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1+1, la matematica dell'accoglienza

di Altre Velocità

Due uomini apparentemente diversi, due vecchie valigie colme di usi oltre che costumi, una destinazione condivisa: una terra migliore di quella che hanno lasciato.
Questa è la scintilla che apre la narrazione di 1+1 in scena all’ Oratorio San Filippo Neri lo scorso 20 febbraio: uno di quei pochi spettacoli fortunati che hanno goduto di un pubblico prima dell’isolamento dovuto alla pandemia da Covid-19. Una co-produzione tra “La Società della civetta”, compagnia di Bologna, e “Nano & Aroosak”, compagnia di spessore nel panorama iraniano, con l’appoggio del Dramatic Art Center di Teheran e l’istituto Ordibehesht di Isfahan. Una produzione italo-iraniana con gli attori in scena Guglielmo Papa e Omid Niaz, al centro dei percorsi l’interesse per l’universo dell’infanzia e con esperienze artistiche e teatrali che esaltano il gesto più che la parola. Infatti, le uniche parole che udiamo nello spettacolo sono “Sì” e “No”, avvicinando bambini e ragazzi al mondo immaginario che si mette in scena senza particolari retoriche. Il corpo, allora, si esalta come linguaggio universale adattandosi bene a tutti i contesti internazionali in cui entrambe le compagnie si sono districati: dalla Svizzera agli Stati Uniti, dalla Finlandia alla Turchia, Da Israele alla Germania.
È la musica, eseguita dal vivo da Tiziano Popoli con un pianoforte in fondo al palcoscenico, ad accompagnare il filo narrativo che si districa in buffi conflitti tra i protagonisti: all’arrivo nello spazio, uno dalla sinistra del palco e l’altro dal corridoio centrale delle sedute, i due litigano come bambini per accaparrarsi la superficie di alcune assi di legno accatastate, come a formare un nido, decidendo, infine, di dividersi le assi per delimitare i confini delle proprie zone di appartenenza. La storia prosegue con ironia e piccole scenette, inframezzate da luci blu e gialle che identificano notte e giorno, in cui i protagonisti si rendono conto che, nonostante l’odio reciproco, spesso l’uno ha bisogno dell’altro: per esempio l’uno ha l’acqua per lavarsi e il secondo ha il fornellino a gas per preparare il caffè nella moka del primo.
Le grandi valigie che si portano dietro sono i primi dettagli che saltano all’occhio o all’orecchio, infatti quella di Omid la sentiamo sbattere prima ancora di vederla. Queste contengono, oltre che alcuni vestiti, come un pigiama o un accappatoio, diversi oggetti caratteristici: una moka, una lampada, una pianta finta, un aspirapolvere, una coperta, un ombrello e una padella. Oggetti utili a sottolineare i bisogni dell’uno e dell’altro, come spolverare o mangiare ad esempio, e la sofferenza inevitabile dei singoli nell’assenza di condivisione di risorse: all’arrivo di temperature basse uno può coprirsi mentre l’altro soffre il freddo, mentre all’arrivo della pioggia il primo si bagna e il secondo s’illumina di superba gioia sotto il proprio ombrello. La morale è semplice: se avessero condiviso queste risorse sarebbero entrambi asciutti e al caldo o genericamente in una situazione meno spiacevole.
L’organizzazione ripetitiva delle brevi scene avrebbe come obiettivo quello di rafforzare il rapporto conflittuale tra i protagonisti e di conseguenza il tema della lotta materiale per le risorse, ma finisce per risultare piuttosto monotona. I movimenti che dovrebbero metterlo in evidenza, infatti, finiscono per cadere nella semplice reiterazione di azioni differenti che sottendono lo stesso significato. Una volta capito che l’uno ha bisogno dell’altro, ci si aspetta che si vada oltre, che il climax cresca in qualche modo, ma ciò non avviene e inevitabilmente alimenta qualche sbadiglio in platea.
Peccato, perché l’idea alla base poteva essere avvincente. D’altronde, il fatto che non sappiamo i loro nomi e non udiamo un vero e proprio linguaggio, ma solo segni universali, donano pieno potere espressivo alla pantomima alla base dello spettacolo, estendendo il concetto di solidarietà e fratellanza in modo universale. Buone premesse, insomma, per una realizzazione non convincente che può dare decisamente di più.

Roberto Romano

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