#05
Di radiodrammi, teatro, ascolto e altre faccende a occhi chiusi
L’ascolto è immobile…
di Rodolfo Sacchettini
Quando Carmelo Bene voleva passare la serata a casa ascoltandosi un disco di musica classica, pare si vestisse in modo elegante, come se fosse in procinto di uscire per assistere dal vivo a un concerto. L’atto dell’ascolto non doveva essere sciatto e neppure inquinato da altre distrazioni. Un galateo dell’ascolto. Al contrario per molti anni si è detto che la forza dell’ascolto, in particolare quello radiofonico, è il non essere dittatoriale rispetto agli altri sensi. Posso lavare i piatti, rispondere alle mail, guidare la macchina e intanto ascoltare la radio con piacere. La radio fa compagnia anche quando non l’ascolti, ma la stai semplicemente sentendo: è un sottofondo di musica, di chiacchiere, di jingle. La radio, con la diffusione del transistor, ha dato vita all’idea primordiale di multitasking. Ma c’è radio e radio: una radio per essere ascoltata e una radio per essere sentita. Il radiodramma nasce come momento spettacolare della radio ed è pensato perciò per essere ascoltato attentamente. Nella sua golden age andava in onda in prima serata e in replica la domenica pomeriggio, come uno spettacolo teatrale. A lungo le famiglie la sera si riunivano attorno alla radio come fosse il focolare domestico e ascoltavano, mentre la nonna faceva la maglia, i genitori sfogliavano riviste e giornali e i bambini giocavano con qualche balocco. Ma quando arriva il momento clou tutte le attività si bloccano e gli occhi si sgranano di fronte alla scatola magica evocatrice di storie oppure si chiudono come in un’immersione subacquea. L’ascolto è immobilità. I cacciatori utilizzano da sempre fischietti per richiamare la selvaggina. Un certo suono entra nell’orecchio del cinghiale e gli parla così profondamente che l’animale si ferma, diventando facile preda del cacciatore. Ogni anno migliaia di turisti a Firenze, a due passi da Ponte Vecchio, strofinano per scaramanzia il naso di un cinghiale in bronzo, scultura di Pietro Tacca, detto erroneamente “i’ Porcellino”, senza sapere che in quel momento il naso è come spento e tutto invece passa per le orecchie ritte: il cinghiale è attento e immobile, perché sta ascoltando. È trafitto prima dal suono che dall’arma. Il radiodramma, come opera pensata appositamente per la radio e che della radio esalta le caratteristiche specifiche dell’ascolto, va scelto. E oggi è possibile andandolo a cercare nelle piattaforme dedicate al suono, soprattutto Rai Play Sound, ma non solo. Il radiodramma non può essere sentito, deve essere ascoltato. Ha bisogno di tempo, di concentrazione, di sforzo di analisi e sintesi. In questo somiglia alla lettura. Ha necessità anche di immersione e abbandono e in questo somiglia al teatro e al cinema.
Quando la Germania era a un passo dal baratro la radio provava disperatamente a mandare segnali democratici e ad aprire gli occhi ai suoi ascoltatori di fronte alla minaccia nazista. Walter Benjamin, Bertolt Brecht, Rudolf Arnheim pensavano a una radio “educativa”, ma non per questo paternalista o accademica. Al contrario trovavano alla radio l’occasione per sviluppare un pensiero critico ed educare alla complessità. Il radiodramma, pensato come opera creativa, poteva tenere svegli, allenando i muscoli dell’immaginazione e dell’attenzione. I pionieri della radio erano così esaltati dalle possibilità creative del radiodramma che iniziarono a organizzare dei veri e propri festival che si svolgevano al cinema. Non veniva proiettato nulla, ma fatte ascoltare sperimentali pellicole acustiche: veri e propri film ciechi da godere seduti comodamente in una poltroncina.
Oggi tra i principali concetti associati al podcast – tecnologia fondamentale anche per fruire degli sterminati archivi messi a disposizione dalla Rai, dalla Bbc e da tutte le grandi radio nazionali – si parla spesso di mobilità. Il podcast, fruito tramite smartphone, si muove con il corpo umano e si ascolta in spazi urbani, strade, piazze o altri luoghi pubblici. Tutto vero, tutto possibile, ma quando il podcast ambisce a far compiere un piccolo viaggio all’ascoltatore allora è meglio fermarsi, magari, se non si è in casa, sedersi in un treno o in un autobus, su una panchina o in attesa che si smaltisca una coda. Fermarsi e isolarsi dal frastuono quotidiano con un paio di buoni auricolari.
