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Abitare il mondo. A proposito di “Tiny” di Annamaria Ajmone

di Altre Velocità

È tra un gruppo di cardi secchi, immobile guarda dritto davanti a sé. Io guardo dritto davanti a me e, inevitabilmente, voglio essere là, perché Annamaria Ajmone ha la peculiarità di riuscire ad attirarti nella sua sfera aprendo un sentiero che va da pelle a pelle. Lei esplora lo spazio, io mi perdo nella sua danza, nelle sue “pratiche di abitazione”, le stesse pratiche che ha sperimentato all’interno dello squero San Trovaso (piccolo cantiere in cui riparare le gondole) durante l’ultima Biennale Danza presentando Buan (termine che deriva dal tedesco antico e significa abitare). Tiny, il nuovo progetto iniziato nel 2013 con la videomaker Maria Giovanna Cicciari, nasce dopo [In]Quiete (2014), lavoro più dinamico che si arrende alle influenze esterne e alla caoticità della società moderna. Nella fissità di una poltrona riesco a viaggiare con lei, ma resta un viaggio solitario, intimo, in cui prima di scoprire ciò che si ha attorno occorre ascoltarsi dall’interno. La poetica di Ajmone, che trae ispirazione dal saggio Costruire, abitare, pensare del filosofo tedesco Martin Heidegger, è quindi una ricerca che vuole creare un dialogo profondo tra il corpo e lo spazio circostante.

Tiny, visto a Milano al Teatro Out Off nella programmazione del Danae Festival 2015, è uno spettacolo fermo tra interiorità ed esteriorità, poiché è proprio sul confine, sull’esserci e il non esserci, che il corpo prende forma fino a mutare nuovamente per diventare altro. Ajmone cammina e poggia in proscenio un cardo. Le azioni sono minimali, come la base sonora in cui è possibile riconoscere i versi degli animali che abitano lo spazio. In piedi indaga le parti del suo corpo: muove lentamente le braccia, si tocca la testa e chiude gli occhi, li riapre e gioca con le falangi. Pian piano unisce le mani e le porta al volto per connettersi meglio al suo io, poi lascia scivolare le dita spogliando il viso ormai pronta a vivere in una boscaglia immaginifica. Siamo, dunque, in un bosco immersi tra flora e fauna. E così cammino anch’io lungo un sentiero, vicino a un ruscello e poi mi accovaccio accanto a uno stagno. Lei alimenta la sua metamorfosi e io alimento la mia immaginazione. Ora è un gufo, ora una rana poi diventa una libellula. Con semplici gesti riesce a trasfigurarsi, ad ambientarsi in queste macchie di vita, negli sprazzi di vegetazione. Si intrufola tra i cardi, li sposta per farsi spazio, per creare un contatto, ne sceglie uno e lo allontana dal gruppo. Così disposti sembrano guardarsi, annusarsi, parlarsi.
Ajmone ora ha più confidenza con questo luogo, il suo abitare diventa trascinante, un’esplosione di movimenti su una traccia che unisce le sonorità della natura con l’elettronica di Marcello Gori. Riprese, ripetizioni, partenze e ritorni, gambe e braccia prima ingarbugliate poi libere di andare e di esplorare. Versi, sospiri. La giovane performer usa tutto il corpo trovando le soluzioni nella semplicità dei gesti che riescono a tramutarsi in immagini in movimento. Cosa può fare la mia mano? Cosa possono fare le mie falangi? Che rapporto hanno con lo spazio? Cosa possono diventare? Un gioco rivelatore in cui, attraverso l’ascolto interiore e la percezione dell’esterno, Ajmone può essere tutto, può personificare qualsiasi cosa restando se stessa. La pelle assorbe, la carne si trasforma: nasce l’emozione.

Si ferma, la musica anche. Ci guarda e noi guardiamo lei. Restano i suoi affanni. Le luci in platea si accendono e sul confine del bosco, né troppo all’interno né troppo all’esterno, tra il pubblico e lo spazio scenico, c’è una piantina verde che lei raccoglie per portarla al centro del palco. Una piantina, o meglio, una donna seduta di spalle che appoggia la sua mano sulla terra. Le spine aride dei cardi, quei fiori inariditi, sembrano rinvigorire assieme alla danzatrice che, abitando lo spazio, crea un dialogo tra uomo e natura, tra le profondità interiori e l’istinto animalesco. Difficile non restare inebriati dal flusso inesorabile delle immagini che si ferma a una pianta, a una donna, ora immersa nella sua dimora. Tiny ci riporta allo stare al mondo: scava all’interno dell’uomo, spiega come abitare un luogo, come crescere e conoscersi, come costruirsi. Tiny vuole esplorare, esplorarsi, ritornare all’essenzialità, allacciarsi all’anima delle piccole cose.

di Alessandra Corsini

foto di Paolo Porto

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