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(foto di Andrea Macchia)
(foto di Andrea Macchia)

A salto di danza. La “Grand jetè” di Silvia Gribaudi

di Agnese Doria

Inizia con una domanda non posta, con un interrogativo sottile che attraversa lo sguardo dei performer, con un piccolo gesto accennato che richiede un applauso, l’ultimo lavoro di Silvia Gribaudi, Grand jetè, visto al Teatro Ariosto di Reggio Emilia nel denso cartellone del Festival Aperto.

Inizia chiedendo al pubblico di battere le mani: esordisce dunque con una fine.

Accogliamo l’entrata in scena dei dieci ballerini di MMCompany (compagnia diretta da Michele Merola che ha chiesto a Gribaudi di incontrare l’ensemble) subito notandone le fisicità statuarie, i corpi scolpiti, l’incedere sicuro e ci domandiamo: che forma prenderà questa volta la poetica della coreografa che ci ha abituato a decostruire le retoriche sui corpi, gli stereotipi e i luoghi comuni sulle differenze di genere con la lievità giocosa dell’ironia?

Le composizioni che l’artista torinese ha portato avanti nel tempo e che hanno come oggetto clichè e convezioni rappresentano vere e proprie ribellioni urlate da corpi lontani da modelli prefissati. Ma in questo Grand jetè è chiaro fin da subito che la coreografa (per altro in scena) chiede ai ragazzi e alle ragazze della compagnia (Emiliana Campo, Lorenzo Fiorito, Mario Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Rossana Samele, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa, Leonardo Zannella) e allo stesso tempo al pubblico di, appunto, “gettarsi” oltre, di abbandonarsi a una tessitura che porta a colpi di danze vorticose in un territorio dove inizia a germogliare un nuovo capitolo della sua ricerca.

Un enorme lavoro d’insieme, calibrato, definito e chirurgico sulla coreografia, sui disegni dei gesti e dei corpi nello spazio scenico vuoto talmente candido da far risaltare qualsiasi movimento e al contempo una cura sottile degli interstizi, dei brandelli di spazio tra i performer in scena in un continuo dialogo tra corpo collettivo e individuale, due polarità che mutano, si intrecciano senza mai escludersi, respirano, vivono e convivono. È evidente che la ricerca della performer, da tempo affascinata dalla possibilità di detonare stereotipi e ruoli legati ai corpi, alle età e a canoni e concetti (come la bellezza in Graces), sposta il suo asse in questo suo ultimo lavoro in maniera più decisa sul meccanismo stesso di rappresentazione, andando a incidere con delicatezza funambolica e ironica efferatezza attorno alla relazione tra pubblico e scena. Il pubblico viene catturato dall’energia dei movimenti, dal vigore dei corpi, dalla resistenza delle corse in cerchio, dal coraggio nei salti, dal rigore dei disegni coreografici nello spazio di questi undici performer vestiti di nero che non si risparmiano per tutta la durata dello spettacolo desiderando convocare una complicità con gli spettatori e le spettatrici, accennando a dialoghi espressi unicamente con il linguaggio non verbale di corpi, sussurrando e invitando a contare e a cantare mugugnando dei motivi per loro.

(foto di Andrea Macchia)

Il pubblico ondeggia disorientato in un perenne pas de bourrée non sa se sentirsi chiamato in causa, se osare, se rispondere e assecondare le richieste che dal palco arrivano. Alcuni, i più giovani, gli amanti della danza, i groupies di Gribaudi, stanno al gioco: canticchiano la melodia della morte del cigno per sostenere la scena, per esserne parte. Eppure ci sono dei momenti di silenzio che scivolano nel disagio, ci gettano in una sensazione di incertezza come di fronte a una trasformazione che ci riguarda ma che non ci si sa spiegare. Nelle pieghe della tessitura coreografica si nascondono quasi degli insegnamenti: non serve mostrare la coreografia per riuscire a vederla (quando nominano i passi di danza classica a voce), non ostenteremo mai il grande salto che ti attendi: il salto è una predisposizione alla vita, ci sono giorni in cui ti sentirai il numero 4 sapendo che il conto inizia dal 5, 6, 7, 8 e sarà comunque un inizio… E ancora: cosa siamo disposti a jetè, a gettare via, nella nostra relazione con la scena e dunque con la nostra spettatorialità? Che rapporto di potere possiamo incrinare e risemantizzare di quella relazione?

Sono di rientro in treno e ripenso alla discussione avuta con gli adolescenti di un progetto di scambio culturale incentrato sul teatro, e mi risuonano in particolare le parole di Enrico: “mi è sembrato uno spettacolo per bambini, non in senso dispregiativo: veniva chiesto agli spettatori e alle spettatrici di sentirsi liberi”. Liberi di viversi anche in un disagio, “allenati a essere totalmente inadeguati ma felici e generosi” come ha sostenuto Gribaudi nel corso dell’incontro successivo allo spettacolo. Grand jetè ci ha invitato più volte a saltare, metaforicamente, lasciandoci dietro giudizi e posizionamenti determinati, ci ha chiesto di abbandonarci alla visione, al gioco del teatro decostruendo la rigida formalità di chi fa e di chi assiste, lo ha fatto con l’informalità e il coraggio di cui Gribaudi è capace da un palcoscenico importante, dall’architettura formale e tradizionale come quella del Valli, lo ha fatto per ricordarci ed educarci ad ammorbidire ruoli e posizionamenti, a non dare per scontate funzioni e aspettative fuori e dentro al teatro. Uno spettacolo che va in parallelo con una visione educativa, uno spettacolo politico.

L'autore

  • Agnese Doria

    Classe 78, veneta di nascita e bolognese d’adozione, si laurea in lettere e filosofia al Dams Teatro e per alcuni anni insegna nelle scuole d'infanzia di Bologna e provincia e lavora a Milano nella redazione di Ubulibri diretta da Franco Quadri. Dal 2007 è giornalista iscritta all’ordine dell’Emilia-Romagna. Ha collaborato con La Repubblica Bologna e l’Unità Emilia-Romagna scrivendo di teatro e con radio Città del Capo.

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