Lichtenberg: sull’infelicità umana
di Giuseppe Di Lorenzo
Sembra quasi la scena di un film di fantascienza: pulsazioni elettriche inondano una piccola sala gremita di ascoltatori, le loro orecchie sull’attenti sono come ponti ripetitori valvolari per ricetrasmettitori cerebrali, ma se invece guardate bene da vicino non c’è niente di strano, sono proprio gli spettatori della piccola sala del Teatro Magnolfi di Prato che, assieme a quelli del Museo Galileo di Firenze, ricreano il tipico focolare familiare dell’ascolto radiofonico di un tempo. Sì, perché invece di uno spettacolo, questa produzione del Teatro Metastasio, nell’ambito del progetto L’arte invisibile, è un radiodramma, uno dei tanti che durante e ora anche dopo il lockdown, hanno permesso alla macchina del teatro di continuare una manutenzione dei propri attori, registi e tecnici. Un’occasione fra l’altro piuttosto peculiare, perché si parla di un debutto arrivato in Italia con soli 91 anni di ritardo. Lichtenberg. Uno spaccato è un prezioso capolavoro radiofonico scritto da Walter Benjamin, messo in onda su Rai Radio 3 il 15 luglio 2022, ovvero centotrenta anni dopo la nascita del suo autore. A tirare le redini del progetto c’è Rodolfo Sacchettini, che ha proposto il testo a Claudio Morganti, autore, regista e attore di lunga esperienza anche con i formati radiofonici, il quale però si è trovato dinanzi a un testo pernicioso e complesso, per quanto brillante e vivace. Morganti di fronte alla sfida di dover restituire una verbosità così inusuale e artificiale, comunque giustificata dalla narrazione stessa, trova una brillante chiave di lettura nella farsa. E così Lichtenberg diventa un romanzo kafkiano, con le sue ironiche baruffe burocratiche, le inutili precisazioni al micromillimetro e le insopportabili lungaggini di un linguaggio che nel cercare la verità sembra sempre allontanarsene per palesata incompetenza. Per le voci che costituiscono il vivido spettro timbrico orchestrato da Morganti, spicca la tintinnante orazione di Monica Demuru, accompagnata dalle brillanti interpretazioni di Francesco Pennacchia, Gianluca Stetur, Paola Tintinelli e Francesco Rotelli, capaci di mutarsi in vecchi bofonchiosi, con voci basse e solenni, come in integerrimi funzionari con squilli improvvisi e ritmi melensi. Il ritmo, espressione fondamentale del radiodramma, qui è magistralmente altalenante, la tensione nei dialoghi più concitati viene sostenuta dalle trame sonore elettroniche, e così sempre queste sono capaci di spegnere rapidamente i toni con cambi di volume e intensità, colorando la cadenza di Lichtenberg e stuzzicando l’attenzione dell’ascoltatore.
La storia si svolge tra la Luna e il nostro pianeta. Nel cratere C.Y. 2802 si riunisce il “Comitato lunare per lo studio della Terra”. Questo strambo concilio nasce dall’esigenza di comprendere la natura stessa degli umani, incomprensibile per i lunari, mentre i poveri terrestri non sanno neanche che gli abitanti della Luna esistono. Nel procedere con lo studio il Comitato si è premurato di costruire tre apparecchi specificamente pensati per l’analisi scientifica dei terrestri. Lo Spettrofono, utile per vedere e sentire ciò che succede sulla superficie del pianeta. Il Parlamonio, macchinario con il quale le «irritanti chiacchiere dei terrestri» vengono trasformate in musica. E infine l’Oniroscopio, attraverso il quale è possibile spiare nei sogni. Ma in tutto questo cosa c’entra Georg Christoph Lichtenberg, che era un fisico tedesco del diciottesimo secolo, grande amico di Kant e Goethe, stimato da accademici del rango di Alessandro Volta? La faccenda si fa piuttosto interessante. Ciò che il Comitato lunare si sta imponendo di fare è scoprire l’origine dell’infelicità umana, una condizione endemica che, almeno secondo loro, ha impedito al genere umano di combinare qualsivoglia progresso in millenni di esistenza. Va detto, d’altro canto, che i lunari sono immortali, e per loro la vita umana è visibile interamente anche