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foto di Tala Hadid
foto di Tala Hadid

Éléphant, doppia memoria del corpo

di Anita Fontana

Questo articolo è esito del laboratorio “Per uno spettatore critico”, organizzato da Altre Velocità durante VIE Festival 2022.

Non si sceglie il corpo, non si sceglie la lingua che lo culla e che ne calma le paure, non si scelgono le melodie materne che muovono i primi passi di danza. Questo è Éléphant di Bouchra Ouizguen (visto allo Storchi di Modena durante il festival VIE), il corpo che sperimenta la difficoltà e il desiderio di essere testimone di una tradizione che si teme possa scomparire, compito che non si sceglie ma che vive necessariamente nel gesto che lo anima. Il corpo può dunque scrivere perché è inscritto, parla una lingua propria che si aggiunge a quella condivisa dai soggetti appartenenti ad una stessa comunità. La memoria non è solo personale nello spettacolo dell’artista marocchina, è anche quella collettiva di una cultura lontana nel tempo e nello spazio, per “noi” forse difficilmente leggibile. Sulla scena, le due memorie comunicano fra loro dando vita a un movimento a volte equilibrato e pacato, a volte tormentato, quasi “obbligato” nel suo sviluppo dalla voce che lo sostiene.

All’inizio dello spettacolo due interpreti puliscono il palco con uno straccio, quasi a preparare lo spazio consono ad accogliere un altro mondo, eliminando i resti della nostra realtà. Una figura sacerdotale col volto coperto si materializza a lato della scena. Si muove al rallentatore per un tempo che pare indefinito, guidata da un canto femminile. Il ritmo è lento e sospeso ma funzionale a entrare in un mondo atavico, dove i silenzi “irrisolti” si rispettano. Alza le mani al cielo e sembra dire: “Venite, non dovete capire, abbandonatevi”. Non comprendiamo la lingua, ma bastano le melodie, i sorrisi e i pianti per interpretarne le intenzioni. Entrano le quattro interpreti in vestiti lucenti e colorati, la sala è pervasa dal profumo di incenso, stendono il tappeto di casa di un salotto quotidiano. Si apre lo spazio del canto, che incoraggia e stimola il corpo della ballerina principale, quasi lo obbliga ad una danza necessaria. La coreografia è modellata sulle fisicità delle performer, morbide e abbondanti quelle del coro, allungata e sinuosa nel caso della “protagonista”.

Il movimento non è costruito e non risponde a una tecnica meticolosa, ma rappresenta con immediatezza un corpo elegante e parlante, che ride, che piange per un lutto, che sospira. La scena è spoglia, poco teatrale così come la luce, che si fa più drammatica solamente con l’arrivo del dolore, annunciato da una morte. L’alternarsi di canto e disperazione anima il corpo unico formato dalle interpreti, che si sorreggono, sfruttano i punti di appoggio per trovare la luce calda di un finto sole. Éléphant chiede quale sia la funzione della fisicità oggi, si domanda se abbia ancora qualcosa da dire. Lo spettatore può anche non trovare risposta ma si sente pervaso e colpito da un impetuoso fiume di emozioni. Forse è stranito dall’intensità del racconto di Ouizguen, ma non può fare a meno di ridere, di piangere con le interpreti, di voler muovere il bacino a tempo di musica.

L’elefante è l’animale della memoria, a rischio di estinzione come la cultura e le tradizioni del passato. La coreografa marocchina cerca di dargli spazio e corpo per farlo vivere senza costruzioni spettacolari, facendo sentire solo la sua voce.

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