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Dialogo, il più informale possibile, con Wolf Bukowski

di Giulia Damiano

Nel migliore dei mondi e dei momenti possibili, abbracciati da un reiterato caldo che romanticamente si declina in “ottobrata” e “novembrata”, l’ottimismo leibniziano (o presunto tale) non andrà oltre questa prima frase. Proprio due anni fa, nel lontano ottobre 2020, si tiene ad Atelier Sì un dialogo tra Stefano Laffi e Wolf Bukowski durante il ciclo di incontri Domani è un altro mondo organizzato da Altre Velocità per Così sarà! La città che vogliamo (a sua volta progetto di Emilia Romagna Teatri attivo in quel periodo a Bologna). Durante lo scambio dei due, a colpire è il piacevole contrasto tra le argomentazioni coraggiose e il tono pacato del secondo.

Wolf Bukowski scrive su Giap, blog della Wu Ming Foundation, collabora con Internazionale ed è autore per Alegre, fra gli altri, de La danza delle mozzarelle (2015) e de La buona educazione degli oppressi – Piccola storia del decoro (2019).

Il dialogo-intervista che segue è frutto di un corposo scambio di mail con l’autore, avviata nel 2020 nel pieno della pandemia (o come sarebbe più corretto chiamarla, sindemia) da Covid-19, riprendendo le fila del discorso precedente per condurlo verso una fine, un fiocco o forse un nodo.

Con Bukowski si affrontano, in tale sede, le ragioni e le conseguenti dinamiche politiche dietro alla costruzione del “decoro” urbano in chiave securitaria. Da qui il discorso si dirama alla questione dello spazio urbano; alle politiche pubbliche (e alle sue vittime) durante l’emergenza sanitaria e oltre; all’ambivalenza del virtuale tra libertà e coercizione; all’espansione capitalistica.

Può darsi che il bisogno di confrontarsi con determinati temi torni (e torni proprio adesso) perché perfino ciò che è mutato sembra esserlo entro uno schema spaventosamente immobile. Di un immobilismo endemico.

Gli occhi sulla città

Giulia: Durante i due incontri nei quali ho avuto modo di ascoltarti, parlavi a occhi chiusi o comunque semi-aperti: posso chiederti come mai? Sensibilità alla luce? O il motivo si ricollega un po’ al tuo discorso condotto ad Atelier Sì, sulla necessità del buio per crearsi spazio a sufficienza per l’immaginazione, anche in un contesto tanto micro come un’intervista quanto macro come lo spazio urbano?

Wolf: Grazie per avermi proposto questo accostamento: non mi ero mai reso conto che la mia ricerca del buio, ovvero dello spazio (urbano, ma non solo) in cui le cose non sono totalmente predeterminate, potesse avere a che fare con l’abitudine a parlare a occhi chiusi in contesti pubblici di dibattiti, presentazioni eccetera. Mi pare un’ipotesi molto nobile, e quindi immeritata. Posso dirti, più banalmente, che è successo una volta, qualche anno fa, che non riuscivo a concentrarmi, e per provarci ho chiuso gli occhi. Non so dirti con che esito. Da lì mi si è appiccicata questa abitudine, del tutto involontaria, a cui mi sono rassegnato.

Giulia: Quando hai cominciato a interessarti allo spazio urbano e a tutti i fenomeni che in esso si manifestano, com’era la città rispetto a oggi?

Wolf: Ho cominciato a interessarmene quando ho iniziato a frequentare quotidianamente Bologna. Erano gli anni Novanta. Facevo una vita normale da studente e lavoratore, già allora era faticoso conciliare le due cose. Senza neppure volerlo mi trovavo continuamente in luoghi occupati o autogestiti. La biblioteca autogestita dove si studiava e socializzava (il 36 di via Zamboni), i luoghi dove si ascoltava musica, quelli in cui si faceva attività culturale, per tacere di quelli della militanza politica extraistituzionale, erano pressoché tutti irregolari, occupati o qualcosa del genere. È da allora che sono convinto che la libertà di una società si misura sulla capacità degli ambiti collettivi di mantenere una certa autonomia rispetto alle pretese della legge. La libertà che si respirava in città non era dunque a mio parere nel presunto “anonimato” delle persone, quanto piuttosto nella resistenza spontanea delle dimensioni collettive alle pretese di controllo dello stato. Da allora in poi le istituzioni hanno fatto a pezzi quella “resistenza spontanea”, e ne hanno cancellato le tracce.