a causa della distorsione temporale tra Luna e Terra, talmente importante e influente che in un momento particolarmente concitato della discussione, durato forse pochi secondi, il Comitato perderà ben un anno di contatto col pianeta. Lichtenberg è l’essere umano scelto per studiare la specie. Ne rincorrono la vita, gli incontri, gli amori, le delusioni. Attraverso gli assurdi apparecchi fantascientifici a loro disposizione seguono alcuni momenti salienti della veglia e del sonno di Lichtenberg, provando a trovare risposte ai loro dilemmi. Il fisico tedesco è forse infelice perché vive in un paesino sperduto, isolato dal mondo accademico che gli compete? O forse è triste perché la sua mente razionale e rigorosa è schiava dell’ipocondria e della superstizione? Tramite la curiosa storia di Lichtenberg, Walter Benjamin vuole sondare ciò che l’infelicità significa per l’umanità, i suoi limiti, le sue maledizioni, ma anche i suoi stimoli e le imprevedibili urgenze. È una drammaturgia stratificata, che sfrutta il piano fantascientifico per stimolare una narrazione più avvincente. Morganti in tal senso ha dovuto mettere mano al testo, riducendolo in parte ma soprattutto interpretandolo come una farsa in un mondo steampunk, cioè costruendo un immaginario tecnologico (tramite le sonorizzazioni) che fosse al contempo antico e futuristico, sospeso nel tempo.
Ecco, il suono. Morganti ha elaborato una trama sonora che non accompagna superficialmente una storia, ma stimola la narrazione verso sentieri trasversali. Per esempio con la restituzione del Parlamonio, lo strumento che permette al Comitato di modificare le insopportabili voci dei terrestri in musica, ma quale musica ci propone Morganti per descrivere questa società lunare? I suoni di Lichtenberg compiono il proprio raggio d’azione prendendo spunto dalla musica elettronica analogica degli anni ’50, dalle oscillazioni surf di Joe Meek alle melodie accennate di Delia Derbyshire. E quindi il Parlamonio diventa un gioco di intermittenze e fluttuazioni, come se per calibrare le trasmissioni i lunari usassero un vecchio volumometro per regolare l’intensità della ricezione. Morganti gioca pure con le interpolazioni, facendo emergere della musica orchestrale dalle sue trame siderali, come nelle manipolazioni sonore di Antonio Russolo. In questo approccio così retromania vengono evocati gli spettri cinematografici di pellicole shakespeariane alla Forbidden Planet (1956, musiche di Bebe e Luis Barron), in cui l’isola de La Tempesta diventa un pianeta comandato dall’inconscio collettivo, attraversato costantemente da un tappeto musicale elettronico che commenta le scene instillando una soggiacente tensione che solo il freddo suono elettronico riesce ad evocare con tale chiarezza.
Walter Benjamin in questo suo Lichtenberg pone riflessioni complesse senza edulcorare nessun aspetto e il fascino di questa trasposizione sta proprio nella sua capacità di rendere immediate, tramite la farsa, questioni come l’infelicità, la paura e la morte. Questa nuova produzione del Teatro Metastasio nell’ambito del progetto L’arte invisibile: Radiodrammi è l’ennesima prova che tra i molteplici mezzi con cui il teatro si è fatto strada durante l’emergenza mondiale che ci ha costretti a chiudere tutti i teatri e tutti gli spettatori, quello del radiodramma ha dimostrato una vivacità creativa per nulla scontata. L’arte del radiodramma non è qualcosa di necessariamente legato al passato, questi esperimenti di ascolto collettivo, così come i podcast e i nuovi mezzi di trasmissione e distribuzione del web, mostrano che il teatro, salvo pochissime eccezioni come questa, non sta sfruttando una grande occasione per mettere in crisi i linguaggi del contemporaneo, rientrando nelle case che si sono tragicamente abituate a stare chiuse, aprendo uno spazio infinito, dove la farsa dei pianeti va in scena sul palco della Via Lattea e noi, come dei bravi ricetrasmettitori, traduciamo segnali antichi dal vuoto siderale.
