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“Durante” di Pascal Rambert, maledetto il teatro della passione

di Anita Fontana

Prima di morire si ricorda la prima volta, il primo bacio. È quello che Anna e Marco, ex studenti della scuola di teatro del Piccolo di Milano, guardano da fuori, da spettatori. Lui in ginocchio di fronte a lei, che beve ogni sua parola. Anna che dedica la sua intera biografia all’amore, che alla fine, poco prima dello schianto, perdona anche il tradimento. Marco, servitore del sentimento che squassa il petto, che non ti fa sentire all’altezza di tanta potenza. Sandro, il regista, che ama un ragazzo che non lo ha ricambiato mai.

Pascal Rambert, continuando la trilogia iniziata con Prima, nel quale una compagnia teatrale allestisce uno spettacolo ispirato alla tela di Paolo Uccello dedicata alla Battaglia di San Romano, indaga la densità del tempo sospeso fra la vita e la morte con Durante, sul palco del Teatro Grassi di Milano dal 6 aprile al 5 maggio. In scena, dalle lamiere accartocciate della macchina da corsa rossa, schiantata sulle note di Maledetta primavera, escono gli attori reduci dallo spettacolo, sanguinanti. Oltre ai loro corpi escono quelli degli attori che interpretano loro stessi ragazzi e bambini, generazioni che dialogano in un intricato racconto metateatrale. Gli attori si guardano da fuori, come fossero a teatro e poi dialogano con le loro proiezioni passate in una sorta di matrioska che racchiude molteplici piani temporali. Lo spettacolo appena concluso, l’incidente, la loro infanzia e giovinezza, il tempo dello spettatore in sala.

Lo spettacolo di Rambert è un inno all’amore, è un invito a mettere passione nelle cose che amiamo: il teatro, la curva del collo, la caviglia, il polso, le mani di chi ci fa battere il cuore. È un labirinto di parole, riflessioni che gli attori, in tono sempre concitato e fluviale, rivolgono al pubblico e a loro stessi. Un invito a non avere paura di sentire quello che s’insinua dentro di noi, come l’amore che entra piano nel cuore di Leda, anche lei attrice del Piccolo. La ragazza bella e silenziosa che ha scelto di vivere in disparte, che sfugge, che c’è poco e quando c’è trema. L’amore dei personaggi che muoiono e rinascono ogni volta che un nuovo attore li interpreta, che sanguinano in scena come gli attori feriti nell’incidente. L’amore degli attori verso il loro mestiere, quello più bello del mondo, che possiede il corpo, la parola, che ti abita e non ti abbandona mai.

L’amore arrabbiato di un Arlecchino che esce dalle viscere del Piccolo, sfonda la quarta parete e brandisce minaccioso il martello di fronte agli spettatori in prima fila. Il suo tono è violento, inquietante, nasconde il sangue sotto la maschera nera. Alza un provocatorio pugno chiuso che grida la frustrazione della rabbia verso i potenti che ci governano, la voglia di vivere. Uscito lui di scena, è la volta del regista, arriva per la prima volta la pace. Sandro, seduto sui bianchi scalini del Grassi, si rivolge al pubblico con tono pacato, mentre osserva i suoi attori recitare nello spettacolo dedicato alla Battaglia di San Romano. Osserva il triangolo fra Marco, Anna e Leda, il meccanismo perfetto che funziona da sempre su ogni palco del mondo: l’amore, la passione, la gelosia.

Alla fine gli attori ci danno la schiena, vediamo un secondo sipario chiudersi come fossimo noi dietro le quinte. Ci chiediamo che cosa accade quando il personaggio abbandona l’attore, quando la vita dell’uomo ritorna ad abitare il corpo. Dove finisce il personaggio e dove comincia l’uomo? Cosa accade durante questo passaggio che assomiglia a quello dalla vita alla morte? Un teatro di ombre prende la scena, le sagome dei protagonisti sono proiettati sullo sfondo bianco, come pedine di una scacchiera sono scaraventate in aria nel momento dello schianto. Risuonano di nuovo le parole di Maledetta primavera, quasi a dire maledetto (e meraviglioso) il momento in cui ci hanno fatti di carne e parola.

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