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(foto di Anna Battistella)
(foto di Anna Battistella)

Scene di paglia, il margine rimesso al centro

di Francesca d’Arielli

Se ai tempi della Serenissima avessimo chiesto a un contadino veneto cosa immaginava potesse diventare, un giorno, il cason in cui riponeva gli attrezzi da lavoro e le merci pronte per il commercio, sono certa che avrebbe potuto rispondere qualsiasi cosa… tranne che, secoli dopo, quel luogo avrebbe fatto da sfondo a un Festival teatrale. Tanto più se avesse saputo che su quel palcoscenico sarebbero passati alcuni dei nomi più importanti del teatro contemporaneo.

Giunta al Casone Ramei, il 18 giugno alle ore 21, per assistere allo spettacolo di apertura del Festival Scene di paglia, ho provato a fare questo gioco: per un momento ho chiuso gli occhi e ho immaginato. Un altro tempo, un tempo lontano di qualche secolo. Un’altra società, quella della spettacolare crescita economica della Serenissima, con tutto ciò che essa comportava. Un nuovo modo di produrre, commerciare e vivere. Case, o meglio casoni, fatte di paglia, legname, argilla ed erbe palustri. Contadini che, per rispondere ai nuovi bisogni della loro epoca, costruirono delle abitazioni e dei rifugi per le merci pronte al commercio che nel Novecento furono in gran parte abbattuti poiché ritenuti vergognosi, sporchi e antiquati, poco in linea con la modernità rincorsa nelle decadi dell’ultimo secolo.

Riaprire gli occhi e trovarmi a sovrapporre quelle immagini con le voci degli operatori, le luci provenienti dal piccolo palco allestito per gli attori e gli sguardi carichi di attesa degli spettatori mi ha fatto capire il motivo per cui portare un Festival di teatro contemporaneo in questi luoghi non ha nulla di strano.

Scene di paglia è un Festival con una lunga storia ormai: giunto alla sua sedicesima edizione, il Festival ha abituato il suo pubblico di affezionati a una formula vincente. Tanti gli spettacoli, diversi i temi che hanno fatto da perno nel corso delle edizioni ma tutte con una cosa in comune: il desiderio di far rivivere casoni, ville, centri cittadini e, quindi, luoghi, profondissimamente legati alla storia del territorio. Un intento quasi etnografico che ha la duplice funzione di parlare di contemporaneo ma con uno sguardo al passato.

Diciotto le performance, in scena dal 18 giugno al 6 luglio nei territori della Saccisica, quella zona che si estende nell’area sud-orientale della provincia padovana e nel passato votata all’agricoltura. Quattro le prime assolute, tre le anteprime nazionali, sette le prime regionali, una la produzione del Festival. Ad arricchire l’offerta, seguono presentazioni di libri, incontri con artisti e studiosi e banchetti di cibo e bevande curati da associazioni del territorio.

È ora di prender posto tra la platea verdeggiante: il primo spettacolo, Il sogno di una cosa, di e con Elio Germano e Teho Teardo, liberamente tratto dal romanzo di Pier Paolo Pasolini, attesissimo dal pubblico e sold out già dal giorno prima della messa in scena, sta per cominciare. Le luci fredde e intense, blu e viola, si confondono con i colori di un cielo estivo che sta per lasciar posto alla notte; dalle quinte (un muro di alberi compatti e avvolgenti) sbucano i due professionisti, pronti a dar voce, strumento e corpo a passi del testo pasoliniano.

È il 1948: il primo senso catturato è la vista, per la densità e il tono vibrante delle luci, e subito dopo, altrettanto cristallino e fresco, in un crescendo di intensità, è il suono. Sembra quello di un fiume che scorre, prima sono semplici gorgoglii, poi cresce e si espande, prende spazio e quasi sostituisce la voce di Germano, che ci annega dentro.

Il racconto prosegue, ma la scelta è quella di farlo attraverso uno sguardo distaccato, il tono è amaro, raffreddato, non solo dall’utilizzo cromatico delle luci ma anche dalla rigidità della narrazione: il cuore dell’azione, ovvero la gioventù piena di fame, senso di rivalsa e sogni è osservata con saggezza, il punto di vista è oltre, già alla fine, e guarda indietro con uno sguardo paternalistico, intriso di pietà.

A dar prova di questa sensazione è l’utilizzo di una voce registrata che si intromette nel racconto, come un flashback diretto dal passato, il sonoro di una videocassetta inserita e lasciata attiva in un’altra stanza a interrompere i nostri ricordi. In questa rappresentazione tanta è l’importanza data al suono e alla musica: l’accompagnamento di Teardo è come quello di un amico fidato, e sa restituire l’intimità profonda e la compartecipazione che lega i tre giovani amici protagonisti del romanzo. Sa anche adattare i moti turbolenti e le agitazioni che muovono la storia e ne danno la struttura: accompagna quindi fedelmente le narrazioni nei punti più inquieti, così il suono diventa più ampio e vibrante, così come il colore che diventa un verde acido, freddo, straniante.

