Sciarroni è in qualche modo quella di anestetizzare tale materia oscura, mostrandone con chiarezza i contorni per poi però delimitarla entro una struttura coreutica e una grafia scenica tutt’altro che “serrate”, ma sufficientemente malleabili e smussate da attutire ogni “colpo” troppo violento. L’errore, lo scarto vengono sì evocati e osservati ma mai condotti oltre i confini di un’esposizione “sotto teca”, mai portati a debordare. Che sia per nervosismo o ilarità (o per un’esigenza coreografica che, ci viene a dire a questo punto, è lo stesso), si torna a ridere tutti insieme. Il bianco riprende spazio, la danza reclama a sé una sovranità figlia dello sbaglio.

L'autore

  • Francesco Brusa

    Giornalista e corrispondente, scrive di teatro per Altre Velocità e segue il progetto Planetarium - Osservatorio sul teatro e le nuove generazioni. Collabora inoltre con il think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, occupandosi di reportage relativi all'area est-europea.

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