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Codex Seraphinianus

C’era una volta il futuro. L’Oroscopo della danza

di Anita Fontana

La sala di Teatri di Vita che ospita “Oroscopo 2022” (svoltosi a Bologna dal 28 al 29 novembre) è scura ma accogliente, illuminata con luci calde. A terra un unico cuscino forma un cerchio su cui sono poggiati dei cioccolatini dorati, in sottofondo si sente la voce profonda di Nina Simone.

L’organizzatore Marco D’Agostin illustra il tema generale della due giorni di dialoghi e conversazioni: il Futuro. La “convocazione per gli stati generali della danza” riscrive il suo obiettivo: rispettare e porre al centro i bisogni e i desideri che ciascun partecipante sente di dovere e potere condividere con gli altri. In questa edizione, diversamente dalle precedenti, è il dialogo ad essere anteposto all’ascolto degli interventi di ospiti esterni. I partecipanti di Oroscopo sono principalmente artisti e performer, che si prestano però alla discussione sui temi più svariati, che sorgono in modo spontaneo e libero e che riguardano il mondo di tutti noi. L’organizzatore dell’evento spiega le “regole del gioco” che vengono rotte e ridisegnate nel corso della mattinata. Ognuno pone delle domande a cui gli altri possono reagire con altri interrogativi oppure utilizzando il jolly risposta. La seconda carta speciale si chiama tsunami e serve ad intervenire in modo incisivo sulla discussione, per invertirne in qualche modo le sorti. Le prime domande sono scollegate fra loro, creano delle «isole su cui ci si sofferma per poco tempo» come le definisce D’Agostin. «Come state?», «Vi piace la pioggia?», «Quanto tempo hai impiegato a venire?», «Forse potremmo parlare di sciopero del senso compiuto?». Ecco la prima domanda che isola una parola. Senso crea una piccola cascata di interrogazioni e pensieri ad essa legati. Che cos’è il senso? È soggettivo, diverso per ciascuno o c’è qualcosa che ha senso per tutti? Qual è il senso di un bacio? Il bacio può fermare il tempo?

«Sono in un locale e c’è questa musica bellissima, io mi muovo pian piano e vedo, fra le luci, un ragazzo che si avvicina a me. Io continuo a ballare, sento la melodia. Il ragazzo mi raggiunge e mi bacia. È stato il bacio più bello della mia vita. Sì, l’ho fermato il tempo». «Non ha forse più senso questo di tante altre cose?» interviene Maddalena Fragnito, una delle ospiti del pomeriggio che partecipa alla mattinata assembleare, mangiando uno dei cioccolatini («cosa aspettate a mangiarlo?» provoca un altro partecipante).

Le domande sorgono secondo la regola fino a che uno tsunami porta l’assemblea per qualche minuto nella “sala conviviale” del teatro dove abbiamo cinque minuti di tempo per presentarci fra noi. (Nessuno mi chiede quanti anni ho o mi domanda il motivo particolare per cui sono lì, elemento che mi stupisce, posso definirmi come voglio).

Una volta ritornati nella sala teatrale il formato domanda-domanda-jolly-se-vuoi viene interrotto. Non ci sono regole, ognuno è libero di esprimere ciò che vuole, dire come sta, tacere. Le domande a cascata allora sono sostituite da una conversazione nel senso classico del termine, in cui ognuno esprime la propria opinione.

La rinnovata assemblea disegna una nuova isola che ruota attorno al tema del senso, questa volta riguardante la domanda «Come stai?». Ci sono la rabbia e la delusione di vedere la busta di una tisana parlare di felicità come fosse una cosa facile e scontata, da trovare dentro di noi. Ma c’è anche il piacere della rabbia, il piacere di condividere qualcosa con altri. Sono alcuni dei “salvagenti” che ci salvano, a volte divertenti come le paperelle buttate dai protestanti in piazza San Marco a Venezia, in risposta contro la lobby delle grandi navi.