“Voi giovani dovete andarvene dall’Italia!”: un monito duro che arriva dalla voce registrata e che dà inizio al movimento: gli amici partono per la Jugoslavia, col desiderio di uscire dalla loro condizione popolare vessata e compromessa per vivere il loro sogno nella terra di Tito. Non impiega molto la durezza della realtà a colpirli: dopo aver patito la discriminazione in quanto stranieri, il freddo e la fame, ed essere arrivati a raschiare il fondo del barattolo di marmellata, ricerca compulsiva di dolcezza nel gelo della disillusione, uno degli amici esclama “io torno a casa!”.

È a casa che cresceranno, che abbandoneranno quel “sogno di una cosa” per apprezzare e rincorrere i piaceri placidi di una vita qualunque. Alla parola “cosa” si sostituisce il sogno di un amore, di un lavoro, di una vita onesta. Uno degli amici incontra una ragazza, se ne innamora, finalmente le luci diventano calde, domestiche, rassicuranti. Il ritmo rallenta, fino a sospendersi e a dileguarsi in un suggestivo tintinnio finale che sa di fiabesco.

Lo spettacolo si chiude e resta la sensazione di un gusto semplice, agreste, trasposizione di un Pasolini autentico e ancora ben udibile. È un inizio tiepido ma preciso e puntuale, per un Festival che fa della tradizione territoriale la propria bandiera.

(foto di Anna Battistella)

Di tutt’altra pasta è la pièce proposta domenica 22 giugno al Teatro Filarmonico di Piove di Sacco, luogo che è il cuore del Festival.

Happy Birth+Day. Stelle terrestri è un’anteprima nazionale di Anna Zago, sul palco insieme a Manuela Massimi e Lia Zinno e con la regia di Nicoletta Robello. Lo spettacolo, co-prodotto da Pantakin, Theama Teatro, Dracma Teatro e Nuova Scena-Festival Scene di paglia, in collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto e il Collettivo Daphne, è senza ombra di dubbio tutto al femminile, sotto qualsiasi punto si scelga di guardarlo.

Ma concentriamoci su quello che avviene sul palcoscenico già dall’apertura del sipario: il buio pesto viene interrotto dall’arrivo di un personaggio, che resterà presente per tutta la durata della messinscena senza mai proferire parola. Ha sulla fronte una lucina luminosa e sembra una speleologa pronta a esplorare una grotta oscura, oppure un’operatrice cinematografica all’interno di una macchina da presa, decisa a registrare ciò che di lì a poco si paleserà al pubblico.

Sullo sfondo, tre spazi nascosti da una sorta di sipario trasparente dietro cui tre figure femminili iniziano a spogliarsi. Da subito sessualizzate, da subito nella condizione di oggetto di sguardi di coloro che sbirciano tra le tende di un camerino. I dialoghi si palesano dal primo momento come estremi, esagerati e volgari: le tre donne non parlano tra loro, ma si aggrediscono, si sputano insulti, si rinfacciano tradimenti e furti di uomini. A emergere non è nulla di loro, non sappiamo i loro nomi, le loro storie, le loro vite, sappiamo solo che sono malate ed infelici, ma soprattutto che sono nemiche tra loro.

Una prima chiarificazione sul senso di ciò che stiamo vedendo ci viene dato poco dopo: viene evocato infatti il mito del pomo della discordia e la celebre rivalità tra le tre dee su chi fosse la più bella. “Rivalità” è la parola chiave, che per tutta l’esibizione farà da filo conduttore al susseguirsi di immagini. Il momento più riuscito è quello delle interviste, in cui le donne, con ironia e sagacia, rispondono alle domande di un fantomatico intervistatore e grazie a questo espediente riusciamo a far chiarezza nella vita delle tre. Lo scontro dal piano verbale passa, metaforicamente, a quello fisico: la competizione si veste di gioco dalle atmosfere anni 2000 e, accompagnati dalla pacchiana canzone di Barbie Girl, scelta effettivamente piuttosto banale, le tre protagoniste si spogliano, indossano delle tute sportive, si legano i capelli e si sfidano a colpi di chi ha subìto più sgambetti nella vita, di chi è più infelice o, come direbbero loro, di chi ha avuto più sfiga. Emblematico che il campo di battaglia diventi quello di una festa.

