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“Alcuni giorni sono migliori di altri” di Kinkaleri

di Lucia Oliva

Alcuni giorni sono migliori di altri, chiosano i Kinkaleri nel gioco infinito dei titoli, ed altri sembrano più bui delle notti, verrebbe da aggiungere.

Dopo Nerone, dopo le macerie, i residui, le lapidi, gli idoli, cosa rimane del fare di un gruppo che ha visto, o forse ha patito, un’emorragia di alcune sue cellule, lasciando il collettivo un po’ meno collettivo e un po’ più solo?

La risposta sono due corpi vestiti da fantasma, spettri straordinariamente robusti nella loro corsa infinita al mascherarsi e allo svelare. Sotto i lenzuoli due adolescenti, come si è adolescenti oggi, in quell’interregno tra i venti e i trent’anni. Due corpi maturi come lo è un frutto su un ramo, al culmine delle loro potenzialità. Tra queste vi è anche la forza, esplosiva, e l’ostinazione, caparbia, inanellata in una catena di azioni estenuanti sempre uguali a loro stesse, eppure sempre diverse, via via più sbavate, più grevi, pesanti nello sforzo dei muscoli e nell’urlo del fiato. Lo spettacolo è un susseguirsi rabbioso di crolli e di furia che non cerca una direzione ma morde se stessa, prende a pugni il legno leggero e sbatte le teste contro i muri, sanguina e sputa centrando un bersaglio che è identico al proprio agire. La potenza è un groviglio di gesti e di membra, una gara a spogliarsi e rivestirsi, brandelli di situazioni e indumenti, e anche il teatro è un brandello, un lenzuolo sudato con cui giocare ai fantasmi, una richiesta d’aiuto e sostegno, una gara contro il senso e la sua appropriazione in cui l’unico vincitore possibile è l’agire presente, adirezionale. Ma lo spettatore non viene investito da questa foga furiosa, immunizzato dal moto centripeto della scena che tutto assorbe senza contagiare l’esterno. La forza implode ed estenua solamente sé stessa, in una coazione a ripetere che esaurisce e ferisce i corpi ma anche lo sguardo.

Si assiste così attoniti all’ombra di una storia d’amore in absentia, com’è in absentia il teatro, catturato dalle tenaglie di un gioco rapace, ineluttabile, spogliato di se stesso e lasciato alla cruenza della veridicità dei corpi. Ma al di là delle loro fibre gonfie, potenti, sono corpi prigionieri, corrono come due criceti su una ruota, solo che la ruota è dentata, e strazia. E questa dimensione inchioda in croce all’attualità, a quella minuta delle proprie fatiche e a quella di tanti, di chi riconosce la ruota e la gabbia e ne morde le sbarre. Uno spettacolo, quello dei kinkaleri, che scivola dagli occhi come sputo sulla faccia, ma come questo non si dimentica, e resta nella memoria, e nei discorsi, acre ed infine pieno proprio di ciò che sembrava in origine negato, ovvero la sua potenza di fuoco sull’esterno.

*Pubblicato in “Hystrio”, n.4 2008

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