altrevelocita-logo-nero
Crest – Teatri Abitati
Capatosta
scritto da Gaetano Colella
regia Enrico Messina
con Gaetano Colella e Andrea Simonetti
composizione sonora Mirko Lodedo
scene Massimo Staich
disegno luci Fausto Bonvini
datore luci Vito Marra
foto di scena Lorenzo Palazzo
in collaborazione con Armamaxa teatro
Crest – Teatri Abitati Capatosta scritto da Gaetano Colella regia Enrico Messina con Gaetano Colella e Andrea Simonetti composizione sonora Mirko Lodedo scene Massimo Staich disegno luci Fausto Bonvini datore luci Vito Marra foto di scena Lorenzo Palazzo in collaborazione con Armamaxa teatro

A testa alta di fronte alla realtà. “Capatosta” di CREST

di Altre Velocità


Una fabbrica, il suo acciaio, le alte temperature, il corpo degli uomini, i loro organi interni. Dal cervello al cuore alla pelle, la realtà è materia difficilissima da trattare in scena. Spesso la si trasforma in affabulazione narrativa per farla funzionare, altrettanto spesso la si rappresenta e sono poche le occasioni in cui emerge veritiera dalle battute degli attori. Capatosta affronta di petto le vicende dell’Ilva di Taranto, ad oggi l’acciaieria più grande d’Italia (e d’Europa) con altoforni di 40 metri di altezza, ormai integrati nel paesaggio della città. A poche centinaia di metri dall’Ilva sta la sede di CREST, nucleo di artisti e operatori teatrali che funziona a sua volta come un’officina dell’arte, producendo spettacoli di diversi autori, attori e registi e dal 2012 fino all’estate 2015 il festival StArt Up.
L’Ilva è uno dei grandi casi della nostra cronaca recente e tra gli elementi dello scandalo vi è la perizia ambientale dell’azienda: dentro e fuori, nell’aria e nell’acqua, si trovano tracce di inquinamento colposo, con ricadute sui corpi dei cittadini di Taranto e degli operai dell’Ilva. Sull’argomento proponiamo la lettura di Lavorare e vivere di Francesco Ciafaloni, articolo comparso su “Lo Straniero” n.148/2012, anno di requisizione della fabbrica ad opera della magistratura.

È proprio dai lavoratori dell’acciaieria che Gaetano Colella, autore del testo e attore nello spettacolo, parte per tracciare un contesto nel quale ambientare uno spaccato di questa situazione, fragile, tesa, naturalmente contraddittoria. Il personaggio ha il nome dell’attore, Gaetano, operaio da vent’anni e padre di famiglia. Il suo ruolo dentro l’azienda non è definito, è più di un semplice operaio ma quali siano esattamente le sue responsabilità non è del tutto chiaro e forse nemmeno importante: la sua presenza conta per la socialità che intrattiene con gli altri operai, uno a cui era bene regalare un vino buono, un altro da consultare per la schedina del calcio; si muove sicuro sulla scena – la sua stanza spoglia ma provvista di macchinetta del caffè a cialde – e tiene alta la voce per contrastare i rumori di fondo. È una voce che fa il giro della sala, rimbalzando sulle lamine del fondale, acuta e annaspante allo stesso tempo, come affrettata da un’ansia. Motore dell’azione è l’incontro con un venticinquenne neo-assunto alla fabbrica. «I due potrebbero essere padre e figlio», dicono le note di regia, ma notiamo piuttosto un’estraneità e nei primi minuti dello spettacolo il gioco è quello di trovare le differenze tra gli attori-personaggi. Gaetano Colella è un uomo di stazza, stabile, comodo nella sua maglietta bianca e con un’andatura veloce che procede a falcate, mentre magro e un po’ ricurvo, con lo sguardo basso e una camminata a passi piccoli ci appare Andrea Simonetti. Diffidano l’uno dell’altro, e la prima reazione di Gaetano nel trovarsi di fronte il “ragazzino” ben vestito e dall’aria diligente è di preoccupazione, convinto di essere nel mezzo di un’ispezione della sicurezza. Il personaggio di Simonetti si svela lentamente, a tratti. Una prima volta quando dichiara di essere un nuovo lavoratore, una seconda quando dichiara di chiamarsi Adalberto e di essere il figlio di un ex-operaio dell’acciaieria. Il rapporto tra i due cresce scalino dopo scalino: l’accoglienza garbata di Gaetano si fa prevaricazione da veterano, e l’aria sommessa del giovane muta in progressiva sfida, assumendo sicumera a ogni botta e risposta tra i due. È così che l’esperienza di vent’anni di fabbrica si fa arma contro la laurea in economia e commercio del ragazzo, e il desiderio di salvare un figlio dal destino dell’acciaieria è la risposta di Gaetano all’assunzione di Adalberto.

