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Attraverso lo sguardo: le maschere nella poetica dei Gordi

di Altre Velocità

Nella vita ci facciamo accompagnare da una serie di oggetti, eppure, non vuol dire che abbiano per forza un senso. A volte è una carta di caramella che hai dimenticato nel cappotto; finisci per lasciarla lì, e in qualche modo la trovi rassicurante. Altre volte, ci infili la mano, e quello che trovi sembra un tesoro, hai presente le caramelle Rossana?
Ad ogni modo, creare un manufatto è tutta un’altra storia. C’è la polvere, c’è il gesso che non si asciuga mai, le schegge di legno che sembrano ovunque. Creare un manufatto è un lavoro “sporco” ma senza rendertene conto ti trovi ad agire attraverso qualcosa che è già gesto, che è già forma; e c’è chi lo trova estremamente affascinante. Ilaria Ariemme lavora con la cartapesta e ci mostra le potenzialità espressive e simboliche che il suo manufatto può assumere. Diplomata in scenografia all’Accademia di Brera, torna a collaborare con il Teatro dei Gordi in Visite, ultimo spettacolo della compagnia andato in scena all’Arena del Sole, nel quale ci mostra nuovamente le sue creazioni. Sono maschere che portano le rughe della vecchiaia, Ilaria le realizza con carta ma per prima cosa prende la terra e la modella, sembrano dialogare con il tempo e parlare di stratificazione.
L’attore sulla scena legge: «Coerente è la cipolla. Nell’una ecco sta l’altra, nella maggiore la minore, nella seguente la successiva», mentre lo sfondo teatrale pare tradurre la matericità delle maschere. La rappresentazione avviene in una camera da letto, un “contenitore di intimità”, un luogo che accoglie l’alternarsi delle stagioni e si rende portavoce dell’empatia umana, quella dinamica e frizzante, che può tenere insieme un gruppo di amici. C’è un letto, ci sono due comodini, degli abiti sono appesi a una gruccia, e la musica esce dalla radio, accompagnando tutto lo spettacolo, fino ad assumere le frequenze di un’operazione invasiva. Gli attori riescono a combinare tutti questi elementi e formulare una coreografia dove le luci, la parola-suono, gli oggetti, il movimento dei corpi, e le citazioni letterarie assumono lo stesso valore, diventando i segni di un unico linguaggio.
Se pensiamo all’origine della maschera, è evidente che la compagnia milanese non solo riesca a dare forma a una poetica teatrale personale, ma instauri anche un dialogo con la tradizione. Nella sua storia, non a caso, la maschera non era pensata per camuffare o nascondere il volto, era il manufatto che permetteva al pubblico il riconoscimento del personaggio, era il tratto distintivo che ne rendeva manifesta l’identità. L’attore la indossa e mette in pratica la sua trasformazione. La maschera è una cavità riflettente di una dimensione umana, guarda all’esterno ma si rivolge verso l’interno. Sulla scena, infatti, uno specchio conserva le immagini delle figure che prima si toccano ingenuamente, ora si stuzzicano con malizia, osservano il conflitto del corpo che cambia e sembrano cercare qualcosa oltre quella superficie: «Cipollosa fino al cuore, potrebbe guardarsi dentro senza provare timore», prosegue la poesia.
Ma la plasticità fissa e immobile esprime al meglio la condizione di alcune persone anziane, che tra il ruolo del saggio e quello del folle, diceva Simone de Beauvoir, sono considerate spesso qualcosa di “altro”. I giovani attori indossano la vecchiaia e raccontano una storia che parla di ognuno di noi.
Spesso toccano le maschere, le maneggiano per renderle proprie. Dicono che a volte, un viso pensato maschio si trasformi in donna, e che altre non ci sia verso, perché sembrano parlare.
Lo spettacolo racconta la storia di una visita e di un luogo della resistenza, di un’amicizia e del tempo che scorre. Gli attori, che si esprimono anche attraverso le maschere, incidono la superficie, intagliano i fori degli occhi e vi guardano attraverso.

Marta Pezzucchi

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