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A cosa serve un teatro? Tre conversazioni raccontano l’ultima edizione del festival Nessuno resti fuori

di Nella Califano, Damiano Pellegrino

A Matera abbiamo attraversato le aule di un’università, le strade di un quartiere popolare di nome Lanera, costruito negli anni Cinquanta per accogliere gli abitanti dei Sassi, e abbiamo condiviso gli spazi di un piccolo anfiteatro, un tempo acquitrino, insieme a tantissimi spettatori per assistere ad alcuni spettacoli, e quelli di un parco, che ha ospitato sia alcuni incontri, tra cui la presentazione di una rivista di quartiere realizzata grazie alla cura di Ornella Rosato, sia il primo lavoro di una giovanissima autrice romana, Cade la neve figurati io, in residenza da alcuni giorni a Matera grazie al bando “HUMUS. Artisti nei territori”. Poi, ancora durante l’ultimo pomeriggio di permanenza nella città, ci siamo aggrappati, attoniti, alle inferriate arrugginite di un cinema-teatro, abbandonato e chiuso dal 2017 nel centro di Matera a causa di lavori di ristrutturazione inesorabilmente interrotti. Per tre giorni, a fine giugno, abbiamo rincorso a piedi Nessuno Resti Fuori – Festival di teatro, città e persone, giunto alla sua ottava edizione grazie al lavoro di IAC – Centro Arti Integrate e al coinvolgimento di tanti adolescenti e studenti e studentesse universitari, che abitano a Matera o che tornano in questa città per trascorrere a casa le vacanze estive.
«A chi serve un teatro?» sono le parole che compaiono sulla copertina del primo numero della rivista ideata nel 2023 da IAC. Rivista come uno spazio di parola, di prossimità e di vicinato su carta connesso con il territorio. Tuttavia osservando il lavoro che Nadia Casamassima e Andrea Santantonio portano avanti con rigore a Matera dal 2010 e le decine e decine di ragazzi impegnati nei giorni del festival, e inseguendoli a piedi negli spazi all’aperto della città lungo la programmazione, viene da chiedersi se sia un altro l’interrogativo da porsi. Non a chi serve un teatro ma a cosa serve un teatro oggi? Serve avere, ottenere uno spazio fisico e lavorarci dentro? È necessario o si può fare teatro altrimenti? In nostro soccorso e per porci ancora delle domande in questo senso arrivano proprio le parole di Nadia e Andrea contenute in un vecchio volume della CUE Press, curato da Cecilia Carponi e dedicato a un loro precedente progetto del 2019, ideato per Matera Città Aperta. Loro due dicevano in un’intervista: «per il festival Nessuno resti fuori prediligevamo spazi aperti e comuni ma in zone più periferiche, piuttosto che nel centro della città di Matera, che stava già subendo una serie di trasformazioni e attenzioni. […] Entrare nei quartieri, nelle case, ripercorrendo i luoghi della città per noi veramente importanti». E poi le parole di Andrea Porcheddu, contenute nello stesso volume. «E dunque IAC ha scelto coraggiosamente di focalizzare la sua attenzione e la sua azione proprio in queste aree di confine, aree limitrofe, popolose e popolari, lontane dai riflettori scintillanti della Capitale della Cultura. […] Sembra di poter dire che quel teatro di IAC non possa farsi altrimenti, se non nel confronto con la città, con la gente, con chi arriva da fuori, con le marginalità». A cosa serve un teatro allora? IAC da sette anni trascina di quartiere in quartiere questo festival (e tante altre iniziative curate durante il resto dell’anno), portando allestimenti di gruppi e artisti del territorio nazionale in zone decentrate della città e ottenendo una partecipazione reale. In tante e tanti si stringono attorno agli appuntamenti e vivono i luoghi del festival fino a tardi, ben oltre l’orario degli spettacoli. Luoghi del festival che poi corrispondono a quei luoghi della vita di tutti i giorni: un giardino pubblico, un bar di quartiere o un minimarket. Riuscire a portare il teatro in zone sfornite di tutto e lasciarlo accadere, farlo accadere: ecco uno dei punti cardine della pratica artista di IAC, oltre a tutta un’altra dimensione legata alla sfera formativo-pedagogica a contatto con gli adolescenti che meriterebbe una riflessione a parte. A cosa serve un teatro allora? Serve a qualcosa abitare, pure, un luogo al chiuso della città per fare teatro? Magari il luogo in questione può essere un edificio abbandonato e per cui è possibile ripensare una nuova destinazione d’uso grazie a un dialogo aperto tra artisti e amministrazione pubblica. La nostra è una domanda forzata, ovvia e un po’ superflua. Certo che sì. Certo che è indispensabile a un certo punto per una compagnia abitare uno spazio, avere una casa a tutti gli effetti, una casa più grande in cui proseguire e dare aria a progettualità inedite, più importanti, fino a immaginare ospitalità nuove e accogliere altri artisti. A Matera non c’è un teatro aperto. Il giorno prima di partire e lasciare la città, Nadia e Andrea ci portano a vedere il Cine-Teatro Kennedy, situato accanto al Liceo artistico Carlo Levi. Un’opera costruita tra gli anni Cinquanta e Sessanta oggi in stato di abbandono. Fuori campeggia un cartello: “AL LAVORO PER MATERA Intervento di adeguamento del Cinema Kennedy. Inizio lavori: 25/05/2017. Durata lavori: 300 giorni.” Appesi alla cancellata ci guardiamo. C’è un grande silenzio adesso e poi la stretta vicinanza con quel liceo ci restituisce un’immagine molto nitida e fantasiosa. È pomeriggio e alcuni studenti che hanno appena finito le lezioni a scuola si spostano in teatro. Immaginiamo quasi una profonda permeabilità tra i due edifici, attaccati, quasi a sfiorarsi. Ancora silenzio tra noi. Nadia rompe quel silenzio, adesso assordante. Ci dice che vuole prendere dei panini e mangiarli insieme prima che inizi il prossimo appuntamento dell’ultima serata del festival. Allora va a riprendere la macchina. Restiamo con Andrea Santantonio ancora per un po’ aggrappati a quell’inferriata ormai arrugginita.

