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foto di Roberto Ventruti
foto di Roberto Ventruti

Anita o gli universali della Storia

di Valerio Romitelli

Questo articolo è esito del laboratorio “Per uno spettatore critico”, organizzato da Altre Velocità durante VIE Festival 2022.

Da Bertold Bercht a Heinrich Müller, da Karl Kraus a Dario Fo: questi i nomi che inevitabilmente vengono in mente allo spettatore di Anita o l’accademica degli inesistenti, andato in scena a Bologna il 23 ottobre scorso al teatro della Parrocchia di Nostra Signora Della Fiducia Bologna. Ma conoscendo la biografia dei due drammaturghi esordienti, Claudia Pozzana e Alessandro Russo che hanno concepito lo spettacolo non si possono anche citare nel pantheon dei loro riferimenti due personaggi forse inattesi: da un lato, Chiang Ch’ing, l’ultima moglie di Mao, figura di spicco specie in campo teatrale della rivoluzione culturale cinese, dall’altro, quel filosofo più tradotto al mondo, Alain Badiou, che non solo ha dedicato più saggi teorici al teatro, ma a suo tempo si è anche esercitato come drammaturgo con La sciarpa rossa (1979) rappresentata anche in Italia, oltre a dar vita ad un ciclo di pièce dedicate al personaggio di un immigrato ribelle Ahmed. Pozzana e Russo sono in effetti tra i maggiori studiosi planetari della Cina specie dell’epoca della rivoluzione culturale, ma si sono anche impegnati a tradurre e far conoscere l’opera di Badiou in Italia. Aggiungendo di passaggio che la prima è anche poetessa e il secondo anche noto cultore di Dante.

Due dati biografici che come vedremo giovano a capire la ricchezza delle fonti ispiratrici di questa Anita. Una pièce, tanto densa e intensa da saltare certamente all’occhio nel panorama teatrale contemporaneo, in cui non sono certo molte le drammaturgie elaborate a partire da approfondite ricerche storiche. Dettaglio che contribuisce a renderla un’opera veramente degna di nota è oltre tutto il fatto che il suo testo è scritto addirittura dall’inizio alla fine in versi rimati. Un dettaglio che lungi dal risultare esercizio manieristico, conferisce ai dialoghi un ritmo e un tono sorprendenti, per di più elegantemente accompagnati da una colonna sonora tratta da musiche di Béla Bartók.

Altra nota di merito di questo spettacolo sta nel fatto che la regia è stata affidata al Laboratorio teatrale (la Compagnia degli immanenti) diretto da quella grande maestra di teatro che è Marina Pitta. Il suo tocco è ben riconoscibile non solo nella vivacità gestuale di ogni scena, ma anche nell’intonazione quasi sempre convincente della recitazione: a volte commovente, a volte enigmatica, a volte sarcastica. D’obbligo qui è segnalare la performance dalla protagonista Cristina Monti, ma anche di Claudia Soffritti, impersonante una sorta di capricciosa e imprevedibile lady Macbeth, di Marcello Soli nei panni del sovrano “democratico” Augustus e Carla Lama, ministra della polizia detta “custode dell’armonia”. A tutta la nutrita compagine di attori (più di una trentina, non tutti già esperti) va del resto riconosciuta una notevole capacità di sapere tenere la scena in modo mai banale. Rarissime e ininfluenti le cadute di tono.

Di che tratta dunque questo spettacolo per altro dalla durata non breve, di più di tre ore? Lasciamo qui la parola alla presentazione fornita dagli stessi autori e dal laboratorio di Marina Pitta:

«Anita o L’accademica degli inesistenti è un “trittico” nel quale tre gruppi di personaggi si incrociano a distanza, senza mai comporre una scena unitaria. C’è un gruppo di giovani operai di un paese qualunque oggi, i quali promuovono pubblicamente la difesa di alcune operaie ingiustamente arrestate. Di fronte alla scarsa solidarietà suscitata dal loro appello, decidono di organizzare in modo indipendente il loro studio teorico. Ci sono poi sei vecchi signori, inizialmente chiusi in una soffitta, dove rimuginano antichi quesiti teorico-politici e commentano anche attentamente la situazione attuale, ma con divergenze notevoli fra loro. Infine, c’è una compagine governativa, appena giunta al potere, ma già attraversata da faide e complotti tra fazioni mutevoli, capaci di alternare la farsa alla ferocia. Anita, ispirata da ciò che ascolta, non vista, nella soffitta dei vecchi signori, guida la crescita soggettiva del gruppo di operai, i quali come lei sono inizialmente sguarniti di riferimenti intellettuali e politici. I giovani amici, ai quali si uniscono successivamente degli operai-poeti, fondano un’“Accademia degli Inesistenti”, ma incontrano la crescente ostilità, sia della direzione della fabbrica sia del governo. Anita e i giovani operai, anche se riescono a resistere alle manovre repressive, vengono coinvolti a loro insaputa negli scontri tra le fazioni governative e infine vengono messi fuori legge. Nel momento della massima difficoltà, quando l’Accademia è costretta alla fuga e all’esilio, Anita si reca nella soffitta a chiedere consiglio ai vecchi signori, ma incontra questa volta il loro rigoroso silenzio. Nel monologo finale, accompagnata dal Coro, Anita dichiara di non voler cedere negli intenti di pensiero che l’Accademia si è preposta».

Nessuna osservazione critica dunque? Volendo proprio trovare il pelo nell’uovo ci si potrebbe sentire tentati di fare qualche appunto all’impianto speculativo che regge tutta la pièce. Più precisamente si potrebbe avanzare una riserva di gusto a proposito di una certa idealizzazione delle tre dimensioni, operaia, teorica e governativa rappresentate in Anita. La voluta assenza di riferimenti temporali e spaziali (è assolutamente escluso sapere dove e quando si svolge l’azione) suggerisce certo che il nostro presente (cui le allusioni sono comunque continue) non fa che ripetere problemi da sempre irrisolti: lo sfruttamento, il dispotismo, la ricerca anche intellettuale di alternative all’ingiustizia sociale. Ma resta che ognuna di queste dimensioni porta gli inequivocabili segni di una storicità singolare. La figura degli operai messa in scena fa infatti pensare a operaie e operai d’epoca fordista, quelli che in Italia sono stati protagonisti degli anni Sessanta e Settanta. I sei vecchi signori ( tra i quali si possono intuire vaghi riferimenti a Marx, Lenin e Mao) hanno invece l’aria quanto mai arcaica e i toni enigmatici da monaci medioevali. Mentre i governanti, nonostante nel loro lessico ricorrano terminologie contemporanee come democrazia e governance, nonché richiami a conflitti del tutto attuali tra l’”impero d’occidente” e l’”impero d’oriente”, ricordano ambienti delle corti monarchiche tra il XVI e il XVII secolo. Così l’interazione tra queste tre dimensioni risulta appunto più idealizzata e didascalica, al limite del favolistico, che politicamente mordente. Si prenda ad esempio la fine di tutta la vicenda – un rastrellamento che costringe ad una fuga senza meta, forse addirittura all’espatrio, i protagonisti “inesistenti”; una conclusione inevitabilmente mesta che comunque invita implicitamente lo spettatore alla prossima puntata delle loro avventure. Ma oltre a essere così celebrata la memoria dei “gloriosi” anni attorno al Sessantotto, Anita lascia poco o nulla da intuire su come, su quali nuove condizioni soggettive, intellettuali e pratiche potrebbero ridare vita tali avventure.

Resta che ovviamente niente obbligava Russo e Pozzana a orientare in tal senso la loro comunque eccellente opera.

L'autore

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2 risposte

  1. Che dire…
    Un grande incoraggiamento per l’impegno che tutti abbiamo messo nel realizzare “Anita”.
    Grazie,
    dal poeta operaio n°2

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