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Paola Villani e “La prima periferia” di Pathosformel

di Rodolfo Sacchettini

Il vostro ultimo lavoro, La prima periferia (leggi la recensione), è stato ospitato ai Cantieri Goldonetta, un luogo dedicato soprattutto a un certo tipo di danza e di movimento. Ma le intersezioni tra il vostro lavoro e lo spazio sono tante e una in particolare: la riflessione e la pratica sul gesto. Prima di arrivare al debutto avete condotto addirittura dei laboratori di studio e approfondimento, intitolati Collezione del gesto. Come erano organizzati?

Quando io e Daniel Blanga Gubbay abbiamo deciso di lavorare sul “gesto” eravamo ben consapevoli che per noi rappresentava una sfida nuova, anche perché non avevamo mai realizzato nessun spettacolo con corpi completamente visibili sulla scena: una sfida da affrontare, ma con le dovute cautele. Prima di tutto abbiamo deciso di lavorare con altre persone e di raccogliere un gran numero di gesti, con l’aiuto dei partecipanti dei laboratori. La Collezione del gesto è stato il modo per affrontare una questione completamente nuova. Si partiva dall’idea di trovare dei gesti, di vederli accostati tra loro e quindi ripetuti dall’intero gruppo. Ogni gesto doveva essere eseguito con una certa “pulizia” che lasciasse trasparire le qualità singolari. E siamo partiti dai gesti più piccoli, dai movimenti più semplici, quelli che solitamente si compiono senza nemmeno che ce ne accorgiamo: gesti che spesso reputiamo “insignificanti”.

La vostra ricerca in questi anni potrebbe essere sintetizzata come uno scavo sulla figura umana. In La prima periferia appare per la prima volta il corpo umano nella sua interezza, accompagnato però da una sorta di scheletro artificiale…

La prima periferia espone in scena dei corpi e dei modelli anatomici. Questi modelli sono i nostri strumenti meccanici, nati perché volevamo svincolare il gesto da quella qualità biografica che naturalmente ogni corpo porta con sé. Ci sono due tipologie di gestualità: da una parte i performer che manipolano i modelli umani, dall’altra i gesti meccanici degli stessi modelli. Sono accostate queste due sfaccettature diverse del gesto, a tratti si enfatizza uno, a tratti l’altro. In certi momenti i manipolatori quasi spariscono per mostrare i gesti dei modelli umani, in altri momenti invece l’interazione tra loro dà senso alla scena.

C’è una terza interazione: quella tra i gesti dei modelli umani…

Per la composizione delle relazioni abbiamo una partitura molto precisa. Esiste una struttura interna al lavoro, ma è solo suggerita, perché lo spettatore possa avere un ruolo che deve essere necessariamente attivo. Ci sono degli appoggi per leggere ogni scena, ma ci vuole una compartecipazione da parte dello spettatore e questo è un elemento che è alla base dei nostri lavori e che noi cerchiamo di portare avanti da sempre.

Il lavoro potrebbe apparire astratto, però lo spazio che viene lasciato allo spettatore è proprio quello dell’immaginazione, che è anche del ritessere i fili. C’è la possibilità, guardando lo spettacolo, di individuare delle micro-storie, non a livello narrativo, ma a livello sentimentale. Questa relazione credo sia alla base di tutti i vostri lavori: le precisioni emotive sembrano essere l’alfabeto della vostra drammaturgia.

Lasciare margine all’immaginazione dello spettatore è per noi fondamentale, è il motivo per cui continuiamo a fare teatro. E forse è una cosa che va pure re-insegnata, sulla scena non va dato nulla per scontato. Certo, in questo lavoro c’è il rischio di cadere nell’eccessiva astrazione, ma cerchiamo di fare molta attenzione, lavorando anche su dei nuclei principali che attirino l’occhio dello spettatore, stimolandolo poi a livello immaginativo.

Tutto questo accade probabilmente se il gesto ha la forza dell’archetipo, se riesce a rimandare ad altre implicazioni. Il nome del vostro gruppo, Pathosformel, indica già, richiamando il lavoro di Aby Warbug, questo tipo di strada…

Precisamente. Il nostro nome è come una chiara dichiarazione di intenti. Il concetto di Pathosformel è per noi fondamentale. Ogni volta cerchiamo quelle strutture e quegli elementi che inneschino questo tipo di meccanismo: dare significato a delle forme astratte.

Nei vostri lavori precedenti il corpo umano appare sempre parzialmente (ad esempio come pura luminescenza in Volta, come radiografia in La timidezza delle ossa). Sembra che si proceda per un progressivo “riempimento”.

Non ci poniamo dei vincoli a priori. Questo tipo di strutture erano vincolate a dei progetti che avevano bisogno di corpi non svelati completamente. Abbiamo lavorato su immagini differenti, ancora non sappiamo dove ci porterà questo percorso, ma guardando indietro ci sembra molto chiaro il cammino che stiamo percorrendo.

Fotografia di Alessandro Sala

L'autore

  • Rodolfo Sacchettini

    Critico teatrale, è tra i fondatori di Altre Velocità e collabora con la rivista Gli Asini. Dal 2004 conduce una rubrica radiofonica di attualità teatrale su Rete Toscana Classica. Ha curato svariate pubblicazioni nell'ambito del teatro ed è stato codirettore del Festival di Santarcangelo per il triennio 2012-2014 e presidente dell'Associazione Teatrale Pistoiese.

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