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Addio a Maya Plisetskaya, la “Callas del balletto”

di Altre Velocità

Il mito Plisetskaya vede una donna, abile acrobata, passare con energici voli dal trapezio dell’erotismo a quello della spiritualità dei ruoli romantici, farsi sposalizio tra aggressività e dolcezza, fra interpretazione spavalda e riverente verso il suo unico e favorito padrone, il pubblico. L’estro fortemente teatrale di Maya Plisetskaya, la sua capacità di far vibrare lo spettatore più assopito muovendo un solo ventaglio e il suo sguardo penetrante hanno polarizzato l’ammirazione del mondo intero su questa danzatrice dalla tecnica eccelsa nonostante la gambe tornite, in un’epoca in cui le linee affusolate della danza classica marchiavano a fuoco il concetto di ballerina. Ma sua la capacità interpretativa rimane probabilmente indelebile nella storia della danza classica del Novecento. Accattivante, umana e armoniosa, la figura di Maya Plisetskaya è emblema dell’espressività oltre il ristretto tecnicismo accademico, di cui la danzatrice ha più di una volta accusato il suo iniziatore, il rabbino alchimista che la plasmò come il Golem: il Teatro Bolshoi. La necessità di poter dire a voce alta, con determinazione, quali fossero le sue opinioni nel mondo della danza e dell’arte in Russia la portano a scrivere la propria autobiografia, ancora ignorata dal mondo editoriale italiano. I, Maya Plisetskaya nasce nel 1991 dal desiderio di verità, dallo sfogo viscerale di una donna la cui carriera, come quella di tanti altri danzatori durante il regime sovietico di Stalin, fu oggetto di manipolazioni e dispotismi da parte della burocrazia, e che la vide costretta a combattere fino ai suoi ultimi giorni nel nome della libera espressione creativa.
Nacque nel novembre 1925 in una famiglia di origini ebraiche profondamente attaccata alla vita di teatro, vicina di casa del danseur Mikhail Mordkin, partner della Pavlova. Grazie sopratutto agli zii materni, affermati astri della danza e del teatro di prosa, venne instradata per la sua determinazione, talento naturale e orecchio musicale verso l’Olimpo della danza. Ma le purghe staliniane colpivano violentemente e ovunque fino ad arrivare al padre di Maya che venne catturato come nemico del popolo e giustiziato per aver aiutato economicamente il direttore artistico di un teatro da camera, un tempo segretario di Trotskij. La vita per Maya e per altre vittime indirette del regime proseguì senza sosta tra lezioni di danza, perquisizioni dentro i corpetti nei dietro le quinte e moduli da compilare: le sue pagine autobiografiche parlano di una scuola di danza dove nessuno veniva buttato fuori bensì accuratamente registrato, controllato e costretto a esibirsi per il club della polizia segreta.
Diplomata col massimo dei voti, entra a far parte della compagnia del Teatro non come elemento del corpo di ballo ma subito col titolo e coroncina da ballerina solista. Da qui in avanti la Plisetskaya cavalcherà l’onda del successo davanti a milioni di spettatori che la ricorderanno per suoi balzi e per le sue morbide e affusolate braccia che l’hanno resa indimenticabile nella storia del balletto.
Un elenco interminabile di ruoli, capitanato da quello di Odette-Odile ne Il lago dei cigni e della Morte del Cigno (ma anche nel Don QuixoteLa notte delle valpurgheSpartacusGiselleRomeo e Giulietta ecc.) l’ha resa famosa in tutto il mondo e richiesta a gran voce nei maggiori teatri al punto che il New York Times nel 1959 la definì la «Callas del Balletto». In questo periodo conobbe un altro artista divenuto poi compagno di vita, il musicista Rodion Shchedrin. Con lui condivise non solo un’avventurosa vita matrimoniale ma anche la fama ed i successi, usando le composizioni firmate dal marito per le sue coreografie (il riadattamento della Carmen Suite di Bizet, Anna Karenina e l’omaggio al capolavoro cechoviano Il Gabbiano).

Il suo rendere personaggi eterei e virtuosi con una sensibilità carnale e umana l’hanno consacrata come musa agli occhi di grandi coreografi russi e occidentali, che plasmarono sulle sue linee produzioni in cerca di quella miscela tra morbidezza e sensualità che Maya Plisetskaya sapeva dosare spontaneamente. Nascono così delle collaborazioni con il promotore dello stile neoclassico Serge Lifar con Phèdre (1950), la rielaborazione di versi e disegni di William Blake nei passi de La Rose Malade di Roland Petit (1973) e, nonostante l’iniziale ostilità del Bolshoi, le nuove e audaci forme della danza contemporanea arrivarono a Mosca forgiate da Maurice Béjart con il Bolero (1975), Isadora (1976) e Leda (1979). La sua grandiosa carriera è stata più volte fulcro d’attenzione per la televisione russa con le apparizioni in film come Acque di Primavera (1989); negli anni ’80 ha ricoperto la carica di direttrice dell’Opera di Roma e del Teatro Lirico Nacional di Madrid, continuando ad insegnare repertorio e tenere master class fino a questi giorni. È stata inoltre pluripremiata (Lenin Prize nel 1964, Hero of Socialist Labour nel 1985, Commander of the Order of Art and Letter in Francia nel 1984, Order of Merit for the Fatherland nel 2005 “per il contributo allo sviluppo dell’arte coreografica nazionale e internazionale”, e in Giappone l’anno seguente il Premio Imperiale nella categoria Teatro) durante la sua attività di danzatrice da cui s’è ritirata all’età di 65 anni, esibendosi comunque in qualità di solista in brani coreografici creati per lei, come Ave Maja, di Béjart, o destreggiandosi ancora in performance interpretative che mostravano l’addolcimento ma non la stanchezza d’un animo sempre sicuro e indomabile.