Giulia: Cosa ti ha portato a scriverne?La scrittura è una forma di attivismo?

Wolf: Da un lato sì, la scrittura è stata per me anche una forma di militanza, nei momenti in cui c’erano situazioni collettive in cui “militare”. Ora, con il dissolversi di quelle situazioni collettive, la scrittura pare piuttosto rispondere al bisogno di indicare che, in qualche bivio e punto della strada, le cose sarebbero potute andare diversamente o, persino!, sono davvero andate diversamente, almeno per un po’. Ci sono stati contrasti e pensieri radicali là dove ora c’è silenzio e determinismo, o dove c’è un inutile attivismo su temi inconsistenti. Come militare nel tempo della sconfitta epocale? Non saprei, ma in ogni caso la risposta per me giocoforza è nello scrivere, non sapendo fare altro.

L’oggetto nelle mail scambiate con Bukowski, a distanza di tempo, rimane lo stesso: “Dialogo quanto più informale possibile”. In fede a questa implicita promessa di non sfociare nella strozzante formalità di una canonica e istantanea intervista, si opta per un botta e risposta telematico condito di tanti punti interrogativi e nessuna fretta.

Tornare a parlare con Bukowski, riprendere un discorso lasciato a metà, pone davanti a una percezione di tempo: non sembrano essere passati due anni.

Giulia: È un momento, questo, che sembra già storico e mai criticamente attuale – saranno sistemici metodi di depoliticizzazione? Tutto si equivale, nessuna dinamica davvero cambia o si scalfisce...

Wolf: “Tutto si equivale, nessuna dinamica davvero cambia o si scalfisce” è esattamente la chiave di lettura che sto usando per guardare a diversi fenomeni, che dandole dei nomi importanti traduco talvolta così: Spinoza, non Hegel, spiega il nostro tempo.

(Vittime del) decoro e digitalizzazione dell’esistente

Giulia, 2020: Quale la tua impressione riguardo ai giovani, al trattamento che le politiche gli (o non gli) riservano, alla loro potenzialità inespressa. I giovani come lo spazio urbano?

Wolf, 2020: C’è da dire che non tutti i giovani sono vittime delle politiche del decoro, anche se molte di queste vittime sono giovani. Tra questi giovani colpiti dal decoro possiamo considerare migranti non “stabilizzati”, ragazzi e ragazze di periferia che vogliono godere dello spazio rappresentativo della città, ovvero del centro urbano, i writers, chi si ritrova in luoghi di socialità informale (la cosiddetta movida), militanti politici di organizzazioni studentesche e così via. E questo è diciamo autoevidente. Ma i giovani non sono destinatari solo di politiche repressive, ma anche di quelle produttive di senso. Da una parte c’è il decoro, dall’altra la seduzione. Sono giovani i destinatari di politiche partecipative, il più delle volte appunto più seduttive che “democratiche”; sono giovani i bersagli della retorica delle start-up, dell’autoimprenditorialità, del green, mere illusioni che nascondono il peggioramento delle condizioni di vita. Il movimento è quindi duplice, e l’esigenza fondamentale a cui risponde è quella della continua trasformazione neoliberale della città. Un città che diventa merce in sé stessa non può stare ferma: come ogni altra merce deve ballare, esercitare il suo sex appeal, espandere la propria penetrazione commerciale nello spazio e nell’immaginario. Dunque chi vive di più la città nei suoi spazi aperti al pubblico – ovvero i giovani – è più investito da questa duplice politica.