Solo alla fine si svela la corrispondenza tra le tre donne, le tre attrici, le tre dee e le tre dive invocate nel corso della rappresentazione: Maria Callas, Marilyn Monroe e Jacqueline Kennedy. Forse l’obiettivo è stato quello di cercare di narrare un aspetto del femminile che va oltre la distinzione tra dive e le persone comuni, come a dire che in fondo basta l’esperienza dell’essere donna per comprendere le dinamiche che hanno mosso, incuriosito se non appassionato gli ammiratori di queste iconiche figure, tanto celebri quanto tragiche. Infelici come lo sono le tante donne costrette a girare come criceti in gabbia in quegli angusti spazi d’azione apparentemente liberi ma ricchi di insidie, inimicizie e gelosie che non sono altro che il frutto di una cultura patriarcale (non è un caso che sia le tre donne comuni che le tre dive siano legate tra loro dalla figura maschile che, come si può immaginare, ha intrecciato con le tre diversi tipi di rapporti amorosi, clandestini e non). Non è neppure un caso che l’intreccio si risolva con una partita al gioco dell’oca, durante il quale le tre protagoniste riescono finalmente a riabbracciare la propria autenticità (pur rimanendo, però, sempre delle pedine).

(foto di Anna Battistella)

L’ultima performance che vi raccontiamo è quella di Claudio Montagna, che prosegue con la sua originale proposta di Teatro da Tavola con Trascinato sulla via del disonore, un momento scenico intriso di tutta quella bellezza placida e serena che la semplicità riesce in gran parte a raccontare.

Perché definirlo uno spettacolo semplice? Perché privo di sovrastrutture, di artifici retorici o distrattori, Montagna ci obbliga a una vicinanza con ciò che viene agito che quasi nessun’ altra esibizione fa. E non perché interagisce direttamente col pubblico, al contrario, rimane concentrato nella narrazione della sua storia dall’inizio alla fine. La vicinanza è data dal senso di intimità (lo spettacolo è pensato per essere seguito da massimo una quarantina di persone), dallo sguardo intenso di Montagna, dalla sua voce imperturbabile che, da dietro il suo tavolo, ci racconta le vicende di Nello, un ragazzo che nel 1918 si trovava in carcere per aver commesso un omicidio. È proprio Nello a scrivere la propria storia in una lettera, conservata negli archivi del museo Lombroso di Torino e ciò che rivela di possedere, oltre che una storia avvincente da far conoscere, è un talento che potremmo dire “da scrittore”. Questo il motivo per cui Montagna ha scelto di rispolverare questa vecchia, lunga lettera di più di ottanta pagine e farla arrivare anche a noi, ascoltatori estranei alla vicenda e al mondo di Nello eppure così capaci, ancora, di empatizzare con gli errori e la voglia di fare ammenda di un ragazzo traviato da cattive compagnie.

La forza di questa pièce sta nel potere evocativo della parola, nella semplificazione estrema dell’uso delle immagini, nella pacata musica di accompagnamento, nel memento di Montagna su cosa voglia dire fare teatro in una comunità e su cosa sia l’ascolto. Da subito il drammaturgo ci invita a farci più vicini, stretti l’un l’altro, perché così dev’essere. Poi, afferma con risolutezza che il suo non è uno spettacolo. Infatti, la sensazione è quella di trovarsi raccolti attorno a un falò, pronti ad ascoltare un racconto antico e in qualche modo utile alla comunità. Montagna comincia il suo non-spettacolo disegnando geografie, con i gesti e con le parole, di una Torino intima e nota, quella dello stesso Nello. Inizia poi a mostrare alcuni estratti delle lettere del ragazzo: la calligrafia sottile, agile, sicura.

Da subito si nota un certo affetto del drammaturgo nei confronti di quel ragazzo di carta a cui dà vita: “cosa cercavi prima dell’omicidio? Cosa chiedevi alla vita?” gli chiede. La lentezza e la cura con cui mostra le immagini dei protagonisti e le loro parole non possono, in qualche modo, non farci affezionare alla storia, in questa operazione quasi da storico che, scovando in un archivio la vicenda personale di un uomo qualunque, è capace di ricostruire il mondo in cui è vissuto e a riconnetterlo con il presente, in modo che la storia di Nello possa intrecciarsi con le nostre e suggerirci qualcosa.

(foto di Anna Battistella)

“Margini”. Questa la parola chiave di questa edizione di Scene di paglia. Tutte le performance finora viste hanno sicuramente qualcosa che insegue questa traccia e ci permette di ragionare sulla funzione del teatro oggi, che è la stessa che ha sempre avuto, quella di connettere individui anche distanti e riportarli a una comunione generatrice di riflessioni e di sentire in maniera innovativa.

Non solo, il teatro è anche capace di ricollegare quelle parti distanti, in ognuno di noi, e di concentrarle in un nuovo centro, come se vivere l’esperienza della rappresentazione fungesse da forza centripeta capace di ricollocare ciò che è lontano al cuore stesso della propria identità. Diverse sono le categorie attraverso cui il significato di margine è esplicato nelle tre messinscene qui raccontate: età, genere, tempi e luoghi.

Quel che riconnette e riporta al centro, un centro condiviso e vivo, è sempre la relazione. Ai futuri spettatori del Festival si lascia il piacere di scoprire in quali altri modi l’idea di margine possa declinarsi.

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