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Frankenstein_diptych foto di Cosimo Trimboli
Frankenstein_diptych foto di Cosimo Trimboli

POOR THINGS! Intorno a “Frankenstein_diptych” di Motus

di Vittorio Lauri

Dal 22 al 26 ottobre 2025 al Teatro Vascello di Roma per RomaEuropa Festival sono andate in scena le due sezioni del Frankenstein di Motus, che insieme formano Frankenstein_diptych: un dittico che affronta uno dei più celebri romanzi gotici dell’Ottocento attraverso una lente attuale e emotiva.

Non è difficile, per chi conosce anche solo marginalmente il percorso di Motus negli ultimi anni, immaginare le motivazioni che potrebbero aver attirato Daniela Nicolò e Enrico Casagrande a lavorare su Frankenstein di Mary Shelley.

Un percorso, quello di Motus, che si sviluppa ultimamente sopra e intorno al palco. Sopra al palco con il filone appena precedente Frankenstein_diptych ovvero Tutto Brucia (2021) e i suoi due spin-off You were nothing but wind (2021) e Of the nightingale I envy the fate (2022), intorno al palco con le direzioni artistiche di Supernova (dal 2023 a Rimini) e della speciale edizione di Santarcangelo Festival 2050 (2020-2021).

A partire da queste azioni, direttamente o indirettamente spettacolari, possiamo provare a riconoscere delle tendenze per vedere come, in uno sviluppo quasi naturale, la convergenza di diverse linee abbia portato ad un certo punto all’inevitabile incontro fra Motus e il romanzo Frankenstein di Mary Shelley.

Santarcangelo Festival 2050 (2020-2021) curato da Motus: EEE studio, Betty Apple “Signals from future”


(ABBIAMO FINITO I BUONI) SENTIMENTI

Sia gli ultimi spettacoli che il lavoro di direzione artistica descrivono in modo coerente un percorso che, attraverso mezzi e in contesti anche molto diversi fra loro, cerca di indagare alcuni specifici sentimenti umani: ne potremmo riconoscere in maniera abbastanza nitida, fra gli altri: rabbia, dolore (che sia nel senso di lutto in Tutto Brucia o di abbandono in Frankenstein), amore e odio.

Sembra quindi che la ricerca di Motus sia attratta in questi anni da storie, luoghi e personaggi da cui questi sentimenti strabordano in modo viscerale e universale. Se rabbia e lutto potrebbero essere le colonne emotive portanti di Tutto brucia – che vede tra i propri riferimenti principali Le Troiane nella versione di J. P. Sartre – amore e odio sono le chiavi di lettura intorno alle quale il romanzo di Mary Shelley viene scenicamente rimontato – già dai titoli delle due parti che compongono il dittico, a love story e history of hate.

Chi avrebbe detto che Frankenstein potesse essere considerata anche una storia d’amore? Qui sta una delle originali intuizioni di Motus, seppur in a love story – che ha debuttato nell’autunno del 2023 – forse questo aspetto non emerge in maniera così evidente, o meglio: è grazie all’accostamento contiguo con history of hate che l’amore risalta a posteriori in a love story. Una storia d’amore mancato, quello tra la Creatura assemblata dal dottor Viktor Frankenstein e l’umanità che lo respinge? Tra la Creatura e lo stesso Viktor? Può sembrare controintuitivo, ma è proprio grazie alla visione dei due spettacoli l’uno di seguito all’altro che per contrasto risulta limpido durante history of hate quanto a love story sia effettivamente pieno d’amore.

POVERE CREATURE

Un’indagine sui sentimenti che parte da lontano, in particolare dall’attrazione e dall’immedesimazione da parte di Motus per ciò che è ibrido, senza categoria, senza genere, fluido, liminale, sul bordo, ai margini, perché è lì che le domande più interessanti sulla natura stessa dei sentimenti si esaltano nella loro forza più esplicita.

Ed è anche una questione propriamente di forma, intesa in due significati diversi: da un lato la forma del mostro creato dal dottor Frankenstein, considerata socialmente non accettabile, brutta, e che fa del romanzo un archetipo da cui scaturiscono altre storie di freaks, da Elephant Man (David Lynch) e Edward mani di forbice (Tim Burton); dall’altro lato la forma che riconduce agli shapeshifter, figure mutaformi, meduse, spesso in coesistenza con elementi cyberpunk – tutto questo è stato un fondamento estetico delle edizioni 2020-2021 di Santarcangelo Festival intitolate non a caso “Futuro Fantastico” – che è nel suo insieme una metafora enorme di comprensione dell’oggi e per questo adottata da molta sociologia contemporanea. È nota la fascinazione da parte di Motus per questo immaginario, che rende poi sia il romanzo di Mary Shelley che lo spettacolo Frankenstein_diptych degli oggetti profondamente attuali e vivi. Non sorprende quindi come Daniela Nicolò e Enrico Casagrande abbiano trovato nella materia del Frankenstein sia delle affinità profonde sia l’urgenza e la necessità di raccontare questa storia nel presente che stiamo vivendo. Ed è forse la stessa urgenza che ha mosso il regista Yorgos Lanthimos a fare un film come Povere Creature – per quanto la matrice in quel caso non sia direttamente Mary Shelley bensì il libro omonimo di Alasdair Gray, che però di Frankenstein è praticamente una riscrittura.