Restare in Russia

Tanti fenomeni della danza classica hanno scelto prontamente di fuggire durante le tournée e seguire i propri sogni all’estero (Rudolf Nureyev, Natalia Makarova, Mikhail Baryshnikov ecc.). Alcuni invece intrapresero la loro lotta dall’interno tentando di spronare la stagnante scuola verso un’apertura al moderno e un’influenza di stili differenti, lasciando libero spazio alle menti creative: tra questi Vladimir Vasiliev e la moglie Ekaterina Maximova, e in anni più recenti Irek Mukhamedov e Vladimir Malakhov. Ovviamente tra questi c’è Maya, la quale ebbe modo di vedere durante i suoi viaggi col Bolshoi quanto fosse diversa la situazione per i suoi colleghi francesi, inglesi e americani. Ne rimase ovviamente affascinata ma non si lasciò mai vincere dalla tentazione poiché fuggire «in Occidente avrebbe significato ingannare le persone che hanno creduto nella tua lealtà e sincerità. Senza inganni, non puoi scappare». Così ha continuato la sua battaglia insieme ad altri danzatori e coreografi affrontando e rifiutando a viso scoperto le imposizioni della burocrazia e organizzando insieme a Vladimir Vasiliev un gruppo di opposizione attraverso, ad esempio, accese manifestazioni contro le creazioni iper-accademiche dell’idolatrato coreografo Grigorovich, il quale ancora nella seconda metà degli anni ’80 tendeva a ignorare i contributi che grandi innovatori russi come Fokine, Nijinsky, Massine e Balanchine avevano dato al mondo della danza. Una ribellione nello specifico contro le scelte di un Teatro – il Bolshoi –  che secondo la danzatrice odora di polvere, e rimane ancora oggi soggiogato da un nepotismo deleterio per la nascita di nuovi talenti e geni creativi. Lo definisce un corpo in stato comatoso, sofferente e soggiogato al potere politico-finanziario. La storia si ripete, e la maggior parte delle stelle del Bolshoi e Kirov (Osipova, Vasiliev, Lunkina), interessate ad una crescita senza costrizioni e limitazioni artistiche, continuano a seguire il passo dei loro predecessori abbandonando la terra natia per accettare le astute proposte di lavoro presso i Teatri stranieri. Non troppo dissimile è la situazione per tanti talenti italiani che da vent’anni a questa parte scappano dall’ottusità e dal torpore che sta inaridendo l’Italia forse per la sua pigrizia, per poi tornarvi accolti da un pubblico esultante, come étoile di Teatri stranieri. Ne abbiamo recenti esempi con Eleonora Abbagnato, fresca di nomina all’Opera di Roma, con Pompea Santoro, Giuseppe Picone o tanti altri giovani che infoltiscono le compagnie straniere, mentre permane nel Bel Paese uno scarso interesse dimostrato dalle scarse opportunità di approfondimento offerte a chi cerca spazio nella danza non solo come danzatore ma considerandola un campo di studio a 360°, ampliando il dibattito all’ambito filosofico, storico e  sociologico, come accade in Francia e negli USA, e non semplicemente creando ottimi atleti e occasioni spesso dilettantistiche di scambi coreografici.

Per chiudere vogliamo ricordare Maya Plisetskaya con il manifesto che emerge dalle pungenti pagine della sua autobiografia, scritta vent’anni prima nella stessa abitazione di Monaco dove ci ha lasciati l’altro ieri, 2 maggio, a causa di un arresto cardiaco a 89 anni:

E infine di che ha veramente bisogno una persona?
Non saprei dirvi per gli altri. Dirò quel che riguarda me.
Non voglio essere una schiava.
Non voglio che persone che non conosco decidano il mio destino.
Non voglio un guinzaglio al collo. Non voglio una gabbia, anche se è di platino.
Quando mi invitano da qualche parte come ospite e mi fa piacere andarci, voglio essere libera di viaggiare, di volare lì.
Desidero essere alla pari con le altre persone.
Se il mio teatro va in tour, voglio andare con lui.
Non voglio essere rifiutata, evitata come una lebbrosa, marchiata a fuoco.
Non posso viver bene con me stessa, quando le persone scappano, si allontanano da te, ti evitano, hanno paura di parlare con te.
Non voglio nascondere quel che penso.

È degradante dover stare attenti alle minacce.
Non voglio chinare la mia testa e non lo farò.
Non è ciò per cui sono nata.

di Alice Murtas

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