Che cosa troverete in questo contributo? Abbiamo scelto di raccontare l’ultima edizione del festival Nessuno resti fuori attraverso tre lunghe conversazioni che abbiamo registrato a Matera durante le pause tra un appuntamento e l’altro. Facendo parlare direttamente gli artisti che abbiamo incontrato e con cui ci siamo fermati a lungo a prendere un caffè e a porre delle domande. Rispettivamente con la compagnia Usine Baug, in programma nei giorni del festival con il loro spettacolo Topi, Rebecca Righetti, una delle vincitrici del bando “HUMUS 2023 | Artisti nei territori”, un progetto triennale di residenze coordinato da IAC Centro Arti Integrate con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Basilicata, e infine con Erika Grillo, che per sei giorni ha portato avanti con un gruppo di adolescenti un laboratorio teatrale per mettere in scena e re-immaginare Il barone rampante di Italo Calvino.

Leggerezza e ironia per vivificare la Storia: Topi di Usine Baug

Topi, Usine Baug (foto di scena)

Come nasce lo spettacolo Topi?

L’idea di Topi nasce nel 2020. Intendevamo partecipare al Premio Scenario, come ogni anno da quando la compagnia si è formata. Stavamo pensando a progetti nuovi, a che cosa avremmo potuto mettere in scena e proprio in quel periodo si avvicinava il decennale del G8 di Genova. Il tema toccava molto tutti e tre in modo diverso e per ragioni diverse, quindi quando Claudia Russo ha proposto di lavorare a questa vicenda ci siamo trovati subito d’accordo. Lo spettacolo si è sviluppato durante il primo lockdown, che ci ha permesso di avere molto tempo per pensare e scrivere. Durante il secondo lockdown si poteva viaggiare per lavoro e noi ne abbiamo approfittato per provare. C’erano molti posti disponibili dato il periodo e questo ci ha aiutato molto. Subito dopo aver capito che intendevamo lavorare sul G8 di Genova abbiamo iniziato a documentarci, a cercare testimonianze, a parlare con la gente. Era abbastanza nota per noi la vicenda, ma non eravamo sicuramente degli esperti, moltissimi dettagli non li conoscevamo e li abbiamo scoperti scrivendo lo spettacolo. Riordinando tutti i materiali raccolti ci chiedevamo quale potesse essere la chiave teatrale di questo spettacolo perché le informazioni da dare erano ovviamente una valanga. La soluzione è arrivata per caso: Stefano Rocco ha scoperto di avere i topi in casa, ha iniziato a dare loro la caccia e dopo un po’ si è sentito come un poliziotto a Genova e i topi gli sono sembrati i manifestanti. La noncuranza per la vita di questi esseri e la caccia in tutti i modi possibili ha creato un legame con lo spettacolo. Stefano ci ha pensato un po’ prima di proporlo, poi ha cercato di buttare giù un canovaccio. Da qui è nata l’idea del personaggio interpretato da Ermanno Pingitore, un uomo che organizza una cena con i colleghi di lavoro e riesce a convincere anche il capo a partecipare, ma proprio quando il suo sogno si avvera e inizia a preparare tutto assicurandosi che ogni cosa sia perfetta, scopre di avere i topi in casa e quindi cerca di liberarsene utilizzando i metodi più svariati. Dall’inizio lo spettacolo è cambiato molto. Nella prima settimana di prove abbiamo lavorato ai primi cinque minuti richiesti da Scenario. L’idea iniziale era quella di ricreare una stanza di una casa borghese in cui si sarebbe sviluppato tutto lo spettacolo. C’erano però diversi problemi: uno di tipo economico e uno legato alla difficoltà di reperire, di trasportare e poi di montare tutto questo materiale. È nata da qui l’idea dei servi di scena che assumono non solo la funzione di narratori ma anche il ruolo di alcune parti della casa: mobili, mensole, telefono. Questi primi cinque minuti costituivano la base dello spettacolo, composto da una parte iniziale, una centrale e una finale, contenenti le questioni principali di cui volevamo parlare. Lo spettacolo dal nucleo si è quindi sviluppato in tutte le direzioni e tutti i discorsi hanno preso sempre più spazio fino a che siamo arrivati a venti minuti, con una struttura molto simile a quella definitiva, e poi a un’ora e un quarto. Siamo arrivati in finale al premio Scenario Periferie 2021 e poi abbiamo vinto, ricevendo un sostegno economico e la possibilità di trascorrere dieci giorni di residenza a Mondaino. Successivamente siamo riusciti a trovare autonomamente altre residenze. Il debutto, previsto a Napoli per gennaio 2022, venne rinviato a marzo a causa del Covid e per noi fu un vantaggio perché la premiazione avvenne a settembre 2021 e restavano pochi mesi per completare il lavoro. Il nostro primo spettacolo, nato da una riflessione sulle frontiere, è stato Calcinacci. È arrivato in finale al Premio Scenario 2018, ma a causa del Covid non è mai riuscito a girare. Poi c’è stato Sweet Haka, finalista al Premio Scenario Infanzia 2020 e Menzione Speciale In-Box Verde 2022. Topi però è stato il primo lavoro che, grazie alla vittoria del Premio Scenario Periferie, è riuscito a girare e quest’anno è arrivato terzo a In box Blu 2023. Questo ci permetterà di portarlo ancora avanti per un altro anno. Con Topi siamo andati in scena anche davanti a ragazzi e ragazze delle scuole superiori e abbiamo capito che è uno spettacolo che riesce a incontrare un pubblico eterogeneo. Ieri sera, qui a Matera, ne abbiamo avuto la conferma. Questo ci piace molto.