«La radio si vede, il teatro si ascolta»
Conversazione con Claudio Morganti
di Ilaria Cecchinato
Spostare il punto di vista, magari chiudendo gli occhi, per liberarsi dall’ostinata ricerca di una comprensione razionale e lasciare spazio al puro sentire. Un suggerimento rivolto al pubblico che amplia le prospettive sulla natura dell’arte scenica e si rivela essere anche l’attitudine alla creazione di Claudio Morganti, incontrato a Prato qualche settimana fa per una chiacchierata sul teatro alla radio.
Regista, attore, drammaturgo e intellettuale – vincitore di diversi riconoscimenti, tra cui il Premio Ubu 2012 – Morganti si confronta da anni con l’arte radiofonica rendendola parte integrante della propria pratica teatrale. Fra le più recenti esperienze, il percorso nel 2020 con il GLA – Gruppo di Lavoro Artistico, progetto del Teatro Metastasio di Prato, durante il quale è stato regista di alcune creazioni audio e ideatore di un programma in quattro puntate sul Rigoletto, composto da radiodrammi, adattamenti e varietà radiofonici. L’estate 2022 ha visto invece l’andata in onda su Radio Rai 3 di Lichtenberg – Uno spaccato, l’adattamento di un radiodramma mai trasmesso dell’intellettuale tedesco Walter Benjamin, di cui Morganti ha curato la regia e la drammaturgia.
Lungo i tracciati di un’indagine attorno alle possibilità della scena invisibile in epoca contemporanea, la conversazione parte da queste esperienze per ragionare attorno alla rinnovata relazione tra teatro e radio, tra punti di contatto e profonde differenze, scoprendo come vista e udito amino scambiarsi spesso di posto: l’una nell’etere, l’altro in platea…
In occasione dei 130 dalla nascita del filosofo e saggista Walter Benjamin, il 15 luglio 2022 è andato in onda su Rai Radio 3 Lichtenberg – Uno spaccato, la ripresa del radiodramma scritto dall’intellettuale tedesco mai finora trasmesso, di cui sei regista e uno degli interpreti. Di fronte a che testo ti sei trovato di fronte e qual è stato il processo di adattamento radiofonico? Quali aspetti hai considerato per la messa in voce e suono, e perché?
«Ho accettato di adattare Lichtenberg solo quando ho avuto la garanzia di poter tagliare. Si tratta di un testo verboso e prolisso, perchè intriso di elementi didattici, molto cari a Benjamin. È senz’altro un’opera piacevole da leggere, ma un testo destinato alla lettura silenziosa non è lo stesso di uno scritto da mettere in voce. Sono due mondi completamente diversi, l’azione necessita di maggiore sintesi. Tuttavia, fra le maglie del testo, si intravvede la dimensione della commedia, una mia predilezione perché, parafrasando Oscar Wilde, è attraverso la leggerezza che si può parlare di cose serie. Quello che ho cercato di fare, quindi, è stato esaltare e salvare soprattutto la commedia attraverso un lavoro di riduzione, senza escludere nessuno dei temi affrontati da Benjamin. Ho avuto l’impressione che Lichtenberg potesse essere trattato come una fiaba, genere tiene in sé la dimensione morale e dell’insegnamento ma al tempo stesso – essendo rivolta ai più piccoli – è caratterizzata dai precetti dell’azione, come continui cambiamenti e colpi di scena. Drammaturgia è ciò che si suggerisce e che può essere colto, sviluppato, trasformato e ricreato: io allora sono partito dalla suggestione delle macchine dei seleniti per costruire una fiaba di ambientazione steam punk. Le loro attrezzature non funzionano e sebbene siano convinti di essere superiore ai terrestri, in realtà si rivelano esseri litigiosi e permalosi. Da qui tutto l’immaginario di macchine a vapore e computer di legno. Questi quindi sono gli elementi su cui ho lavorato, anche per cercare di far emergere ciò che a Benjamin interessava».
Questo scenario steam punk ha anche aperto a un particolare lavoro sul suono…
«È stato molto divertente perché la dimensione sonora per me è diventata l’ossatura di tutto il lavoro. Spostare il punto di vista, d’altronde, è fondamentale. Una volta capito che potevo giocare sui rumori delle macchine, ho trovato una chiave, senza preoccuparmi troppo della comprensibilità della scelta. Chissà quando la faremo finita con questa cosa del capire. La poesia è da capire? No. E allora perché a teatro bisogna sempre comprendere? Mi trovo concorde con il regista, scrittore e cineasta russo Tarkovskij quando dice che mentre si sta cercando di capire, ci si perde quel che succede. In questo momento mi sembra che il teatro, con la pretesa di essere attuale, finisca per essere didattico e didascalico. Il suono delle macchine è dunque una suggestione nata dal libero confronto con l’opera, pur sempre mantenendo precisione e coerenza: sebbene rielaborati, non ci sono mai rumori fuori contesto, sono sempre quelli prodotti dalle strumentazioni dei seleniti».