Tuttavia, prosegue l’autore nella sua risposta, i giovani non sono le sole vittime delle politiche del decoro: tra queste ci sono anche gli anziani, “altro polo degli abitanti della città”, soggetti a un altro tipo di attenzione istituzionale. La suddetta trasformazione neoliberale della città prevede anche il chiudere gli anziani in casa, rendendo gli spazi di questa più attrattivi per i giovani.

Wolf, 2020: Anche gli anziani, come i giovani, diventano facilmente vittime delle politiche urbane neoliberali. Si pensi per esempio allo spostamento degli ospedali in estrema periferia o persino oltre, fenomeno che riguarda moltissime città grandi e piccole. Si tratta di una randellata contro l’autonomia degli anziani, che li costringe a dipendere da qualcuno che li accompagni a ogni esame diagnostico. Oppure si pensi alla trasformazione di diverse pratiche burocratiche in “solo online”, senza alcun rispetto verso una generazione che non ha usato gli strumenti informatici, e che la costringe alla dipendenza nei confronti del primo che passa che ci sa fare con un computer. Si pensi infine alla mobilità appunto “green”: per un anziano una pista ciclabile tracciata sul marciapiede davanti a casa, dove sfrecciano biciclette e monopattini elettrici, è una crudeltà inaudita che lo indurrà a passare i suoi ultimi anni stabilmente davanti a un televisore, che peraltro gli trasmette, col suo trash allarmista, ancor più paura del mondo esterno.

Giulia, 2022: “Non tutti i giovani sono vittime delle politiche del decoro, anche se molte di queste vittime sono giovani”: chi sono le altre vittime di decoro e sicurezza, spinte ai margini della società? Come diventano, queste ultime, nelle narrazioni dell’opinione e delle politiche pubbliche, “carnefici” della propria marginalità?

Wolf, 2022: Credo che il mio riferimento ai e alle giovani fosse centrato sulle possibilità che decoro e sicurezza hanno loro sottratto, in termini di sperimentazione, di attraversamento non conformista del mondo, di incertezza feconda e di scoperta. Nel regime decoroso e “sicuro” tutto è regolato, e quindi tutto è messo a preventivo, e quindi, in qualche misura, tutto è come già accaduto, non potendo essere diverso da come già è. Non è solo il decoro ovviamente a produrre questa ecatombe del reale, ma anche la digitalizzazione dell’esistente che, trasformando ogni cosa in dati, dovendo per sua natura stessa trasformare ogni cosa in dati e quindi in previsioni, non tollera l’alea e le sfrangiature dell’umano. Nel contesto urbano questo duplice fenomeno (decoro e sicurezza più digitalizzazione) assume la forma della sorveglianza, sia della sorveglianza delle istituzioni sui cittadini, sia di quella reciproca, orizzontale, tra cittadini.

Giulia, 2020: Siamo ormai più connessi che interconnessi, più animali social che sociali. L’online, più che ad una linea se vogliamo “democratica”, trasversale alle condizioni abitative, lavorative e di vita di ognuno, potremmo raffigurarla come una lama. Lama che trafigge ed esclude categorie che magari non dispongono di una rete internet o di un dispositivo personale per accedervi, o categorie che, magari, non appartenendo alla generazione dei nativi digitali, hanno difficoltà a utilizzare e comprendere le nuove tecnologie, permeandole di normalità. Inoltre, passando dal livello individuale al collettivo, è come se il Covid-19 ci avesse aperti a come usare “produttivamente” internet. Smart working, didattica online, mostre, spettacoli, videoconferenze e quant’altro. Perché credi che tutto ciò stia accadendo solo ora? Credi che l’apertura di queste realtà all’orizzonte di possibilità offerto da internet, stia risollevando o possa effettivamente risollevare la situazione, o piuttosto palesando ancor di più la “violenza meccanica e digitale” di cui accennavi?