Voi tre avete studiato alcuni anni all’estero, tra la Francia e il Belgio, avendo la possibilità di confrontarvi con diverse pratiche. Come nasce la vostra compagnia e quali sono le sue caratteristiche?

Ci eravamo già incontrati a Bologna per caso, tramite amici in comune. Poi ci siamo persi di vista e ci siamo ritrovati a Bruxelles, a una festa della scuola di teatro. Da lì abbiamo iniziato a frequentarci. La nostra compagnia è nata in modo molto spontaneo, non c’è stata una decisione a monte, ma semplicemente ci siamo ritrovati a lavorare insieme. All’inizio ci sono state delle collaborazioni, poi a poco a poco ci siamo accorti che tra di noi funzionava e quindi abbiamo continuato a lavorare insieme. Arriviamo tutti e tre dal metodo pedagogico Lecoq basato sulla creazione collettiva. Questo ci ha permesso di sviluppare un metodo di creazione condiviso e anche un linguaggio condiviso. In questo modo siamo riusciti a trovare una sintonia nella creazione, forse in maniera più semplice rispetto a chi ha studiato in una scuola di teatro più tradizionale, dove si impara a fare l’attore o il regista e poi si assume solo quel ruolo all’interno di una compagnia. A noi invece piace fare tutto tutti insieme.

Che cosa vuol dire Usine Baug, il nome che avete scelto per la vostra compagnia?

È un nome che abbiamo scelto un po’ frettolosamente perché ne avevamo bisogno per presentare i nostri lavori. Usine in francese vuol dire “fabbrica”, mentre baug è un aggettivo che viene da un dialetto occitano (uno di quelli che si parlano dal Piemonte alla Catalogna) e significa “stupido”, “sciocco” ed è divertente perché in dialetto veneto esiste una parola simile, baucco, che vuol dire la stessa cosa. Inoltre abbiamo scoperto che in una lingua persiana baug vuol dire “giardino”. Ci sono piaciute molto tutte queste coincidenze e alla fine il nome è rimasto. Abbiamo utilizzato questo nome che conteneva una parola occitana perché Stefano e Ermanno hanno realizzato un progetto sulle frontiere nel 2018. Sono stati a Claviere, in alta Val di Susa, a ridosso della frontiera franco-italiana del Monginevro. C’era una grande ondata di immigrati che volevano passare dall’Italia alla Francia, senza ovviamente avere la possibilità di farlo realmente. Prima la rotta migratoria era Ventimiglia, poi, a causa della militarizzazione dei confini, si è spostata più a nord, sulle montagne e con l’arrivo dell’inverno era molto pericoloso attraversare il confine, sia per il freddo e per la neve, sia perché la gente, scappando dalla polizia, rischiava di cadere nei burroni. Si è creato allora un movimento di sostegno ai clandestini formato dai cittadini di Briançon, che è la città dall’altra parte del confine. Andavano in macchina fino alla frontiera, caricavano i migranti e li portavano in città per evitare che rischiassero la vita percorrendo quei 20 km nella neve. A causa delle pressioni politiche rischiavano fino a 10 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In particolare era stato processato un uomo che aveva portato una donna africana incinta all’ospedale. Stava diventando una situazione troppo difficile da gestire. A un certo punto a Claviere è arrivato un grosso gruppo di attivisti italiani, una sessantina di persone che hanno deciso di occupare uno spazio abbandonato situato sotto la chiesa della città. È nato un rifugio autogestito per dare ospitalità a chi era di passaggio, oltre a degli aiuti materiali e indicazioni sui sentieri da seguire. Ermanno e Stefano sono andati lì e il primo spettacolo ha preso vita proprio grazie a questa esperienza.

Il Collettivo Hombre ha realizzato di recente uno spettacolo, Casa Nostra, che indaga la storia recente dell’Italia prendendo come riferimento gli anni della trattativa stato-mafia. Loro, giovani come voi, hanno provato a mettersi in dialogo con un pezzo di storia che non hanno vissuto direttamente, ma nel quale hanno ritrovato il seme di qualcosa di più profondo e hanno iniziato a indagare, informarsi, approfondire. C’è forse un desiderio, da parte della nostra generazione, di scavare dentro certi eventi per scomporli e restituirli a modo nostro?

