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Siamo tutti naufraghi. “La Tempesta” di Serra si fa politica

di Elena Romito, Daniela Salcoacci, Camilla Spina

Questo articolo è esito di un laboratorio di scrittura critica a cura di Altre Velocità, rivolto ai docenti di alcuni istituti scolastici superiori di Bologna.

Alessandro Serra ci catapulta nella Tempesta prima ancora che si apra il sipario. Il pubblico della sala De Berardinis dell’Arena del Sole è dentro al naufragio, straziato dalle voci dei naufraghi e in balia delle forze del mare e della natura primordiale. Fin dalle primissime battute intuiamo l’ambizione del regista di restituire la natura squisitamente politica dell’ultimo capolavoro del drammaturgo inglese: che gliene importa ai cavalloni del titolo di re!

Una volta svelata la scena siamo sott’acqua, un semplicissimo telo nero agitato diventa la superficie sotto alla quale uno spirito in movimento danza e lotta contro i flutti avversi e potenti, dando corpo al dramma dei sopravvissuti, le luci filtrano, i fulmini del temporale che, materici, attraversano la densità dell’acqua.

Da questo momento siamo tutti naufraghi ed è allora che ascoltiamo dalla voce fuori campo il racconto della rovina politica di Prospero, duca di Milano spodestato dal suo stesso fratello.

In scena insieme a Prospero c’è Miranda, figlia salvifica e portatrice di meraviglia, creatura estranea alle logiche del potere. Ascoltando le parole del padre, pur senza comprenderne le ragioni, Miranda è simbolo di un’umanità che sente “l’altro”, anche quando questo assume sembianze mostruose, come accade con Caliban, interpretato da Jared McNeill come un indigeno terrigno e ctonio, figura possente e dalla voce arcana e deforme. Egli incarna lo spirito dell’isola di cui era re prima dell’arrivo di Prospero ed è espressione di un mondo non civilizzato, di un’armonia con la natura irrimediabilmente perduta.

D’altra parte Prospero, mago, intellettuale e padrone, che sulla scena appare sempre con gli strumenti della sua arte, si esprime attraverso verdetti e sentenze contro i nemici usurpatori; egli è portatore di una vendetta inesorabile, pronto a usare la sua magia come forma di rivalsa su quel potere che lo ha rovinato.

Ariel, il suo inseparabile daimon, è una creatura femminile, fedele e remissiva, ma determinante per lo scioglimento dei conflitti dei personaggi in scena. Insieme a Miranda infatti Ariel è la zona di luce del dramma; da loro proviene la possibilità del perdono, sentimento che vince la logica fredda del potere e permette la catarsi finale.

Serra ha saputo movimentare la commedia attraverso un andamento paratattico e polisemico, che alterna attimi di tensione, atmosfere oniriche e scene di pura comicità, colorata e irriverente, in perfetto stile classico. Efficaci giochi di chiaroscuro, agevolati dalla sovrapposizione di quinte che si aprono e si chiudono, restituiscono e inghiottono nella profondità i vari personaggi.

La commedia è dunque un’esperienza sinestetica, che accompagna lo spettatore lungo tutto il percorso, senza spossarlo, ma interrogandolo sui naufragi del nostro tempo.

Recensione a cura dei docenti Elena Romito, Daniela Salcoacci, Camilla Spina (Liceo E. Fermi)

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