Nel 2020 hai anche fatto parte del GLA – Gruppo di Lavoro Artistico, progetto promosso dal Teatro Metastasio, nato nel contesto pandemico per rispondere all’urgenza di trovare nuovi mezzi e spazi per il teatro. Fra i vari mezzi, l’audio più di altri sembra esser stato una vera e propria riscoperta per le arti sceniche, tanto che sperimentazioni e confronto con la tradizione del radiodramma ancora proseguono. A quali fattori è dovuta questa affinità e quali invece le profonde differenze?
«Io da sempre realizzo piccole creazioni radiofoniche, quindi per me occuparmi di teatro attraverso e con l’audio non è una cosa nuova. Inoltre, ho un pensiero molto preciso riguardo al rapporto tra radio e teatro: non credo ci sia alcuna differenza. Possiedono infatti un elemento originario comune: chiudere gli occhi. A osservare la scena, si accettano i suggerimenti di chi l’ha ideata, si rinuncia alla libertà di interpretazione data dalla sua capacità evocativa. A teatro, in altre parole, si potrebbe anche fare a meno della visione. Se si pensa a una persona non vedente che va al cinema, questa si ritrova ad ascoltare soltanto dialoghi e qualcuno sarà obbligato a spiegare l’azione. A teatro, invece, può farsi un viaggio personale, perché questo non ha a che fare con la narrativa, ma con la poesia. Per questo il teatro lo si può sentire anche a occhi chiusi. La radio è lo stesso, ma necessita della composizione, perché non ci sono attori dal vivo in grado di gestire il percorso creativo nell’atto, con i loro tempi e la loro scelta di colori. La radio è una cosa ferma e registrata, è pura questione musicale, di tempi, modi e ritmi. Ecco, proprio il ritmo – che pertiene tutta l’arte – ha a che fare in modo potente con il teatro, con la poesia e con la radio. Sulla scena viene determinato dagli attori sera per sera, quelli bravi, in grado di assumersi la responsabilità fino in fondo di comporre nel medesimo atto del fare. Alla radio, invece, il ritmo lo si deve fissare e ciò richiede un lavoro di costruzione finale più lungo – il montaggio – che permette di soffermarsi in solitudine su uno stesso passaggio, cosa che in teatro non accade, perché si gioca ogni sera una nuova partita».
C’è un altro scarto tra teatro e radio: compresenza di attori e spettatori nel primo caso; assenza di pubblico e fruizione in differita nel secondo. Cosa cambia per un regista e un attore nella messa in scena?
«Cambia tutto, nel senso che per il teatro si tratta di considerare la performance come un evento unico e irripetibile. C’è una concomitanza di composizione ed esecuzione, che è poi il principio dell’improvvisazione: si compone mentre si esegue e viceversa. In teatro gli spettatori sono la controparte fondamentale: il pubblico è partecipante mentalmente, è invitato a condividere una serata, a riempire vuoti che sono stati lasciati appositamente per permettere un lavoro comune. La partecipazione, quindi, parte dalla mente e nei casi più felici può arrivare ai sentimenti. La radio è ancor più poesia. Qualcuno disse che il poeta, quando compone, è come se scrivesse per una sola persona, perché solo una alla volta è chiamata a leggersela e viversela personalmente. La radio è così anche quando si fanno i gruppi d’ascolto, perché un simile contesto comunitario non sopperisce la concomitanza di azione teatrale e pubblico».
Durante la serata Turn on your ears. Dialoghi e ascolti attorno all’audiofiction del 16 dicembre 2021, è stata sollevata una curiosa questione a partire dalla distinzione tra radio e podcast: la radio sarebbe piú affine al teatro perché accade e svanisce, radunando più ascoltatori in uno stesso tempo. Il podcast invece negherebbe la comunità alimentando fruizioni individuali, immersive ma pur sempre per il singolo, sempre ascoltabili, riproducibili. Tu cosa ne pensi?