In effetti la fine degli anni ‘90 e l’inizio degli anni 2000 sono proprio un’epoca di passaggio, sia per l’Italia, come si racconta in Casa Nostra, sia per il mondo in generale, come dimostra il G8 di Genova, un evento dal respiro internazionale. Sono anche gli anni in cui ricomincia un movimento politico che dopo gli anni Settanta si era quasi spento, ma che stava rinascendo, ed era molto forte. È stato un momento storico in cui si è giocato il destino del mondo, in cui si stava decidendo se andare o meno verso quella globalizzazione che stiamo vivendo adesso. Nella politica italiana invece c’è il passaggio dalla democrazia cristiana all’ngresso di Berlusconi con tutto quello che ne consegue. Sono dei momenti chiave nella storia italiana, che noi non abbiamo vissuto direttamente, ma che hanno influenzato tantissimo la nostra vita. Confrontarsi con questi avvenimenti forse significa per noi interrogarsi su come siamo arrivati a questo punto, da dove viene questo mondo in cui ci troviamo a vivere. È un modo per fare i conti con quello che siamo adesso. Inoltre è anche un’opportunità per fare politica a modo nostro. A volte ci diciamo che a noi non interesserebbe mettere in scena un grande classico e non perché non ne riconosciamo il valore, ma perché abbiamo bisogno che il teatro oggi sia un’altra cosa, che sia in grado di contrastare l’appiattimento culturale, come quello della proposta televisiva. Se non tiriamo fuori certe tematiche a teatro, in quale altro spazio di espressione potremmo farlo in una modalità che non sia solo documentaristica ma creativa? A noi interessa rendere vive certe tematiche e accendere un dibattito anche dopo lo spettacolo, come spesso ci accade, perché dopo un primo scambio di battute sugli aspetti più tecnici del lavoro, si inizia a parlare con gli spettatori. Tante persone di una certa età dopo Topi ci hanno detto di aver rivissuto quei momenti o altre, più giovani, ci hanno confessato di non saperne nulla o non abbastanza e che quindi per loro è stata una scoperta.

A proposito di giovani spettatori, quando avete presentato Topi ai ragazzi e alle ragazze delle scuole superiori che tipo di reazioni avete avuto?

Sia per il tema trattato che per i linguaggi utilizzati. Lo spettacolo è piaciuto molto, anche a livello stilistico: per la scelta delle musiche e per l’impianto cinematografico, per esempio, che per loro è accattivante. Per quanto riguarda le tematiche, loro sono all’oscuro di tante cose, spesso ci siamo trovati di fronte a un pubblico che non aveva idea di quello che stavamo raccontando. Sono curiosi però e noi sappiamo che hanno bisogno di conoscere queste storie. Ritornando all’utilizzo dei linguaggi noi non abbiamo mai veramente riflettuto su come parlare ai nostri destinatari, cerchiamo innanzitutto di realizzare qualcosa che piaccia a noi. L’unica regola che ci diamo è quella di mettere in scena uno spettacolo comprensibile, che sia in grado di toccare il più possibile le persone e che quindi non sia troppo “di nicchia”. C’è poi anche un modo di procedere che viene dai nostri anni di studio all’estero, in cui ogni settimana bisognava presentare piccoli lavori della durata massima di cinque minuti: abbiamo sempre ritmi molto serrati, le scene sono brevi, i cambi tra una scena e l’altra molto netti, quasi cinematografici. In Topi le scene più lunghe durano sei minuti, le altre non più di due o tre minuti. Per questo per noi è stato difficile passare da cinque minuti di spettacolo a un’ora e un quarto. Un’altra nostra caratteristica è quella di avere sempre una nota un po’ pop e ironica, le musiche che utilizziamo devono essere riconoscibili e deve esserci una leggerezza di fondo che ci permette di trattare anche tematiche molto impegnative. Stiamo facendo lo stesso nel nostro nuovo lavoro, Ilva football club, uno spettacolo che parla di Taranto, tratto da un libro al quale ci siamo molto liberamente ispirati, anzi si può dire che del libro è rimasto solo il titolo.

Avete parlato di un nuovo lavoro. Quali sono i vostri progetti per il futuro?

All’inizio eravamo terrorizzati all’idea di una nuova produzione. Ci dicevamo che non saremmo stati in grado di realizzare un altro spettacolo. Invece degli amici, dopo aver visto Topi, ci hanno coinvolto in un nuovo progetto ed è nato Ilva football club. Abbiamo vinto un bando di residenza che ci ha dato la possibilità di avere degli spazi in cui provare e creare e altre due residenze a Taranto e a Brescia. L’anteprima a Milano, a Campo Teatrale, è andata bene, ora abbiamo altre due settimane lì e poi saremo al Tindari Festival.

Che cosa ne pensate dei bandi per le compagnie emergenti? E più in generale come vi sembrano le prospettive lavorative per i giovani artisti come voi?

È una domanda difficile. Noi abbiamo avuto in qualche modo la “fortuna” del Covid, che ci ha permesso di avere il tempo di lasciare andare le idee, di far fluire la creatività. Noi abbiamo fatto l’esperienza della Francia e del Belgio, dove esistono statuti per artisti, cioè una sorta di stipendio che consente all’artista di avere dei momenti da dedicare completamente alla creazione. In Italia passiamo gran parte del tempo a informarci su nuovi bandi. A volte ce ne sono di interessanti, ma stanno diventando tutti under 35 e ne restano pochi capaci di offrire un sostegno consistente, anche se, purtroppo, spesso perfino con quelli che offrono retribuzioni più sostanziose si riesce a coprire a malapena solo una parte delle spese. In queste condizioni diventa difficilissimo per una compagnia sostenersi.

