Lungo la strada statale 63, vicino al fiume Po, sorge Gualtieri, uno dei paesi che costellano la Bassa, il lembo di terra tra l’Emilia e la Lombardia. D’estate, qui, il sole arroventa il cemento e il frinire delle cicale scandisce i pensieri. Poi però, per tre giorni di luglio, un gruppo di giovani artisti, spettatori e critici irrompe nel borgo, portando con sé un’aria nuova.
Il festival Direction Under 30, tenutosi a Gualtieri dal 18 al 20 luglio 2025, si impernia su due concetti chiave: mutuo soccorso teatrale e orizzontalità dei processi. A partire dalla selezione dei sei spettacoli finalisti — curata dalla direzione artistica partecipata, accompagnata da un percorso di educazione allo sguardo — fino alla premiazione dei due spettacoli vincitori, da parte delle giurie, collettiva e critica, il festival si propone come uno spazio di discussione non gerarchico. Quest’anno, per la prima volta, si è aggiunta una terza giuria internazionale, composta da studenti arrivati tramite il progetto Erasmus Y-Arts. L’obiettivo delle giurie è quello di preservare con cura il lavoro degli artisti, creando un ambiente in cui il confronto sia autentico e paritario. Una filosofia che è consustanziale alla storia del collettivo di giovani che, “in direzione ostinata e contraria”, nel 2009 ha riaperto e ristrutturato il Teatro Sociale di Gualtieri, abbandonato da decenni.

Quello che oggi vediamo è un teatro ribaltato, in cui palco e platea si scambiano di posto, come a suggerire un necessario cambio di prospettiva. I palchetti, un tempo frequentati da nobili signori, sono stati mantenuti e trasformati in una scenografia fissa e suggestiva che fa da sfondo agli spettacoli. Direction arriva qualche anno dopo questa metamorfosi, nel 2014. Avendo sperimentato in prima persona le difficoltà di inserirsi nel contesto lavorativo teatrale, a causa di pregiudizi legati all’età, i ragazzi del collettivo hanno intuito che anche gli artisti emergenti potessero trovarsi in una situazione simile: non essere presi sul serio perché giovani. Così nasce il festival, un progetto in cui il giudizio è affidato ai coetanei, in un gesto di fiducia generazionale e responsabilità condivisa.
La dodicesima edizione del festival si è rivelata particolarmente feconda in termini di linguaggi performativi eterogenei; i lavori presentati spaziavano dal circo, alla danza, fino alla prosa e alla performance, dimostrando il grande fermento artistico che attraversa i giovani professionisti. Dopo uno spettacolo, può accadere che, fuori dal teatro, al consueto rumore dei commenti, si sostituisca un silenzio denso di emozione, rotto appena da un lieve brusio. Non si tratta di semplice ammutolimento: è qualcosa di più, come se la percezione spazio-temporale fosse stata alterata e una forza carsica avesse iniziato il suo invisibile processo erosivo.
È esattamente ciò che è successo dopo Io sono verticale, spettacolo di Francesca Astrei, vincitore del Premio della Giuria. L’attrice si presenta in scena su una sedia di legno – scelta che si inserisce nel solco del teatro di narrazione – indossando un kimono nero di raso. Dall’alto scende lentamente un microfono, quasi a schiacciare l’interprete, mentre intona la canzone Hurt di Johnny Cash.