«Mi sembra che questa distinzione rispetto alla fruizione sia fin troppo ovvia e facile. L’arte invece non lo è affatto. Io tra radio e podcast non vedo tutta questa differenza. Potrebbero esistere soltanto gli eventi musicali, invece esistono anche i CD. Quando i concerti costavano 3 mila lire e i dischi 10 mila, io registravo i live e me li riascoltavo. Se si ha necessità o desiderio di sentire o risentire qualcosa alla radio, qual è il problema? In fondo è un supporto che tiene testimonianza di un fatto accaduto e registrato. Il qui e ora si fa insieme e il teatro si occupa di costruirlo attraverso il lavoro comune di attori e spettatori, unica caratteristica che può definire quest’arte. Per la radio ciò non è possibile, è stata creata prima, in un altro luogo, spazio e condizioni. A meno che non sia una trasmissione in diretta: in questo caso si può dire abbia più a che fare con il qui ed ora del teatro, anche se non è un qui, è solo un ora. Qui e ora significa lavorare tutti alla riuscita di un incontro. E questo avviene a teatro nella compresenza e in radio nella condivisione di un’esperienza. Quindi va bene anche il podcast, nel momento in cui l’incontro riesce».
Il pubblico del radiodramma era una nicchia prima e lo è ancora di più ora. Per il teatro vale lo stesso, ma in qualche modo c’è lo sguardo a sostenere la fruizione e, in una società basata sull’immagine, questo favorisce una maggiore partecipazione. Il pubblico quindi è pronto per un teatro invisibile? C’è un futuro per l’audiodramma o resterà solo sperimentale?
«Prima di tutto ci tengo a fare una precisazione. Il teatro è da ascoltare, mentre la radio è da vedere. La capacità evocativa del mezzo radiofonico è in grado di suscitare visioni, mentre il teatro – proprio perché propone immagini – nega in parte la suggestione. La radio è visiva proprio perché ha a che fare con l’invisibile perciò, se ben fatta, lo sforzo degli ascoltatori andrà inevitabilmente nella direzione di ricreare immagini.
Detto questo, il futuro io non lo posso conoscere, forse guardandoci alle spalle possiamo vedere il passato, ma a quanto pare fino a un certo punto. Quello che però sto notando è che la radio, come fu per il teatro, sta cercando di snaturarsi attraverso la radiovisione, che è una contraddizione in termini, è un togliersi lo specifico che determina l’arte radiofonica. Se dovessi veramente dire qualcosa sul futuro, direi che non vedo nulla di buono».
Consigli di lettura
R. Arnheim, La radio, l’arte dell’ascolto e altri saggi, Editori Riuniti, 2003 [1987]
W. Benjamin, Tre drammi radiofonici, Einaudi, 1978
R. Sacchettini, La radiofonica arte invisibile. Il radiodramma italiano prima della televisione, Titivillus, 2011
J.Zenti, La radio revolution, articoli in “La Falena”, n.2/2021 [leggi un estratto qui]
Consigli d’ascolto
Lichtenberg – Uno spaccato, di W. Benjamin, regia e adattamento di C. Morganti, Rai Play Sound, 15 luglio 2022
La maledizione. Piccolo viaggio senza ritorno guardando da lontano il Rigoletto di Giuseppe Verdi, regia e ideazione di C. Morganti (4 puntate), nell’ambito del progetto L’Arte Invisibile, produzione GLA – Gruppo di Lavoro Artistico del Teatro Metastasio di Prato e Rete Toscana Classica
Altri audiodrammi del GLA – Gruppo di Lavoro Artistico del Teatro Metastasio di Prato e Rete Toscana Classica disponibili a questo link
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Gli autori
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Laureata in Dams e in Italianistica, si occupa di giornalismo e cura progetti di studio sul rapporto tra audio, radio e teatro. Ha collaborato con Radio Città Fujiko ed è audio editor per radio e associazioni. Nel 2018 ha vinto il bando di ricerca Biennale ASAC e nel 2020 ha co-curato il radio-documentario "La scena invisibile - Franco Visioli" per RSI.
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Critico teatrale, è tra i fondatori di Altre Velocità e collabora con la rivista Gli Asini. Dal 2004 conduce una rubrica radiofonica di attualità teatrale su Rete Toscana Classica. Ha curato svariate pubblicazioni nell'ambito del teatro ed è stato codirettore del Festival di Santarcangelo per il triennio 2012-2014 e presidente dell'Associazione Teatrale Pistoiese.