Per i giovani ci sono poche iniziative e comunque non sempre pensate bene ed è un pensiero che
condividiamo con altre compagnie nelle nostre stesse condizioni. Noi siamo anche di quelle realtà “invidiate” che hanno raggiunto piccoli traguardi come vincere un premio, ma poi?

Forse però almeno informalmente si sta creando una rete tra giovani compagnie. Noi per esempio abbiamo conosciuto tanti artisti in occasioni di festival e premi, anche al festival Il Casale che organizziamo nell’Appennino bolognese. Con alcuni di loro si sono create delle affinità. Sono gruppi nelle nostre stesse situazioni, non abbiamo nulla ma insieme creiamo momenti di condivisione importanti, è una sorta di piccolo mondo. Forse questo accade proprio perché veniamo da una realtà in cui siamo abituati a fare tutto da soli e con niente. A volte ci chiediamo se non sia compito delle scuole di teatro anche quello di preparare al mondo del lavoro e non soltanto di insegnare delle discipline, perché poi usciti da lì, dopo aver accumulato tante competenze, diventa difficile barcamenarsi e magari si resta nell’attesa passiva del prossimo provino.

Primo pomeriggio. Incontrare Rebecca Righetti in un bar

Cade la neve, figurati io figura come uno dei lavori che è stato accolto all’interno del bando “HUMUS 2023 | Artisti nei territori”, un progetto di residenze artistiche proposto da IAC. Come sei arrivata a conoscenza di questa opportunità?

Mi è arrivata notizia tramite Donato Paternoster, un interprete che ruota attorno a IAC. E “HUMUS”, bando di sostegno per progetti non ancora compiuti, progetti ancora in fase di studio, quest’anno riuniva tre aree tematiche, attorno alle quali presentare una proposta artistica. Politica, adolescenza e ambiente. Io avevo già un primo frammento iniziale dello spettacolo, un lavoro che trattava del crescere e prendeva di petto un’età precisa, dai venti ai venticinque anni: una fase di mezzo in cui non sei già adulto ma non sei più un ragazzino. Dopo la scoperta, me ne sono subito dimenticata nonostante io trascorra le mie giornate a controllare i bandi disponibili in rete. Controllare quanti più bandi possibili sapendo che poi per lo più sono dei rifiuti perché siamo in tanti a candidarci. Per “HUMUS” erano previsti un periodo di residenza negli spazi di IAC e alla fine una restituzione del lavoro. All’interno era compreso anche un contributo economico per lo spettacolo che è un elemento prezioso. Infatti – credo – che portare avanti un progetto artistico oggi sia anche una questione di privilegio. Ad esempio nel mio caso, ci sono state una serie di spese che ho dovuto affrontare da sola e che ho potuto sostenere perché non ho un affitto da pagare. I soldi che ho guadagnato con dei lavori li ho destinati alla creazione. Da bando sono previsti quindici giorni di residenza e un contributo economico di 2.000 euro per il progetto. Per la sezione “Adolescenti” terreno generativo hanno accolto parimenti la mia e un’altra proposta, con cui condivido il sostegno alla residenza artistica.

Cade la neve, figurati io, Rebecca Righetti (foto di scena)

Hai già individuato altre occasioni future in cui poter proseguire il lavoro di ricerca e di crescita finalizzato a questo spettacolo?

Dopo “HUMUS”, un altro appuntamento decisivo per me è a Roma con il bando “Pillole” di Fortezza Est, un’occasione in cui mostrerò soltanto dodici minuti del lavoro. E in quel contesto saremo quasi una trentina di compagnie in gara. E poi a settembre parteciperò a Strabismi Festival, che si terrà ad Assisi. Da qui in avanti vorrei rivedere il testo e chiuderlo. Esso interagisce con tante tematiche ed è formato da tanti strati ma il desiderio è quello di focalizzarmi su alcuni punti. L’idea è di definire il testo una volta per tutte e poi proporre lo spettacolo a quante più realtà possibili. E poi in fondo a me piacerebbe uscire di scena e seguire il lavoro dall’esterno, come sguardo esterno. Non sono di base un’attrice e vorrei coinvolgere un’interprete. E in questo caso, secondo me, il lavoro può crescere tanto. Oggi sono orientata ad approfondire un lavoro di drammaturgia ma fino a un anno fa non avrei mai pensato di poter scrivere uno spettacolo. Quest’anno a Carrozzerie NOT ho partecipato a un laboratorio annuale con Bartolini/Baronio incentrato proprio sulla scrittura. E nel frattempo ho anche seguito dei workshop di recitazione e proprio durante un’improvvisazione è nata la prima traccia testuale di Cade la neve, figurati io.

Nella parte finale della restituzione di lavoro, a cui abbiamo assistito ieri, chiami in causa un incidente e il racconto assume altre tinte e una forma inedita fino a quel momento. Il finale si avvicina a una fotografia o a un fermo immagine che tenta di inquadrare, fermare una generazione. Che tipo di oggetto è questa scrittura? E come può parlare a una collettività intera?