L’isola emersa più estesa però ruota attorno al tema del pubblico. Per qualcuno è sinonimo di spazio pubblico, che si può condividere con altre persone e che non implica la fruizione personale tipica dello spazio privato. Per qualcuno i mezzi, la scuola, gli ospedali sono il pubblico. Per altri è invece quello che sta di fronte al palco durante la performance, quello che durante la pandemia si vedeva in cartonato e che ora suscita angoscia e oppressione.

Pubblico è opposto a privato, ma anche a segreto, alla profondità della componente più interiore di noi stessi. È legato al concetto di esteriorità e superficialità secondo qualcuno. Al contrario, un partecipante di origine cilena ribatte che nel suo paese è sentito come il luogo fisico e metaforico dove si trova la salvezza, dove si cerca ciò che non è possibile trovare in casa propria.

Ma che tipo di relazione esiste fra queste due realtà? Può esistere l’una al di fuori dell’altra? La risposta negativa è quasi unanime. Il pubblico è un insieme di privati legati e dialoganti fra loro. Esiste un movimento bidirezionale fra le due parti che ne rende impossibile la scissione. Per qualcuno procede dall’interno verso l’esterno, dal privato al pubblico, per qualcun altro il senso è inverso. Il senso a volte si trova nella condivisione e nella relazione con gli altri, come nel caso cileno, per poi maturarlo e ripercorrerlo nella propria intimità. Per altri invece si raccoglie all’interno delle mura della propria casa interiore per poi condividerlo al di fuori. Ma chi guida questo movimento? Siamo noi liberi di gestirlo o è qualcuno fuori, si chiama qui in causa il potere, non meglio definito, che lo manipola in qualche modo e ne tiene le briglie? Senso, pubblico-privato, potere, libertà di agire e libertà di scegliere come farlo. È tutto frutto di una scelta o c’è qualcosa che non possiamo scegliere?

Le storie di Maddalena Fragnito parlano anche di questo, sono racconti di scelte di vita forti all’interno di uno spazio in cui pare non esserci possibilità di scelta alcuna. I protagonisti reinventano i confini fra pubblico e privato che sono stati disegnati da qualcosa o qualcuno che sta sopra di loro. Sono storie che parlano «di ribellione, di cura e di cure ribelli». Parlano di come lo spazio della regola può essere beffato dalla disobbedienza e dalla creatività. Non esiste il giusto modo di essere nel pubblico e nel privato. Il modo di vivere che altri vorrebbero per noi viene sostituito da uno atipico, più libero e spontaneo e dunque problematico. Le tre storie che propone Fragnito, “non sue” ma non scevre della sua invenzione, parlano del «possibile che è attualmente impossibile». Questo è il tema del futuro secondo lei. Le sue storie riportano a tempi e spazi che ora paiono “impossibili” ma che in passato sono stati possibili e che si deve sperare possano tornare tali in futuro.

“Acqua Tofana” è un’acqua speciale e potremmo dire “corretta” che è inodore, trasparente e incolore come l’acqua normale. Tofana è il cognome di Giulia, la sex worker italiana e assassina seriale del 1600 che propone la ricetta letale della pozione a qualunque donna voglia fuggire da matrimoni sgraditi, per non dire mortali anch’essi. Il veleno deve essere somministrato secondo precise dosi e provoca una morte «senza clamore», che non desti il minimo sospetto. Chi lo adotta come estremo rimedio sono le future vedove che scelgono consapevolmente di diventarlo.

Giulia risponde alla violenza del patriarcato con una pozione che «cura la pelle per salvarsi la pelle» e tenta di distruggere un sistema. Giulia la scampa una volta ma non la seconda. Viene processata, torturata e arsa nella stessa piazza in cui aveva bruciato Giordano Bruno. La rete creata grazie a Giulia è una rete invisibile, che non è nello spazio pubblico, reso inagibile alle donne dal sistema patriarcale. La sua è una «ferrovia sotterranea» di salvezza, in un’epoca in cui l’Inquisizione dava la caccia alle streghe e in cui le donne venivano «perseguitate con cura».

