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Ascesa e caduta di Ubu tra le mura di un carcere

di Altre Velocità

Ubu Re del Teatro dei Venti, con la regia e la drammaturgia di Stefano Tè. Lo spettacolo, che ha debuttato nell’ambito della rassegna Stanze di Teatro in Carcere nel dicembre 2017, rientra nel progetto “Le patafisiche: universi complementari del Teatri un Carcere” a cui hanno aderito, per il biennio 2016-2018, tutte le realtà che compongono il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. In scena gli attori professionisti sono affiancati da attori detenuti provenienti dalla Casa Circondariale di Modena e dalla Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Considerato un manifesto del teatro surrealista e grottesco, l’Ubu Re di Alfred Jarry nasce come una farsa, una parodia dell’iconico Macbeth di Shakespeare in cui il tema tragico dell’ambizione e della smania di potere gioca con gli elementi del comico e dell’assurdo. In questo allestimento, che si avvicina molto di più al teatro di figura rispetto alla prosa, il testo dell’Ubu Re di Alfred Jarry è ridotto al minimo, a una successione di azioni fisiche. La struttura drammaturgica di Stefano Tè scava nel testo originale conservandone poche battute: lo spettacolo elimina, o meglio oltrepassa la comicità grottesca e l’intento parodistico del testo di Jarry per portare in scena la vicenda degli Ubu in tutta la sua violenza e crudeltà. [caption id="attachment_1652" align="alignnone" width="850"] ph Chiara Ferrin[/caption] L’oscurità è uno degli elementi preponderanti di tutto lo spettacolo. Gli spettatori, radunati fuori dal teatro, vengono accompagnati a piccoli gruppi in una sala completamente immersa nel buio, prendono posto su panche di legno distribuite sui due lati del teatro. È una luce flebile e sommessa quella che si accende sugli attori e sull’insieme di tavoli e pedane di legno che compone la scena, al centro del teatro. Figure oscure e inquietanti animano lo spazio scenico, ogni passo e ogni gesto sembra un vano tentativi di affermarsi in quel buio assordante. I crimini commessi dagli Ubu si susseguono velocemente sulla scena nella forma di combattimenti muti, corpo a corpo. Alfred Jarry stese la prima scrittura dell’Ubu Re tra i banchi di scuola. Questa riscrittura del Teatro dei Venti prende vita tra le sbarre e le mura invalicabili del carcere. Non sorprendono quindi le atmosfere cupe e i riferimenti espliciti al Macbeth, con un Macbeth/Padre Ubu codardo che non porta mai a termine i suoi delitti ed è manovrato come una marionetta da una Lady Macbeth/Madre Ubu che si occupa personalmente di finire il lavoro del marito, fino a dominare sola una fortezza di legno costruita letteralmente sui corpi inermi degli oppositori politici, di Ubu stesso e dei suoi sudditi. [caption id="attachment_1653" align="alignnone" width="1000"] ph Chiara Ferrin[/caption] Ma i protagonisti dello spettacolo sono, in ultima analisi, i corpi. Una sorta di lungo rituale funebre chiude lo spettacolo: dai due lati della scena i sudditi, uno dopo l’altro, risalgono le pedane di legno in quello che sembra un ossessivo e disperato tentativo di sottrarre il potere a Madre Ubu. Ma ogni tentativo di ribellione fallisce e da un cesto Madre Ubu raccoglie pugni di cenere con cui ricopre, uno a uno, i corpi dei detenuti. Una vera e propria abluzione cui i sudditi si sottopongono prima di accasciarsi inermi ai lati del “castello” di legno dominato ormai solo da Madre Ubu. E per la prima volta lo vediamo chiaramente, in tutta la sua durezza: corpi umani e panche di legno, incastrati in una geometria perfetta, sono gli unici elementi che reggono l’instabile potere di Madre Ubu. Eliminata la comicità assurda di Jarry, ridotto al minimo il dialogo, quello che emerge sulla scena è l’insita tragicità dell’ascesa e caduta del regno degli Ubu, tragicità che si specchia nei torsi nudi e tatuati degli attori detenuti, in una fisicità che rimanda necessariamente all’alterità di quei corpi reclusi che, sulla scena, riaffermano la propria libertà.

Valeria Venturelli

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