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Pratiche antiche per spettatori contemporanei

di Maddalena Giovannelli

Il 14 maggio 2016 è stata organizzata la prima tappa di Crescere nell’assurdo, un ciclo di incontri in diverse città italiane sulla comune condizione dell’essere spettatori, pensando in particolare all’educazione, alla crescita e all’immaginario, e a come l’arte può abitare tali processi. Scrittori, sociologi, sceneggiatori, disegnatori, critici sono stati convocati a Bologna per una giornata di lavoro in forma di convegno-flusso, ideale “prologo” dell’intero percorso. 
Pubblichiamo in queste pagine gli “atti del convegno” espansi, mettendo a disposizione in forma scritta gli interventi di tutti gli ospiti.

Pratiche antiche per spettatori contemporanei

di Maddalena Giovannelli

Per gli ateniesi, le Grandi Dionisie erano un’occasione per smettere di lavorare, bere un sacco di vino, mangiare un po’ di carne (…) e anche per vedere le tragedie e le commedie.

– Oliver Taplin

Così osserva Oliver Taplin, uno dei più grandi studiosi viventi di teatro greco[1]. Siamo certi che, se la vedessero in questo modo, molti dei ‘nostri’ adolescenti si avvicinerebbero al teatro con minor sospetto.

L’esperienza spettatoriale antica, sospesa tra ritualità e divertimento, tra godimento individuale e festività collettiva, sembra ben lontana dalle compìte e (a volte) sbadiglianti platee contemporanee. Ma proprio la distanza cronologica e la più radicale diversità possono talvolta diventare spesse lenti per comprendere più a fondo i fenomeni che ci circondano.
Per questo motivo, sollecitata dagli organizzatori di questa giornata, ho tentato di ‘usare’ la prassi teatrale antica per interrogare la contemporaneità e il nostro modo di essere spettatori.

Ho dunque strutturato il mio intervento in tre parti, prendendo come spunto tre concetti chiave del mondo antico che, a mio parere, possono avere forti “riverberi” nella contemporaneità: li ho dunque associati a parole italiane che non ne sono la traduzione ma, appunto, rappresentano i “domini” entro cui tale riverbero si dà in misura maggiore. Mimesis/esperienza, Crisis/responsabilità, Catarsis/fruizione.

#1. Mimesis. O dell’esperienza.

Cosa significava, nel V sec. a. c. essere spettatori teatrali? Fischiare, lanciare fichi secchi sulla scena, applaudire rumorosamente, passare un’intera giornata in compagnia dei propri concittadini. Ma anche attendere a una parte essenziale della vita pubblica. L’intera cittadinanza votante era cioè chiamata ad essere presente alle rappresentazioni teatrali, esattamente come per il voto, per il mercato o per qualsiasi altra responsabilità del cittadino attivo. Ι prezzi erano accessibili e, in ogni modo, Pericle istituì presto un contributo statale, che di fatto corrispondeva a un rimborso del biglietto.

Solo così, tenendo in mente quanto coinvolgente e importante fosse per il cittadino greco l’esperienza spettatoriale, si può comprendere la preoccupazione di Platone in merito: la mimesis teatrale è, per il filosofo, troppo pericolosa e conturbante perché si possa includerla nella città ideale (nella sua Repubblica, come è noto, non sono ammessi né poesia né teatro).

Dietro al verbo mimeisthai (da cui la parola mimesis) si nascondono del resto due significati: da una parte “imitare”, “rispecchiarsi in”; dall’altra “recitare”, “interpretare un personaggio”. E non si tratta di una semplice coincidenza linguistica, bensì di un’esperienza che la maggior parte dei greci sperimentava in prima persona: a un cittadino poteva facilmente capitare di far parte di un Coro (è Platone stesso a riferircelo, nelle Leggi[2]) e, l’anno dopo, di tornare ad essere un semplice spettatore coinvolto. Significativamente, il greco esprime con la stessa parola l’esperienza di visione e immedesimazione da un lato, e la possibilità porre il proprio corpo al centro della scena dall’altro. La mimesis antica è un’esperienza di ‘immersione’, non di distanza: e se ci si è trovati da ambo i lati del palcoscenico la si realizza nella maniera più piena.