Nei primi tempi hanno seguito il lavoro delle prime stesure Maura Teofili e Francesco Montagna di Carrozzerie n.o.t. È grazie a loro se il progetto è andato avanti. E uno dei problemi che mi sottoponevano loro è che nel testo mi concentravo su delle cose personali. Secondo loro la scrittura aveva bisogno di un’apertura. Allora mi sono mossa facendo facendo delle interviste a miei coetanei. Ancora in quel momento non sapevo bene quale direzione assumere. Avevo una serie di temi che mi interessavano e che volevo approfondire ponendo delle domande. In una prima fase di ricerca mi trascinavo tutta una serie di interrogativi da porre all’esterno riconducibili, ad esempio, a un discorso di salute mentale, laddove c’è stata una grande emersione di questi tra i più giovani. E a quel punto lì sono andata a tessere un collage di esperienze, individuando dei punti in comune che si ripresentavano nelle interviste. Tra le persone che ho incontrato, tutte comprese in una fascia d’età tra i 15 e i 30 anni, ritornavano tanti discorsi legati a un malessere o tracollo mentale e a delle forme o possibilità di reazione. Una delle questioni che mi sta a cuore coincide con l’estrema consapevolezza che ha la nostra generazione verso queste tematiche, se pensiamo che oggi in tantissimi affrontano percorsi di psicoterapia. In un’intervista che ho raccolto, una voce diceva che lo psicologo oggi è diventato una sorta terzo genitore. E poi per la genesi di questo lavoro ho approfondito anche l’universo legato ai meme e all’uso che ne facciamo noi giovani. La mia generazione ha affiancato al linguaggio verbale un altro linguaggio, fatto di emoticon, gif, adesivi e immagini. Meme con i quali si esorcizzano forme di depressione, stress o malessere e non si dà spazio a un discorso serio e strutturato, rimanendo così in superficie.

Nello spettacolo ti presenti come una ragazza di 24 anni ma ti metti in contrapposizione con il mondo degli adulti. E poi in alcuni momenti sembra emerge la voce di una ragazzina ancora più piccola e di età inferiore. Pare che la colpa sia degli adulti, che frenano una sorta di crescita. E poi nello spettacolo ti rivolgi a un pubblico giovane.

Nel racconto emerge una figura che non sta mai nel qui e ora: ha nostalgia del passato e al contempo vive una preoccupazione per il futuro. Ho iniziato per la prima volta ad affrontare dei temi legati alla mia età e alla mia generazione durante un workshop con Lino Musella. Avevo delle cose che volevo affrontare ed ero certa del fatto che le volevo fare emergere sulla scena con un linguaggio che usa spiccatamente la mia generazione. Tuttavia voglio che il lavoro arrivi anche agli adulti, pronti a immergersi e avere a che fare con il nostro di linguaggio. Ieri sera dopo la restituzione aperta al pubblico si è avvicinata una ragazza che aveva portato anche sua madre a vedere lo spettacolo. E mi raccontava che sua madre ogni tanto si girava e diceva: ma questa sono io? E anche questa sono io? Dentro il lavoro è conservato anche un piccolo vocabolario o prontuario per un giovane adulto.

“I Rampanti”: due forze in opposizione che brillano/equilibrio tra due forze in opposizione. Una conversazione con Erika Grillo

La festa finale del festival Nessuno resti fuori, all’insegna della musica dal vivo di alcuni artisti locali, è iniziata subito dopo I Rampanti, esito di un laboratorio curato da Erika Grillo, attrice e formatrice della compagnia Teatro delle Forche di Massafra e impegnata su tutto il territorio nazionale con progetti di varia natura in cui il teatro viene utilizzato come strumento di inclusione e incontro. Lo spettacolo, liberamente ispirato a Il barone rampante di Italo Calvino, ha coinvolto 22 partecipanti, alcuni dei quali con disabilità o provenienti dalla cooperativa sociale Il Sicomoro, attiva in Basilicata con progetti a favore di anziani, minori, migranti e disabili. Abbiamo incontrato Erika Grillo subito dopo lo spettacolo perché ci raccontasse il percorso realizzato con i partecipanti del laboratorio, che si è tenuto dal 22 al 28 giugno negli spazi dell’Università degli studi della Basilicata.

Come hai conosciuto lo IAC di Matera?

Ci siamo conosciuti nel 2015 con un progetto che loro curavano in Basilicata, Teatri Diffusi. In quell’occasione avevano invitato Gigi Gherzi a tenere un laboratorio. Io avevo già sentito parlare di lui e volevo incontrarlo, quindi mi candidai al laboratorio come attrice del Teatro Koreja per lavorare con loro. L’anno dopo ho invitato Gigi Gherzi a partecipare alla prima edizione del festival Clessidra in Puglia, dove è ritornato per tre anni consecutivi. In seguito a quell’incontro Nadia e Andrea mi hanno inviata a partecipare a una loro produzione, Border, uno spettacolo sulla fuga. All’epoca c’era già Alì Sohna, che veniva dalla comunità di migranti Il Sicomoro e Vincenzo che arrivava da una comunità di minori con disagio. Si lavorava in una dinamica in cui il teatro era strumento di inclusione. Il claims dello IAC in quell’anno era “IAC teatro per tutti”. Per IAC ho anche curato per due anni i laboratori di formazione residenziali annuali qui a Matera, per tutto l’inverno. Il primo anno lo tenevamo tutti e tre insieme: io curavo i moduli legati alla voce e alla parola, Nadia si occupava del corpo e Andrea di regia e drammaturgia. L’anno successivo mi affidarono una delle loro classi interamente. Si potrebbe quindi dire che ci siamo conosciuti sul campo, lavorando insieme. Per il festival Nessuno Resti Fuori, al quale partecipo dalla prima edizione, non avevo mai curato un laboratorio, anche perché mi occupavo già dei laboratori invernali e in quel periodo, prima del Covid, erano sempre più o meno gli stessi ragazzi a partecipare. Invece sono sempre stata al festival con delle performanc, l’anno scorso, per esempio, portammo Pollicino, uno spettacolo per ragazzi. Con IAC ci siamo sempre tenuti per mano nelle poetiche. Siamo nati più o meno insieme: il festival Clessidra nel 2014 e Nessuno Resti fuori nel 2016. Siamo stati un po’ gemelli anche nelle pratiche, nell’intenzione di essere itineranti: loro portano il festival nei quartieri, noi negli spazi abbandonati.

