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Cos’è questa infanzia? Al Teatro Laura Betti i 100 anni di Mario Lodi

di Nella Califano

100 anni e tr3 giorni/ 100 e 3 Maestri – Ritratto di Mario Lodi, la tre giorni dedicata a Mario Lodi nei cent’anni della sua nascita è il primo di tre focus sui Maestri del Novecento (svoltasi dal 12 al 14 dicembre dell’anno appena trascorso, mentre i prossimi appuntamenti saranno dedicati a Don Milani e Alberto Manzi), quelli che con umiltà e coraggio hanno contribuito a delineare un nuovo volto della scuola italiana, o meglio, hanno cercato di porre l’attenzione sullo scollamento tra scuola, infanzia ed educazione, suggerendo nuove pratiche di insegnamento. Il progetto, in cantiere già dal 2020, anno del centenario di Gianni Rodari, che purtroppo non si è potuto festeggiare né in teatro né altrove per via dell’emergenza pandemica, nasce grazie ad ATER Fondazione e al Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno nell’impellenza di trovare risposte a domande importanti: perché e come ci si rivolge all’infanzia? E cos’è questa infanzia?

Si tratta di questioni sulle quali si è spesso cercato di fare il punto e che diventano (o dovrebbero diventare) imprescindibili quando ci si rivolge alle nuove generazioni come studiosi, come artisti, come operatori, come critici e come politici. L’interesse di un progetto come questo sta nel fatto che ci si interroga a partire dalla concretezza di un percorso, quello di un maestro, che insieme ai bambini e alle bambine scopre, impara, sbaglia, riformula. Tutti i “dovremmo dire” e i “dovremmo fare”, tipici di un pensiero astratto scollato dalla realtà, crollano miseramente di fronte all’esperienza vera e senza filtri della classe caotica e disordinata, curiosa e impaziente che va osservata, ascoltata, compresa, accolta.

Patrizia Ghedini e Cira Santoro di ATER Fondazione, seguite dall’intervento della delegata alla cultura del Comune di Bologna e Area Metropolitana Elena di Gioia, inaugurano la tavola rotonda dal titolo Il paese sbagliato, tratto dall’omonimo testo di Mario Lodi, moderata da Elisabetta Tola, conduttrice di Radio 3 Scienza. Gli interventi dei relatori sono intervallati dalla lettura di alcuni brani tratti dai testi del maestro di Vho da parte dell’attrice Marinella Manicardi, come per riportarci continuamente alla concretezza di quell’esperienza educativa. Durante una di queste letture ascoltiamo il resoconto di una giornata di scuola ed è subito chiaro che solo grazie alla capacità del maestro di ascoltare i bambini e le bambine una piccola finestra può diventare un occhio sul mondo esterno per fantasticare sulle forme delle nuvole o i rumori di un temporale. Al contempo però, ci sentiamo spesso incapaci di attuare quella stessa pratica di ascolto che tanto ci affascina e commuove. Siamo consapevoli che la strada giusta sia proprio quella, ma non sappiamo percorrerla.

Questo accade perché relazionarsi con infanzia e adolescenza non è semplice. Prevede la capacità di entrare in relazione e comprendere profondamente un mondo che non ci appartiene più. Che fare? La tavola rotonda si definisce intorno a parole chiave e quella che sembra generare tutte le altre è proprio ascolto. I bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, hanno bisogno di essere ascoltati e di trovare uno spazio in cui potersi ascoltare gli uni con gli altri. «Stanno al gioco solo a queste condizioni», ricorda Federica Zanetti, docente presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna e solo a queste condizioni possono funzionare i progetti pensati per loro. Simona Pinelli, assessora alle politiche giovanili del comune di Casalecchio di Reno ricorda l’importanza di cercare i giovani “fuori”, in luoghi periferici e non convenzionali, e di entrare in confidenza con il loro linguaggio. Ma quali sono questi luoghi? Rosy Nardone, docente presso il Dipartimento di Scienze Dell’Educazione dell’Università di Bologna e membro del Centro di ricerca su Media e Tecnologie, apre una questione fondamentale: esistono pochi spazi per i ragazzi e le ragazze o invece ce ne sono molti che noi non conosciamo e non frequentiamo, come il web? E perché diamo per scontato che il web sia un posto peggiore di quello in cui loro si trovano a vivere, creando una dicotomia irrisolvibile tra la “loro” realtà e la “nostra” realtà? E ancora: perché demonizzare il digitale privando i giovani di un loro diritto alla conoscenza e alla scoperta piuttosto che promuovere un’alfabetizzazione a questi linguaggi? Ma in fin dei conti (e qui ritorniamo alla domanda iniziale) cosa sappiamo davvero dei giovani, dei loro desideri, dei loro bisogni, se continuiamo a giudicare, a vietare, ad essere sordi alle loro richieste?