Il testo corre tra le vite dei due personaggi, svelando pezzo dopo pezzo caratteri complessi, non tipizzati, e gli attori reggono dentro la voce e i gesti e la postura la densità delle rispettive vicissitudini. Le mani in tasca di Colella accompagnano una testa che ciondola per il dispiacere, una sofferenza intima; i suoi occhi si stringono mentre la voce si alza di fronte al viso teso di Simonetti, altrettanto capace di restituire un’inquietudine che lo attanaglia. I due attori hanno qualità diverse, nel corpo, nella voce e nel rapporto col loro personaggio, ma anche grazie alla regia di Enrico Messina emerge tra i due un forte equilibrio, una vivace sintonia. Gaetano Colella fa affiorare dal suo personaggio sfumature continue, con espressioni rapide del volto o leggere inflessioni della voce; l’abilità di questo attore, che va in scena oltre che con i suoi testi anche con le rivisitazioni drammaturgiche delle Belle Bandiere, tra cui il recente e intensissimo Svenimenti da Checov, sembra sia quella di proporre un contorno da smarginare, fisicamente e fonicamente, utilizzando all’occorrenza effetti di voce stonata o cedimenti del busto, puntualizzando con gli occhi e la bocca la maschera interiore che lo sorprende. In Capatosta Andrea Simonetti aderisce senza filtri al suo personaggio, che vediamo scoperchiarsi in un’emersione lenta e progressiva di ansie e desideri di rivalsa. Gaetano si siede placidamente sulla sua poltrona arancione duramente conquistata negli anni («Ci hanno tolto le sedie, qualche anno fa – racconta il personaggio – Volevano che stessimo tutti in piedi. Questa poltrona è un privilegio») e Adalberto lo accompagna con un lungo massaggio, prima alle tempie, poi alle braccia, poi alle gambe. Mentre l’operaio adulto si rilassa, quello giovane lo circuisce con malizia e dalla sua voce nasce un racconto indicibile, sull’accudimento del padre nella fase terminale di un tumore al fegato. Una chemio, poi un’altra, l’incapacità di trattenere le feci e la spossatezza, il colore della pelle che cambia. Il massaggio sembra allora la tonificazione della pelle per prevenire le piaghe di chi non può più muoversi dal letto e in un attimo la storia raccontata e l’immagine presente si confondono («I due potrebbero essere padre e figlio»). È qui che Simonetti, insieme al suo personaggio, si rivela del tutto, aperto alla scena e un tutt’uno coi gesti e le parole, pronto al suo finale violento.

Capatosta è uno spettacolo che scivola dalle gabbie del documentario e rischia nella rappresentazione, inventando due personaggi plausibili in un gorgo di vite altrettanto realistico: Gaetano si concede un solo momento immaginifico, di fronte alle fornaci del ferro, evocando nomi di colleghi morti sul lavoro. È uno stacco, l’inciso di un discorso, una malinconia che prende il sopravvento tra le ruvidezze del dialogo dei due protagonisti. Colella arrotonda lo sguardo verso l’alto e tende le braccia al vuoto, la voce si ammorbidisce. È un pezzo, questo, che sorvola la retorica del compianto, ma sfugge al rischio della commiserazione per la semplicità delle parole usate, che ci fanno vedere una scia di anime su un Ade che sappiamo esistere.
Il pregiudizio del teatro civile, che ci vorrebbe spettatori romantici che cedono all’importanza dell’argomento rinunciando al teatro, è scavalcato dalla forza attoriale e dallo sviluppo del testo: i due personaggi si muovono tra mille difficoltà, il loro è un percorso a ostacoli dall’intenzione alla possibilità di portare a termine un lavoro ed è anche un confronto serrato tra chi ha visto e chi immagina, tra due esseri diversamente consapevoli di una tragedia comune; solo a tratti la relazione tra i due si fa rigida e il testo cede a un meccanicismo dialogico, accelerando introspezioni e dichiarazioni sullo stato delle cose. Capatostacontempla reazioni umane impreviste, dall’imbarazzo alla recriminazione, dalla malinconia al desiderio di rivalsa, giungendo a una soluzione finale che, sebbene annunciata tra le righe, non manca di sorprenderci e di farci aprire gli occhi sulla realtà che rappresenta e sul teatro che l’attraversa.

di Serena Terranova

foto di Marco Caselli Nirval

L'autore

Condividi questo articolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

articoli recenti

questo articolo è di

Iscriviti alla nostra newsletter

Inviamo una mail al mese con una selezione di contenuti editoriali sul mondo del teatro, curati da Altre Velocità.