È interessante notare come (parlo sulla scorta dei percorsi di visione che porto avanti da alcuni anni negli istituti scolastici) gli studenti che hanno già all’attivo un’esperienza di palco, o stanno partecipando a un laboratorio teatrale a scuola sono spesso gli osservatori più acuti. E viceversa – come mi è stato riportato dai colleghi operatori – uno spettatore critico e avvertito torna al laboratorio e alla pratica del teatro con una diversa consapevolezza. Si guarda con altri occhi un attore se si comprende quanta fatica e quanta sensibilità servono per calcare quelle assi; e certamente viene meno voglia (molta meno!) di coprire la sua voce con risate e chiacchiericci. Trovarsi nei panni dell’altro è il primo passo verso l’empatia. Non varrebbe dunque la pena immaginare più spesso di quanto avvenga sinergie e vasi comunicanti tra i percorsi di visione e quelli di pratica? Con buona pace di Platone.

#2. Crisis. O della responsabilità.

Per quello che riguarda il secondo punto, ovvero la responsabilità, vorrei spendere qualche parola sul metodo di giudizio degli spettacoli teatrali nell’Atene classica. La dimensione della gara è connaturata al teatro antico: ma come venivano scelti i vincitori alle Grandi Dionisie? A decretare il primo premio era una giuria di cittadini, selezionata attraverso un elaborato sistema di estrazione per il quale ogni quartiere della città di Atene e dei suoi dintorni risultava rappresentato. A tutti gli effetti, una giuria popolare.

Oggi può accadere (anche se accade raramente) che un festival o un teatro interpellino una giuria popolare per votare o selezionare gli spettacoli; in questi casi, però, il risultato che ne emerge viene esplicitamente o implicitamente contrapposto al parere della critica, spesso ben differente. Tale contrapposizione polare (sul quale credo molti di noi si siano interrogati) è semplicemente impensabile per l’Atene del V secolo: la giuria popolare era anche, a tutti gli effetti, “critica”. Perché? Perché era una giuria di persone che condividevano il medesimo orizzonte culturale, frequentavano abitualmente il teatro, ne comprendevano i linguaggi, negli anni sviluppavano paragoni e formavano dunque attendibili metri di giudizio. Il ruolo di giurato comportava di fatto una responsabilità notevole: il verdetto influenzava non solo il premio dell’anno ma, in qualche modo, anche le proposte dei drammaturghi per le edizioni successive. Ci sono pervenute doppie versioni di alcune pièce (l’Ippolito di Euripide e le Nuvole di Aristofane sono fra i casi accertati) e gli studiosi oggi sono inclini a pensare che si tratti di modifiche al testo apportate dall’autore per venire incontro ai gusti del pubblico, dopo un insuccesso alle gare dell’edizione precedente. I cittadini ateniesi, in certa misura, sono dunque responsabili del modo in cui si è evoluta la drammaturgia greca.

Dal verbo giudicare, crino, deriva la parola crisis. Oggi è proprio la critica ad essere in crisi, e ragionare sulle etimologie può farci sorridere. In tempi di pollici digitali, di voti espressi con 3 o 5 stelline, è difficile pensare al giudizio in termini di responsabilità, e diviene più che mai delicata la questione dell’autorevolezza. A chi (e come) deleghiamo come polis il nostro giudizio? Al critico viene riconosciuta questa delega? Richiediamo una certa qualità del giudizio, o ci affidiamo piuttosto, come tripadvisor, alla quantità cumulativa e all’orizzontalità? Sono questioni capitali, sulla quali chiunque faccia critica oggi non può esimersi dall’interrogarsi.

Le prassi teatrali antiche possono forse lasciarci qualche spunto in questa prospettiva. La polis chiede a ogni cittadino di assumersi la responsabilità di un giudizio teatrale, proprio come accade con il voto politico. Allo stesso tempo, però, quella stessa polis mette il cittadino nella condizione di poter effettuare quella scelta in modo consapevole, rendendo il dibattito e l’abitudine al teatro un ingrediente irrinunciabile della vita cittadina.

E noi? Quali strumenti mettiamo in atto per permettere i giovani spettatori di esercitare un pensiero critico? Lavoriamo perché ci siano le condizioni per una fruttuosa pratica di giudizio?