Ormai dovremmo sapere che «ognuno cresce solo se sognato», come ricorda attraverso le parole di Danilo Dolci, altro grande maestro, Federica Zanetti, che si occupa anche di cittadinanza attiva, e infatti aggiunge che la scuola stessa può diventare luogo delle cittadinanze negate. Questo è certamente uno dei grandi temi dal quale è scaturita l’urgenza di rivolgersi alle esperienze dei Maestri, coloro che hanno cercato di contrastare questa tendenza con l’osservazione, con l’ascolto, ma anche con la passione. Passione sentita e trasmessa. Rosy Nardone, continuando il discorso relativo al web come strumento di conoscenza e di creazione, spiega come questo si riveli un’opportunità per sperimentare proprio quella passione che purtroppo non viene innescare altrove, neppure a scuola. I giovani, prosegue la Nardone, sostano con piacere dove non sono solo consumatori, ma anche produttori. Un esempio per tutti è quello dei “meme”, cioè delle immagini utilizzate per sintetizzare un argomento e creare nuovi significati. Un prodotto, tra l’altro, democratico, perché privo di una proprietà intellettuale e modificabile da chiunque voglia riutilizzarlo. A proposito di passione e digitale lo stesso Gianni Rodari, per esempio, si è confrontato con le nuove tecnologie: in un mondo in cui ormai si stava diffondendo, tra le altre novità, l’utilizzo degli elettrodomestici, si rendeva conto che a scuola accanto ad attività manuali se ne dovessero proporre anche di più “elettrizzanti”, più vicine alla direzione in cui la società stava andando. Il diritto al digitale diventa dunque sacrosanto perché dalla curiosità di esplorare nascono domande, dalle domande nasce la ricerca ed educare alla ricerca è il più alto obiettivo che la scuola possa porsi.

L’incontro prosegue con gli interventi di Daniela Dalla e Anna Caratini, per la relazione tra nuove generazioni e arte, e con Ketty la Serra e Giovanni Amodio per il settore scuola. A partire dalle loro esperienze con infanzia e adolescenza i relatori riflettono sull’importanza di costruire percorsi dedicati ai giovani ascoltando i loro bisogni, cercando di comprendere i loro disagi e provando a intervenire con progetti di senso. Non mancano le testimonianze di chi contatta quotidianamente infanzia e adolescenza attraverso uno strumento che permette di svelarne un’immagine del tutto diversa da quella che restituisce la scuola o la famiglia stessa: stiamo parlando di chi si occupa di teatro costruendo spettacoli e conducendo esperienze laboratoriali. Quello del teatro è davvero un capitolo a parte, per il fatto stesso di essere un luogo in cui tutto è possibile, uno spazio e un tempo in cui poter sperimentare emozioni fortissime e trasformative, ma restando al sicuro. Il posto in cui non sono io, ma sono io nel modo più intenso e più vero che esista. Il luogo della scoperta di sé e degli altri. Non è un caso se fare e vedere teatro siano pratiche ormai consolidatissime anche a scuola, perché diventano strumenti efficaci dal punto di vista dell’apprendimento e soprattutto della gestione dell’universo emotivo.