Di persecuzioni tratta anche la seconda storia, ambientata sull’isola tiberina durante l’epoca dei rastrellamenti delle SS a Roma. I medici dell’ospedale del luogo decidono di nascondere diverse persone fingendo che siano portatori del mortale morbo K. Le truppe non appena sentono i finti rantoli degli ammalati, preparati a recitare con estrema cura, si dileguano in tutta fretta. Anche qui i personaggi si reinventano, si costruiscono una nuova identità che serve loro per salvarsi la pelle. Diventano così registi, attori, falsari, escono dalla disciplina e instaurano una messa in scena per allontanare la violenza.

Uscire dall’ordinario quindi, come fanno gli abitanti di Alicudi una volta scoperte le proprietà allucinatorie della segale cornuta, così chiamata perché attaccata da un particolare fungo. Il popolo dell’isola comincia a ballare, cantare, volare, fa sesso al di fuori degli schemi prefissati all’interno dello spazio sociale. Alicudi sperimenta l’allucinazione collettiva e scopre un’altra forma identitaria e comunitaria.

Nel passato delle storie di Fragnito qualcuno, fra gli ascoltatori, percepisce l’insegnamento del futuro, quel qualcosa che arriva sotto le vesti di altro, passando attraverso l’indisciplina e la creatività. Queste storie sono definite «interspecie», parola che pare tornare anche nel pensiero di Ginevra Bompiani, secondo cui urge cambiare il soggetto etico delle nostre riflessioni per potere pensare e avere una nuova prospettiva. Non più solo l’uomo, ma l’uomo in mezzo ad altre specie, circondato da altri modi di vivere e comunicare. La scrittrice e saggista anticipa la natura deprimente del suo discorso. Non è riuscita a trovare altre parole per descrivere un futuro che fatica addirittura a prospettare davanti agli occhi. Il nostro mondo, dice, ha perso i colori, l’immaginazione e la memoria. Elementi senza i quali si perde il futuro e si rimane nel marcescente presente in cui ci troviamo a vivere. Non dobbiamo certo contentarci del nero, ma occorre riscoprire e percepire i colori sotto all’oscurità che li ha coperti. Per Bompiani la causa del nero dei nostri giorni è ben chiara, si chiama libero mercato e sta portando avanti, con successo, una guerra contro la vita. La morte violenta, per mano di qualcun altro, ha interamente sostituito la morte naturale e la vita nella narrazione quotidiana. I nuovi libri sono ormai tutti gialli che non parlano d’altro che di omicidi. Le due grandi forze, secondo Bompiani, sono il mercato e la sopravvivenza.

Non si parla di vivere quindi, ma di sopravvivere. I corpi privati di identità rischiano di abbandonare completamente la lotta per la vita, che è l’unica cosa a cui dobbiamo tendere per avere un domani. «Se ci batteremo per lei con la forza della mente e del corpo allora avremo un futuro». Queste le parole finali di Bompiani che insiste sul bisogno di rinunciare al potere, alla violenza e alla vittoria per potere assicurare un futuro al genere umano. L’esempio è ancora una volta nella storia, questa volta senza invenzione. Alcuni studi, principalmente femminili, portano alla luce come le società matrilineari (non matriarcali) erano organizzate attorno all’autorità (non al potere) delle nonne e come le loro città non possedessero mura e neppure armi. Una società e una città (cose pubbliche) composte da comunità di persone che si organizzano attorno all’autorità delle nonne (una classificazione parentale dell’ambito privato), che sperimentano un modo diverso di vivere, per noi potremmo dire quasi alieno. Come sarebbe ora una società di questo tipo? Sarebbe pensabile o verrebbe percepita solo come un’illusione? Ma non è l’illusione forse il salto nel vuoto e verso l’altro che ci spinge ad immaginare il possibile attualmente impossibile?

Le immagini presenti in questo articolo sono tratte dal “Codex Seraphinianus”

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