Secondo te la Puglia e la Basilicata sono due territori che si assomigliano?

No, non credo. Per quanto riguarda le pratiche e i processi istituzionali e le politiche di gestione degli spazi legati allo spettacolo dal vivo credo che la Puglia sia molto più avanti. Purtroppo la Basilicata non è avvantaggiata da un punto di vista di politiche locali o comunque non c’è una grande attenzione in questo senso, com’è avvenuto invece in Puglia, che ancora oggi vive del lascito degli anni di Vendola. Quel fermento non si è spento. D’altra parte, però, la situazione della Basilicata in cui tutti i processi sono ancora da costruire e quindi non ci si trova già dentro delle dinamiche viziate, potrebbe essere un’opportunità. Per certi versi ho vissuto qualcosa di simile nella città di Taranto, quando sono ritornata da Lecce, che invece si trovava dentro un processo virtuoso di politiche culturali. Taranto si presentava come un territorio fertile, anche se più complesso perché bisognava battere un sentiero. In questa situazione però decidi tu come farlo, la direzione e la modalità, se farti strada tra i rovi o anche se non farti strada tra i rovi e scegliere invece un’altra prospettiva. Tornando alla Basilicata c’è sicuramente tanta strada da fare, ma loro, che guardano anche al panorama nazionale, potrebbero essere dei pionieri nella loro terra per avviare un processo di sviluppo culturale che si ispiri anche ad altre regioni. È un onere, ma anche un’onore, un’opportunità da cogliere. E penso che loro abbiano tutte le carte in regola per poterlo fare.

Una foto di scena tratta dall’esito finale del laboratorio I Rampanti

Come nasce il laboratorio I Rampanti e quali sono state le difficoltà che hai incontrato?

Quando Nadia mi ha telefonato per dirmi che c’era la possibilità di condurre un laboratorio dedicato a ragazzi e ragazze dai 13 ai 22 anni sono stata molto felice di accogliere questa proposta, un po’ per la gioia di ritornare al festival, un po’ perché gli adolescenti sono la mia fascia d’età di riferimento. Da molti anni mi piace occuparmene e lo faccio anche con altre realtà in tutta Italia, per esempio con Parole Ostili, un’associazione della quale sono ambasciatrice e che si occupa di contrastare l’ostilità in rete. Con loro vado tantissimo nelle scuole utilizzando il teatro come strumento per combattere dinamiche di violenza come il cyberbullismo. Lavorare con loro è stata una grandissima sfida. Il primo giorno erano in 15, un numero giusto se si lavora senza un assistente, poi però sono arrivati altri 7 ragazzi della comunità Il Sicomoro accompagnati da un educatore e i partecipanti sono diventati 22. È stata una sorpresa, non ci avevano avvisato, ma ho deciso di provare, dicendomi che qualcosa sarebbe successo. Il processo è sempre generativo e infatti è stata un’esperienza incredibile, ma faticosa. Di certo se fossero stati di meno, avrei potuto curare di più il lavoro al microfono con alcuni dei ragazzi che erano interessati alla recitazione, per esempio. Dall’altra però ne abbiamo guadagnato dal punto di vista delle dinamiche relazionali. a questione dell’inclusione è visibilissima. La scena in cui Mido, un ragazzo egiziano, prende in braccio Roberto, un ragazzo con disabilità, e lo riporta alla sedia è nata perché mentre il primo giorno tutti i ragazzi della comunità avevano dei pessimi modi di stare accanto ai ragazzi con disabilità, riducendoli quasi alle lacrime, un po’ alla volta attraverso gli esercizi del gioco del teatro, hanno messo da parte l’atteggiamento aggressivo e oppositivo iniziale. Hanno iniziato a fare lo specchio, a camminare nello spazio e ad abbracciare il compagno altrimenti avrebbero perso al gioco e così i loro corpi si sono sciolti. Mido e Roberto si abbracciano in scena perché hanno imparato a farlo durante il laboratorio. Inoltre mettono in scena un’altra grande difficoltà iniziale nata tra loro: la comprensione della lingua. Hanno creato una sorta di gramelot in cui Roberto scimmiotta l’arabo parlato da Milo.

Com’è avvenuta la scelta del testo al quale ti sei ispirata?

