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Casa rossa più vicino_28 agosto23

Identità, memoria, finzione: qual è la linea di confine? / Gorizia

di Altre Velocità

«Ah, le storie… la storia.»
Con questa citazione rubata allo spettacolo, mi chiedo che cosa sia l’essere umano senza di essa.

Una risposta arriva dalla performance teatrale itinerante Casa Rossa – più vicino da lontano, di Silvia Viviani, che si è svolta il 28 agosto alle 16.15. Un percorso che alterna racconti in cuffia a momenti di interazione con il pubblico, condensando in circa un’ora la realtà del confine del valico di Casa Rossa tra il 1947 e il 1991. Uno spettacolo denso di storia e simbolismi, capace di passare con agilità dal divertimento a momenti più cupi e riflessivi. Una scelta avvincente per trasmettere argomenti di tale portata, senza renderli noiosi come le lezioni di storia delle superiori.

Fin dall’inizio lo sguardo è duplice: da una parte gli spettatori con le cuffie, dall’altra i passanti, spettatori degli spettatori. Dentro le auto, in bici, a piedi, dall’alto del cavalcavia o dal basso, si vedono facce perplesse e incuriosite che si domandano cosa stia accadendo. Memorabile l’istante in cui un pedone soccorre l’attrice – in quel momento una malata di mente smarrita con dei quadri in mano – convinto sia la realtà. Quanto possiamo davvero fidarci di ciò che crediamo vero?

Partendo dal lato sloveno del valico di Casa Rossa, vicino a Rožna Dolina, il pubblico è invitato a osservare: la centrale di polizia, una pekarna, il confine. Dal presente ci si ritrova, attraverso l’immaginazione, catapultati in un’altra epoca, dove tutto era rivestito di fiori. In quel paesaggio idilliaco, mi immagino mio padre in veste da giovane militare. Quante storie mi ha raccontato quando ero piccola! Lui che davanti la vecchia locanda Casarossa ha sfidato con coraggio le forze armate. Munite di manganello e rabbia repressa, stavano distruggendo la sua automobile, rischiando di far esplodere un bell’incendio. 

Dal punto di partenza, si procede verso destra, per raggiungere il ponte che segna lo snodo tra Italia e Slovenia. Vengono consegnati dei foglietti apparentemente innocui. Lungo il muro di pietra del valico, i partecipanti li aprono: una carta d’identità. Ed ecco la realtà incrinarsi di nuovo. Basta davvero così poco per smarrire sé stessi? Un foglio di carta, dell’inchiostro, lettere che compongono una parola. Quel nome che ci viene affidato alla nascita d’improvviso cambia, e noi non siamo più noi.

Una linea tracciata, un confine: di qua, di là. Persino la polizia di frontiera reale contribuisce involontariamente alla performance. Vedendo gettare polvere a terra, credono sia benzina e, tra attimi di panico per attori e organizzatori, lo spettacolo rischia di interrompersi. Ma non si molla, la performance prosegue. Ritorna il foglietto, forato su un lato. Da quei piccoli buchi sbucano occhi che osservano ciò che riescono: nel limite il dettaglio resta indispensabile.

Dalla cancellazione dei confini, alla perquisizione di chi aveva tentato di oltrepassarli. Un’anziana tra il pubblico si dichiara colpevole: «ho portato via quanta più carne potevo». Il finto arresto dei ‘criminali’ – «hanno incarcerato papà», detto con tono divertito. Poi persone che si allenano, una scimmia che sbuca da dietro un albero, un matrimonio. La guerra. Tutti al riparo. Gente che si sparpaglia. Panico. Le notizie scorrono al TG e nelle orecchie degli spettatori, che rivivono ed empatizzano con le voci del passato.

Questo spettacolo è intriso di umorismo, che, come insegna Pirandello, è quel “sentimento del contrario” che diverte ma lascia emergere riflessioni più profonde. Un sorriso amaro, come quello della signora dall’altra parte del marciapiede: dietro gli occhiali da sole si percepiscono le sue lacrime affiorare. Emozioni vere di chi, forse, quella storia l’ha vissuta davvero.
Il cammino si conclude nella piazzola giusto davanti Casa Rossa sul fronte italiano. Piero – il pappagallo che un signore mi ha citato per ben tre volte – attende la folla. Insieme a lui ci sono ricordi imprigionati in fotografie: immagini che il pubblico può prendere, appendere ad una rete lì presente, e contemplare. Le emozioni scorrono nel corpo come vene di memoria. E in un angolo, un dettaglio quasi invisibile, una pianta di pomodoro. Lì per ricordarci che le piante alte venivano sradicate, ma lei resiste, pronta a crescere più veloce e più alta possibile.

Scoppiano gli abbracci tra attori e spettatori. Dal timbro delle voci in cuffia, che non smetteresti mai di ascoltare, all’energia degli artisti che interagiscono con il pubblico in maniera vivace, lo spettacolo coinvolge a pieno nelle complicate e curiose vicende di confine. Particolarmente commuoventi le interviste delle signore anziane poiché, ancora una volta, ho rivissuto la mia infanzia. La piccola me, seduta in braccio alla nonna, mentre ascoltava le sue storie miste di comicità e tragicità come ninna nanna. È impossibile restare fuori da questa performance. O ne sei coinvolto fisicamente o con i ricordi.
D’altronde, che cosa sarebbero le storie se non fossero vissute?

Sara Calderan

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