#3. Catarsis. O della fruizione.

Un celebre aneddoto racconta che uno dei primi tragici di cui abbiamo traccia, Frinico, fosse stato multato di 1000 dracme per aver fatto piangere eccessivamente gli spettatori con la sua pièce La presa di Mileto. Al di là della sua credibilità storica (è Erodoto la fonte[3]), l’aneddoto ci dice di quanto il pubblico ateniese fosse disposto a farsi includere emotivamente nella rappresentazione. D’altronde, la nozione di catarsi di cui ci parla Aristotele nella Poetica è, nella sua definizione più scarna, una liberazione dai sentimenti di pietà e paura. Affinché tale catarsi avvenga, è giocoforza che i sentimenti di pietà e paura si producano nello spettatore, attraverso la visione dell’azione scenica. Lo sconvolgimento emotivo è dunque un fenomeno abituale nel cittadino ateniese: esso non è contrapposto alla comprensione razionale delle istanze di pensiero della pièce, ne costituisce anzi una condizione preliminare particolarmente favorevole.

Si piange molto, sulle gradinate di Dioniso. E si ride molto. Al termine della giornata viene presentato un dramma satiresco, cioè un’opera comica (di cui poco sappiamo perché poco ci è rimasto): proprio attraverso i lazzi dei satiri dionisiaci, che stemperano gli orrori della tragedia, la catarsi si compie. E il quarto giorno, ecco cinque commedie, una dietro l’altra. Lo spettatore greco ha a sua disposizione una ampia gamma di registri: è abituato, nel suo teatro, a spaziare dall’alto al basso senza soluzione di continuità. In una commedia di Aristofane si passa da pesanti volgarità da bar (che fanno spesso arrossire i docenti) a delicatissimi momenti di poesia lirica. Nelle Donne al Parlamento, in una delle sue formidabili aperture metateatrali, Aristofane chiede: «Cari giudici, io vi dico: votatemi per le risate che avete fatto e votatemi per le parole sapienti che avete udito».

Oggi si ha l’impressione di uno strappo, e che gli estremi si tengano insieme con una maggiore difficoltà in un insieme organico. È però una palestra irrinunciabile, per la formazione di una personalità, poter ridere e piangere nella platea di un teatro, commuoversi e pensare: bisognerebbe fare uno sforzo (nel costruire percorsi di visione, stagioni, spettacoli) per preservare questa biodiversità di registri.

C’è poi un altro aspetto al quale vale la pena dedicare qualche riflessione. Un teatro all’aperto è un luogo naturalmente soggetto alle distrazioni, alle interferenze, ai commenti ad alta voce. Gli spettatori greci (ce lo dicono le testimonianze) erano vivaci, irrequieti, schiamazzanti. Il teatro era un luogo dove stare “con agio”: si portava il cibo da casa, si sgranocchiava, si chiacchierava. Oggi i giovani (ne ho testimonianza diretta) percepiscono spesso il teatro un luogo di alterità eccessiva, di distanza: si sentono fuori posto, come un animale in un habitat diverso dal suo. Il raccoglimento e l’attenzione possono ovviamente essere fondamentali per alcuni spettacoli: ma varrebbe senz’altro la pena indagare strade per togliere formalità, e per creare una maggior confidenza con la ‘casa dello spettatore’.

Cosa ci insegna, dunque, la Grecia antica? Se leggiamo bene il messaggio contenuto nella bottiglia del passato, possiamo trarne non pochi spunti: l’importanza di un’esperienza di profonda partecipazione, fuori e dentro la scena, la centralità del teatro nella vita del cittadino, la responsabilità che un giudizio sempre porta con sé, la necessità di accogliere dentro la drammaturgia alto e basso, la possibilità di una fruizione allo stesso tempo emotiva e razionale.

Sono sintomi, questi, di una società sana. E oggi? Quante istanze possiamo recuperare, e quante ne abbiamo irrimediabilmente smarrite? Ai posteri l’ardua sentenza: oppure, ancor meglio, a noi.


NOTE

[1] O. Taplin, Greek Tragedy in Action, London 1978, p. 162.
[2] Plat. Leg. 817c
[3] VI 21

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