Per prepararmi al laboratorio ho chiesto a Nadia e Andrea se si fosse mai innescata qui a Matera una dinamica politica di lotta e di resistenza e loro mi hanno raccontato che in seguito alla decisione di abbattere gli alberi in un parco del quartiere Lanera, un comitato cittadino ha promosso una grossa petizione con la quale è riuscito a impedire questa azione. Gli alberi, i ragazzi e l’associazione con Il barone rampante è stata immediata. Poi in realtà resta sempre un pretesto, una cornice drammaturgica nella quale muoversi, ma alla fine tutto è nato dal lavoro dei ragazzi su chi fosse Cosimo, sul perché avesse scelto di scappare e di rifugiarsi sugli alberi decidendo di guardare il mondo da questa prospettiva. Ci siamo interrogati sulle urgenze di Cosimo e sul concetto stesso della fuga. Poi i ragazzi hanno ricamato dei piccoli testi che sono diventati il loro manifesto all’interno dello spettacolo. C’è stato da una parte il desiderio di portare in scena la storia con la sua letterarietà (e infatti in alcuni momenti i ragazzi e le ragazze hanno recitato fedelmente il testo di Italo Calvino) e dall’altra di realizzare alcuni piccoli affondi basati sulle loro testimonianze o scarti di senso su questioni che avvicinavano l’esperienza di Cosimo alla loro personalissima fuga, al loro desiderio di scappare sugli alberi. Per una mia deriva personale abbiamo anche lavorato su dei piccoli frammenti di poesie disseminandoli all’interno del lavoro. Alcuni poeti erano dichiarati. Hanno letto, per esempio, al microfono direttamente dal libro una poesia di Cesare Pavese. Ho detto loro di non preoccuparsi se non riuscivano a impararla a memoria perché è bello vedere un libro nelle loro mani. C’erano anche versi di Shakespeare e qualcosa della Dickinson. Sono cuciture poetiche tra un passaggio e l’altro.

Dal tuo punto di vista, cioè quello di chi lavora con i giovani utilizzando lo strumento del teatro, che cosa nascondono quelle due forze in opposizione: quella di chi prende in giro un compagno in difficoltà e quella di chi, invece, si appassiona a una poesia e prova a leggera meglio che può? Che cosa vogliono raccontarci?

Sono pulsioni. E le pulsioni l’adolescenza le ha incredibilmente scoperte, sia nell’Eros che nel Thanatos potremmo dire. Sono contemporaneamente bianchi e neri, solo che a un certo punto in qualcuno prevale totalmente il bianco, in altri totalmente il nero. Sono costantemente alla ricerca di un equilibrio dentro di loro, tra le emozioni che li abitano. È una ricerca che si portano avanti nel crescere, è il processo stesso della crescita che aiuta a mantenere quell’equilibrio. Si muovono come funamboli impazziti su una corda tesa tra l’essere completamente oppositivi a l’essere fragilissimi, tra il crollare, l’irrompere, il devastare oppure al contrario il non uscire di casa per sei mesi. È incredibile perché in realtà tutti questi impulsi si portano dietro la stessa urgenza, la stessa forza. Cambia il colore o la direzione verso la quale questa forza li sospinge e li spinge. Brillano ugualmente in scena, sia i corpi di chi è abituato a relazionarsi con gli altri in maniera dirompente, sia i corpi che si nascondono, che diventano luoghi dai quali si ha voglia di fuggire. Non so perché accada, è la magia del teatro.

In alcuni punti questo equilibrio tra gli opposti è molto evidente ed è incredibile che questo sia avvenuto in così poco tempo. Non è scontato. Quanti giorni avete lavorato insieme?

Cinque giorni. Abbiamo lavorato molto su quello che speravo passasse sulla scena: il rispetto del corpo del compagno. Ci siamo concentrati tantissimo sull’importanza di sospendere il giudizio, verso se stessi e verso gli altri. Una regola di cui ho parlato subito il primo giorno presentandola come “regola madre del teatro” che era assolutamente vietato infrangere. Il corpo è l’unico strumento di lavoro dell’attore e per questo è sacro, va rispettato. Molte delle cose accadute durante il laboratorio, scaturite proprio dall’utilizzo del corpo libero dai giudizi, le abbiamo inserite nello spettacolo, come una risata fragorosa o una danza egiziana.

Come ci raccontavi molti dei partecipanti al laboratorio non parlavano o non comprendevano l’italiano, ma si sono messi in gioco. Secondo te sono riusciti a cogliere il senso di questo lavoro?

La storia di Cosimo che decide di scappare sugli alberi era chiara a tutti. Durante il laboratorio, per aggirare il problema linguistico, ho deciso di dividerli in gruppi di 5/6 persone perché lavorassero a delle improvvisazioni e all’interno di ogni gruppo c’era qualcuno che, servendosi per esempio di google traduttore, si faceva interprete e cercava di farsi capire dagli altri spiegando tutti i passaggi del lavoro. Abbiamo avuto anche una risorsa importante, Marco, che vive in Italia già da un anno e mezzo ed è riuscito a fare da ponte per l’arabo. Per quanto riguarda il testo di Calvino ne abbiamo inserito pochi frammenti affidandoli ai ragazzi di madrelingua italiana perché potessero portarli in scena in maniera più limpida. Credo però che per chi non comprendeva la lingua, anche solo ascoltare un testo poetico è stato importante, perché è una pratica che non accade nella quotidianità.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Questa estate ci sarà un’edizione speciale di Clessidra in Sardegna grazie a un bando che abbiamo vinto insieme ad una cordata di imprese culturali e creative di tutta Italia. A settembre invece avremo il piacere di ospitare i ragazzi di Opera del Rosso in residenza per 15 giorni a Massafra. Ci dedicheremo al teatro dei luoghi all’interno della Riserva Naturale Biogenetica di Chiatona, dove con Clessidra lavoriamo già da molti anni. Oltre alle tante date estive stiamo anche lavorando a una nuova produzione per la regia di Carlo Formigoni, La piccola città.

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