Wolf, 2020: In un articolo dello scorso aprile, scritto ovviamente mentre ero come tutti chiuso in casa, proponevo, sulla falsariga di una considerazione di Gramsci sulla nascita dell’agricoltura, questa ipotesi: non è il lockdown che ha smaterializzato i rapporti umani, ma viceversa, sono le preesistenti condizioni di smaterializzazione (dettate dalle esigenze ideologiche e di profitto) che hanno reso possibile il lockdown. Una società in cui la presenza fisica risulta indispensabile in ogni passaggio produttivo deve giocoforza, per sopravvivenza, reagire diversamente a un’epidemia; la nostra ha potuto concepire un lungo e rigido lockdown perché quella presenza fisica non è più sempre indispensabile. Laddove è indispensabile (come per i facchini, i lavoratori dei supermercati eccetera), si sono non a caso utilizzate, anzi imposte, eccezioni. Questa premessa mi serve a chiarire che l’online non è una possibilità che ci viene offerta, quanto piuttosto un modello produttivo e sociale che ci viene imposto. Anzi, per dirla ancora più impersonalmente: che si impone. Poi ovviamente è del tutto legittimo considerarlo in modo integralmente positivo, ma credo sia proprio sbagliato vederlo come possibilità, e dunque libertà. È come il mangiare: può piacere tantissimo, a qualcuno pure troppo, ma non è una scelta libera il farlo.

La vita online, tradendo tutte le ingenue aspettative degli anni pionieristici di internet, non è un’esistenza liberata. Non esiste anonimato (che era quello che si cercava nelle città, per tornare al nostro tema di partenza) e non si è realizzata neppure la più semplice di quelle promesse, ovvero quella della liberazione dalla burocrazia. Anzi: una frammentata e onnipresente burocrazia pubblica e privata pretende da noi qualcosa di digitale sempre più di frequente, forse anche più volte al giorno. Conferma il pin, controlla il conto, compila il modulo, fai la domanda, inserisci i dati. Prima della digitalizzazione le insistenze nei confronti del cliente o cittadino trovavano un limite nella capacità degli uffici di smaltire le pratiche; ora questo limite viene costantemente superato, e a sopportarne la fatica è l’utente finale. Che però non può appellarsi a nulla, perché ha sicuramente sottoscritto digitalmente mille volte un testo che dice che è lui o lei a volere il tale servizio, e che lo ha voluto liberamente… Il che è una beffa. Perché appunto, per tornare al punto, la vita online è la vita che ci troviamo a vivere, non che “scegliamo”. Che nell’online si riproducano le ingiustizie dell’offline diventa evidente, una volta che si sia infranta l’illusione ottica di considerare l’online una libera scelta. Viviamo in una società segnata dall’ingiustizia e dalla prevaricazione, in base a quale strana alchimia mettendo online un pezzo di questa società essa dovrebbe diventare più giusta? Non si cambia la società a partire dai suoi esiti, ma semmai, sempre che sia possibile cambiarla, dai suoi presupposti.

Questa mano può essere ferro e può essere piuma”

Giulia, 2020: Dopo l’ennesimo dpcm di quest’anno, con annesse restrizioni, esco di casa: piazze chiuse (quale senso attribuire ad un qualcosa privato del suo significato intrinseco?), persone che anticipano il loro sacrosanto aperitivo alle 16, senza fissa dimora che se la vivono come sempre, panchine e sedie con cartelli “lascia libero questo posto, questo è il tuo posto”, bambini che sembrano immuni e si rotolano a terra: si sta trasformando la città o è soltanto un adattarsi temporaneo quanto un dpcm? Come ti aspetti che cambino le dinamiche e gli interventi urbani?