“Io sono verticale, ma vorrei essere orizzontale” è l’incipit di una poesia di Sylvia Plath, scrittrice che ha convissuto a lungo con la depressione fino ad arrivare al suicidio: attorno a questi temi si sviluppa lo spettacolo. Per affrontare una materia tanto complessa Astrei si serve della storia di Lazzaro e la riscrive, anzi la ri-narra, da un’angolazione inedita. La vicenda biblica, tratta dal Vangelo secondo Giovanni, viene svuotata dal suo significato religioso e trasformata in un orizzonte metaforico collettivo: Lazzaro diventa archetipo della depressione, dell’uomo che pur vivo, si sente morto, giacendo in una culla/tomba da cui non riesce ad alzarsi. Così, l’ordine di Gesù «Alzati e cammina», visto da questa prospettiva, si trasforma in una condanna: alzarsi, per poi ricadere. La grande intuizione sta nel dare dignità non solo al sentire di Lazzaro, ma anche a quello dei suoi familiari: le sorelle Marta e Maria, la signora Cleofe, il nipote Beniamino, gli apostoli e una simpatica pecorella. Con consapevolezza e ironia, Astrei si fa scrivere dalla sua costellazione di personaggi, attribuendo a ciascuno una precisa riconoscibilità, gestuale e vocale, costruendo una polifonia di punti di vista di cui è al contempo compositrice e direttrice.
Il dolore, però, non scaturisce sempre dall’interno. Se nel lavoro di Astrei la sofferenza è intima e verticale — invisibile e quindi ingiustificabile agli occhi degli altri — Ahmen di Cromo Collettivo Artistico, vincitore del Premio della Critica, sposta lo sguardo verso un orizzonte sociale e politico, dove la ferita è inflitta dall’esterno.
Lo spettacolo ci catapulta nella quotidianità di Asim Javed, giovane pakistano arrivato in Italia dodici anni fa, ancora oggi intrappolato in un estenuante iter burocratico per ricongiungersi alla moglie. La vita di Asim-Ahmen, interpretato da Andrea Perrotti, si divide tra un autolavaggio sospeso tra il surreale e l’onirico e l’ufficio immigrazione. Alla verbosità bulimica del burocrate, interpretato da Valerio Sprecacè, si contrappone il silenzio ostinato di Ahmen, che resta muto per l’intera durata dello spettacolo. Anche quando finalmente prende parola, la sua voce subalterna si rivela solo un grido strozzato in gola. È una scelta registica che impone un rigoroso esercizio di sottrazione e consente di raccontare, con delicatezza e pudore, la storia di una vita resa invisibile. Questa dicotomia si riflette anche nella mise en espace, in particolare nella scena ambientata all’ufficio immigrazione: Ahmen è frontale, dietro un plexiglass; il burocrate, di spalle al pubblico, come a indicare — almeno sul piano spaziale — che il suo punto di vista coincide con quello dello spettatore, ovvero di chi occupa una posizione privilegiata.

Chi guarda è quindi chiamato a un atto di responsabilità: continuare a guardare Ahmen con gli occhi del burocrate oppure provare ad attuare un cambiamento, modificando il proprio sguardo. Lo spettacolo ha una chiara matrice visiva, continuamente suggestionata dalla pluralità degli oggetti presenti in scena — una lavatrice, un’insegna luminosa, carte e documenti, un teschio di mucca — e dall’ibridazione dei linguaggi artistici, che spaziano dal videomapping al video-documentario. La sovrabbondanza di codici genera un effetto apparentemente caotico ma coeso, capace di tradurre in immagini gli stati emotivi del protagonista e di partecipare alla sua disperazione. Ahmen trova conforto ora nel ricordo evanescente della moglie, ora nella religione e nel rapporto con la sacralità, sempre più assente nel mondo occidentale. Il teschio di mucca, anch’esso silente mentre osserva tutto dall’alto, e l’abluzione in una tinozza di latte, ribadiscono il suo bisogno di connettersi a una realtà superiore, come gesto di purificazione.
I due spettacoli premiati, nel tentativo di dare voce a chi resta ai margini, sia per motivi psichici che giuridici, si riflettono in una domanda comune: cosa significa vivere in uno stato di sospensione?
Lazzaro attende nel limbo della propria mente e Ahmen nelle maglie di un sistema che lo respinge. Eppure, entrambi non cedono: alla fine il primo si alza e cammina, il secondo non smette di lottare per riunirsi alla moglie. È in questa crepa che si apre un anelito di speranza, un soffio che Direction Under 30 raccoglie e trasforma in respiro collettivo.