Bruno Cappagli del Teatro Testoni Ragazzi – La Baracca porta l’attenzione sull’importanza del teatro come spazio da abitare, ma soprattutto come spazio in ascolto, raccontando dell’esperienza del The Egg Theatre di Bath, in Inghilterra, nato dai suggerimenti dei bambini e delle bambine coinvolti nella realizzazione dell’edificio, che, per loro desiderio, prende la forma di un uovo. Un progetto che, tra l’altro, ricorda quello menzionato all’inizio dell’incontro da Elena di Gioia: il Museo dei Bambini e delle Bambine sorto di recente a Bologna, nel quartiere Pilastro. Si tratta di un polo culturale dedicato all’educazione, alla conoscenza e allo svago, rivolto a bambini, bambine, scuole e famiglie, il cui lavoro di progettazione è stato supportato da un percorso di ascolto della comunità e soprattutto dei più piccoli, condotto dalla Fondazione per l’Innovazione Urbana.

Vittoria de Carlo, direttrice artistica del Teatro per l’Infanzia e la Gioventù del Teatro dell’Argine, nel ribadire l’importanza di dare voce ai giovani, racconta del progetto “Cos’è quella cosa che…”. Dopo “Le parole e la città” e “Futuri Maestri”, due percorsi nati dal desiderio di far convivere teatro, cittadinanza, poesia, e spettatori, quest’ultimo progetto è un’indagine esplorativa su ciò che emoziona e considerano arte oggi i ragazzi e le ragazze dagli 11 ai 13 anni di Bologna e di tutta la Città metropolitana. L’idea nasce dall’esigenza di mettersi in ascolto dei preadolescenti, che oggi più che mai, dopo una pandemia che ha stravolto le loro vite, hanno bisogno di far sentire la propria voce. Un incontro denso, dunque, che a partire dalla figura del maestro Mario Lodi ha tentato di raccontare qualcosa della relazione tra educazione, scuola, arte e nuove generazioni.

Al termine della tavola rotonda ad aspettarci al Teatro Laura Betti di Casalecchio ci sono diverse classi di una scuola primaria accompagnate dalle loro insegnanti per una doppia esperienza: guardare uno spettacolo di teatro e guardarlo di sera. Lo spettacolo, dedicato a Mario Lodi e, in particolare, a uno dei suoi testi più famosi, Cipì, è una co-produzione di Teatro Evento e Zaches Teatro. L’idea nasce dal desiderio di raccontare l’esperienza del maestro di Vho, interpretato da Giorgio Scaramuzzino, rileggendo Cipì, diventato un classico della letteratura per l’infanzia. La musica e il linguaggio del teatro di figura, in cui si cala la narrazione del protagonista, ricreano un’atmosfera onirica e giocosa, a tratti nostalgica e malinconica, come quando si pensa, seppur con il sorriso, a qualcosa che non c’è più nella stessa forma di un tempo, ma che sappiamo presente e vivo. In questo mondo al limite tra il reale e il fantastico, il presente e il passato, Mario Lodi si aggira tra i banchi di una classe vuota ma animata da presenze (reali? immaginate?). Sono i suoi bambini e le sue bambine, i veri autori della storia di Cipì. Il famoso passerotto curioso del mondo insieme ai suoi compagni di viaggio prende vita, salta fuori, inarrestabile, dai fogli che contengono la sua storia.

Sono decine di pagine preziose da mettere insieme per ricostruire il racconto inventato dal maestro e i suoi piccoli, per questo il protagonista le cerca affannosamente, le ritrova, ma poi le perde, le sparpaglia sul pavimento tra la gioia, la confusione, il desiderio di rivivere una storia, che non è solo quella delle avventure di Cipì, ma è la sua. La storia di giornate passate a osservare fuori dalla finestra, ad appuntare, a ragionare, a inventare. Luana Gramegna e Giorgio Scaramuzzino hanno cercato di realizzare una drammaturgia che potesse portare l’attenzione sulla relazione tra Lodi e i bambini e le bambine che lo hanno incontrato. Non a caso la storia che viene ripercorsa è quella di Cipì, un personaggio nato dalla fantasia di alunni e alunne di una piccola scuola di campagna che, stimolati a ricercare, a creare, a osservare, hanno inventato un racconto in cui potersi riconoscere affidando al protagonista i loro desideri: prendere il volo e viaggiare alla scoperta del mondo, affrontare i pericoli, superarli e diventare grandi.

Questa tre giorni dedicata a Mario Lodi e alla sua esperienza di Maestro non poteva chiudersi se non con il volo di Cipì. Non è questo incoraggiare a spiegare le ali, in fondo, il compito dell’educazione?

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