Wolf, 2020: Non ho una risposta. Posso solo dire che ho notato anche io quel cartelli “qui puoi sederti” e là invece no; ho apprezzato, per così dire, gli avvisi sulle toilette che spiegano con patetici pittogrammi come lavarsi le mani, come se mia mamma non l’avesse già fatto quando avevo meno di due anni, e salivo su uno sgabello tendendo le manine al rubinetto, cogliendo l’occasione per schizzare un po’ d’acqua attorno (e come se non avessi fatto lo stesso io con mia figlia decenni dopo). Questo Stato mamma e papà quanto durerà? Potranno rinunciare i nostri politici e tutori a questo inebriante ruolo che si sono conquistati? Alcuni di loro ci si trovano benissimo, e non molleranno facilmente la presa. Anche questo fenomeno comunque è precedente: il decoro è stato infatti anche un’infantilizzazione e uno stato di minorità imposto alle persone con regole e regolette sempre più stringenti. Pensa al divieto di mangiare un panino in certe strade di Firenze, o al dress code previsto dalla stessa amministrazione («il tuo abbigliamento deve essere decoroso», non solo in chiesa ma «in tutta la città», diceva fino al 2019 un avviso sul sito istituzionale). Quindi posso testimoniare che l’infantilizzazione, il controllo minuzioso sul corpo e sulla postura precedono il virus, e non saprei dire per quanto tempo lo seguiranno. Forse un giorno diventeremo adolescenti e ci ribelleremo. Ovviamente lo faremo in modo irrazionale: a forza di essere trattati come bambini stupidi il discernimento si ottunde.

Giulia, 2022: È da poco uscito per Eris il tuo ultimo contributo saggistico Perché non si vedono più le stelle. Inquinamento luminoso e messa a reddito della notte, in cui allacci ai temi di decoro e securitarismo un argomento in più, una trovata istituzionale in più: il dominio della notte e la scomparsa del buio. Mi viene in mente un’immagine che da piccola mi colpì molto: Peter Pan che inchioda la sua ombra per non farla scappare. Lessi, più tardi, che il cercare l’ombra sarebbe idealmente un cercare se stessi. Da allora penso all’ombra come ai nostri avanzi di buio esposti alla luce del giorno. A partire da quando la luce ha ecceduto il lume diventando continuo e dannoso abbaglio, funzionale al gioco securitario e di mercato? A chi è venuta l’idea di mettere a reddito perfino la notte e di permetterci la visione delle stelle solo dalle foto di un satellite?

Wolf, 2022: È semplicemente la storia dell’espansione capitalistica. Prima si estrae tutto il valore possibile dal “giorno”, cioè per esempio dal lavoro produttivo in fabbrica, o negli uffici. Una volta che lo si è fatto gli incrementi di valore che si possono ottenere non bastano più a soddisfare gli appetiti degli investitori, e quindi bisogna espandere la frontiera. La frontiera del tempo, in questo caso. Così inizia la valorizzazione del tempo del non-lavoro, del cosiddetto “tempo libero”, compresa la vita notturna nelle città illuminate della Belle Époque. Oggi quella frontiera è talmente espansa da scontrarsi con i nostri determinanti biologici: l’amministratore delegato di Netflix pare abbia detto che il più temibile concorrente dell’azienda è il bisogno di ore di sonno delle persone. Quindi, toccati questi limiti, il capitalismo dove si espande? Il tempo lo ha occupato interamente, la Terra l’ha scavata, disossata, spolpata e avvelenata in ogni luogo. Non gli resta che rivolgere lo sguardo al cielo; e di lì origina tutto il parlare e il trafficare odierno attorno a satelliti e viaggi spaziali, e tutte le mitologie e ideologie che vi sorgono attorno, o che attorno a essi vengono riattualizzate, tipo le eterne scemenze sul “bisogno innato di esplorare”, che sì certo è innato, ma che è ampiamente equilibrato dal bisogno innato di restare, di cercare certezze, stabilità… Certezze e stabilità che invece il capitalismo in questa sua nuova folle corsa espansiva non può certo concedere. E se il capitalismo rivolge il suo occhio voglioso al cielo, e vi stende la sua mano rapace, è chiaro che a noi semplici deve essere impedito persino di guardare il firmamento nel suo (non più) eterno splendore. Chi vuol vederlo più o meno com’era prima paghi il biglietto: che sia un biglietto per un luogo dell’ “astroturismo” o che sia il biglietto per un viaggio sulla stazione spaziale. Da cui, ci si può giurare, “la stellata è inimmaginabile”. Cioè è proprio come era da qui, appena pochi decenni fa, prima di questa ennesima, estrema, espropriazione, furto, confisca.

(tutte le immagini da commons.wikimedia.org)

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