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Adriatico: « Francesco era un giovane che ha prestato il proprio corpo alla storia del nostro paese»

di Altre Velocità

Chiedi chi era Francesco,  nuova produzione in scena ai Teatri di Vita dall’11 al 16 Marzo. Seguendo l’invito che troviamo nel titolo dello spettacolo, comincio chiedendole: chi era Francesco e come viene raccontato in scena? Francesco è un giovane non più giovane – sarebbe stato un uomo di 65 anni oggi – che 40 anni fa ebbe la sfortuna, giovanissimo, di lasciare il proprio corpo sull’asfalto in una giornata di grandi turbolenze, come spesso accadeva negli Settanta nei cosiddetti “scontri di piazza”. Un giovane carabiniere estrasse la pistola e sparò ad altezza uomo contro i manifestanti. Quell’episodio si può dire abbia segnato un’epoca perché da quel momento la virata sociale degli anni ‘70 ha preso delle strade molto differenti. Quindi, chi era Francesco? Era un giovane che suo malgrado ha prestato il proprio corpo e la propria storia alla storia del nostro paese. Cosa ha spinto lei e Grazia Verasani a occuparvi di questo tema e con quali obiettivi, oltre alla volontà di ricordare Francesco Lorusso? Sicuramente una distanza focale così importante dalla storia spesso invita a delle riflessioni. Molto spesso i momenti di snodo, per chi si occupa di aprire spazi nella creatività, sono momenti necessari di meditazione. Per me riflettere sul ’77 è stato un po’ come provare a riflettere sulla trasformazione della mia vita in questi 40 anni e anche, tenendo sullo sfondo le tensioni emotive, sulle differenze, le distanze. È anche un tentativo di raccontare alle generazioni che non hanno vissuto quegli anni che c’è stato un ragazzo come loro che, riconoscendosi in utopici ideali (espressi in slogan come “Lavorare con lentezza”, “Conquistare il paradiso”), in maniera anche molto cruda e determinata rivendicava un diritto di esistenza differente da un presente e da un futuro oggi come allora incerti e instabili. In altre interviste ha dichiarato che un legame tra l’oggi e quei difficili anni ’70 esiste che conoscere quel periodo può aiutarci a capire come siamo diventati. Quindi: come siamo diventati, quali sono le differenze? E se ci sono, sono positive o negative? Bisogna stare molto attenti, nel rispondere a questa domanda, alla tentazione nostalgica. Io che sguazzo nella memoria storica di quegli anni sento una grande nostalgia, come dice Pasolini, per ciò che non ho vissuto. Di fatto nel ’77 ero un ragazzino di 11 anni. Però mi accalora vedere testimonianze fotografiche di grandi masse in piazza, di riunioni di grandi combattimenti verbali, fisici, allegorici, scontri continui. Sono una testimonianza di un’epoca in cui la socialità è un fattore importante. Uno degli elementi che più mi colpisce affondando in quella memoria è l’idea di non perdersi nella solitudine. Radio Alice, che è stata simbolo di quell’epoca, si proponeva proprio come antidoto alla solitudine, luogo dove sconfiggere una potenziale solitudine collettiva, sociale, non solo privata. Tale sentimento di solitudine lo vedo oggi e attraversa praticamente tutto: dai nostri nuovi meccanismi di comunicazione alla base delle relazioni, alla quotidiana sensazione del dovere guardare l’altro con sospetto. Combattere la solitudine è una lezione che dovremmo provare a rivisitare. Affinità con il ’77 sono state riscontrate anche nell’occupazione del 36 in via Zamboni. Tuttavia moltissimi giovani hanno espresso dissenso nei confronti dell’atteggiamento del CUA, molti altri non credono più nelle manifestazioni in generale, altri ancora non hanno alcun interesse e inclinazione politica, mancano di ideali. Crede che questo sia un retaggio culturale di quel ’77, magari dovuto anche alla paura di esporsi in prima linea? Anche qui il rischio è cadere in una nostalgia stantia. Io penso che ogni epoca porti con sé un ritratto antropologico molto chiaro e preciso. È naturale che la generazione del Millennium, per come l’ho osservata io, si porta dentro dei meccanismi, proprio alla base di relazione con l’altro, che sono molto diversi dalla politicizzazione estrema degli anni ’70. In qualche maniera inevitabilmente prendono strade diverse anche di fronte a sentimenti simili. Per usare le parole di Grazia Verasani «è nascere che è il primo momento di guerra», dunque io credo che ogni momento storico si porti dietro la propria possibilità di rivoluzione. Cosa può insegnarci la storia nelle nostre rivoluzioni contemporanee è proprio sapere che esiste qualcuno che prima di noi l’ha fatta, l’ha perseguita, ha ottenuto scarsi o buoni risultati, però ha lasciato un tracciato dentro un percorso umano. L’omicidio di Lorusso è stato ha cambiato la nostra società per sempre. È come nella vita privata: se uno ha un incidente in amore, in famiglia, o emotivo di qualsiasi tipo, deve rifletterci su per poterlo superare. Mi pare che oggi stiamo attraversando ancora questa fase. Tornando in scena: lo spettacolo è sia da vedere, sia da ascoltare, dal momento che è stato trasmesso il giorno della prima in diretta su Radio città del Capo. È un voluto riferimento alle radio libere (e soprattutto a Radio Alice) o questa cosa è venuta dopo? È stato un punto di partenza. Ho chiesto a Grazia Verasani di scrivere partendo dal fatto che la mia interprete principale volevo fosse calata nel 2017 e che avesse a che fare con una radio. Abbiamo lavorato su 3 sostanziali direttrici: la radio, il cinema e il teatro che è il luogo dell’accoglienza. Provare a mescolare questi tre elementi ma conditi da una condizione di base: e di nuovo torniamo al Millenium, cioè ai metodi di comunicazione di oggi, tutto quello che Radio Alice poteva vedere solo a distanza. Sabato c’e stato il debutto: come è stato mettere in scena Chiedi chi era Francesco proprio l’11 marzo, il giorno in cui il giovanissimo Lorusso è stato ucciso? Quali sono state le reazioni del pubblico e le vostre? Ho provato grandissima commozione. Sono molto grato a Radio città del Capo per avere accettato di mandarlo in diretta sulle sue frequenze e sono anche molto grato al numeroso pubblico in sala che mi sembra, almeno dagli applausi, aver colto il senso dell’operazione. Di sicuro non volevo che fosse un raduno nostalgico degli ex “Settantassettini”, con tutto il rispetto per chi ha vissuto quel periodo storico; voglio pensare di aver prodotto un lavoro, insieme a Grazia Verasani, a Teatri di Vita, agli attori Olga Durano, Francesca Mazza, Gianluca Enria e Leonardo Bianconi, che ambisce a raccontare la storia a chi non la conosce, sperando che chi la vede e ascolta per la prima volta possa avere la curiosità di addentrarsi nel grande mistero che è stata la stagione degli anni ’70 italiana. Il titolo, infatti, è un invito a chi vuole guardarci dentro, poco importa se giovane o vecchio e rifà l’eco a una poesia-canzone di Roberto Roversi, molto presente nello spettacolo, si tratta di una frase quasi retorica. Ci si può chiedere chi era Francesco Lorusso, oggi è ormai un marchio di un’epoca mentre il destino personale dell’uomo nascosto dietro questo nome è poco noto.  

Ilaria Cecchinato

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