In che modo avviene, questo impossessarsi del “materiale Frankenstein” da parte di Motus? Il dittico accosta due spettacoli profondamente diversi dal punto di vista stilistico, eppure in profonda continuità tra loro. A love story segue una certa linearità narrativa, seppur esce e rientra più volte dal e nell’intreccio diegetico del libro. Le linee, volutamente non distinguibili in ogni momento dello spettacolo, ma comunque riconoscibili nell’insieme, sono tendenzialmente tre punti di vista, articolati su due livelli (uno extra-testuale e uno intra-testuale): quello esterno alla trama del romanzo, impersonato da Alexia Sarantopoulou/Mary Shelley che si appresta a scrivere la sua opera e i due interni alla narrazione, che sono interpretati da Silvia Calderoni/dottor Viktor Frankenstein e da Enrico Casagrande/Creatura.

La scena presenta due alte parete mobili ad L, che si alzano e abbassano a seconda delle esigenze – da interni abbozzati al richiamo triangolare delle vette alpine e ghiacciai polari – e i personaggi si muovono attraverso tutta la superficie dello spazio scenico.

Frankenstein (a love story) foto di Lorenza Daverio

I due momenti più potenti e felicemente riusciti di a love story vedono entrambi la Creatura protagonista sul palco. La vediamo mentre indossa una maschera da “mostro” – la maschera che richiama il Frankenstein cinematografico del 1931 di James Whale con Boris Karloff – con un fiore in mano (dedicato al suo creatore? all’umanità che la respinge? al pubblico?) per poi liberarsi in un ballo volutamente sconclusionato sulle note post-punk di I love you del gruppo irlandese Fontaines D.C.. Ritroviamo la Creatura poco dopo, spogliata e senza maschera, in un intimo monologo: le parole della Creatura riverberano mentre sono pronunciate da Enrico Casagrande, in un affondo particolarmente efficace che intreccia il piano narrativo della Creatura e quello reale del regista-attore. Entrambe le immagini, la scena del ballo e quella dello spogliarsi della Creatura, restituiscono con forza la complessità emotiva del “mostro” e le sue parole – che potrebbero appartenere a chiunque – suonano come un sincero regalo: sono gli insegnamenti che la Creatura ha imparato attraverso l’osservazione di se stessa e degli esseri umani e le dona con generosa sofferenza al pubblico.

Il finale di a love story cambia un po’ nella versione del dittico rispetto a quella del 2023 e funge in questo caso da raccordo diretto con history of hate: il palco si riempie dei performer che indossano la maschera di mostro e oltre ai tre che hanno abitato lo spettacolo fino a quel momento ne compaiono due ulteriori, che ritroveremo dopo l’intervallo. Siamo forse tuttɜ povere creature?

I diversi livelli narrativi di a love story esplodono in history of hate: quello che prima è perlopiù raccontato, diventa visione concreta attraverso una esasperata multifocalità: la scena si apre con delle immagini proiettate su uno schermo in fondo al palco; già poco dopo però i punti di vista si moltiplicano in una riproposizione visiva che lavora per aggiunte, attraverso un meccanismo di videocamere che trasmettono in diretta sugli altri schermi presenti – e che potrebbe richiamare una modalità già usata da Motus in passato, ad esempio in King Arthur (2014).

Attraverso questo gioco ci viene raccontato l’incipit del libro, ovvero momento in cui il marinaio Robert Walton (Tomiwa Samson Segun Aina), che sta compiendo un viaggio di esplorazione nei pressi del Polo Nord, scrive in una serie di lettere alla sorella Margaret (Yuan Hu) raccontando di aver trovato un uomo in mare, ovvero il dottor Viktor Frankenstein, in uno stato di desolante miseria, impegnato nella ricerca e nell’inseguimento della Creatura.

La dinamica di “racconto nel racconto” – fondativa della struttura del romanzo – viene proposta scenicamente attraverso la scelta della moltiplicazione di visioni, restituendo la narrazione su più livelli grazie al quale nel libro scopriamo le vicende dei personaggi: il racconto che la Creatura fa a Viktor, quello di Viktor a Walton, le lettere di Walton alla sorella Margaret, quello di Mary Shelley a chi legge e infine quello di Motus al pubblico presente in teatro.

La scelta di rendere questi punti di vista – e quindi ogni soggettiva parzialità – attraverso la moltiplicazione di visioni è una scelta felice, seppur non gratuita: il risultato è senza dubbio caotico – seguendo il principio dell’accumulo, sia di oggetti che di prospettive – ma anche efficace, in quanto particolarmente aderente al corrispettivo letterario.

Il resto di history of hate si sviluppa sullo snervante e ripetitivo – nel libro come nello spettacolo – inseguimento del dottor Viktor Frankenstein della propria Creatura ed è qui che germoglia il sentimento di inguaribile odio – ampiamente corrisposto – fra i due, mentre un Robert Walton sempre più confuso cerca di apprendere qualcosa dall’assurda situazione in cui si trova accidentalmente, ma non passivamente, coinvolto.

Frankenstein (history of hate) da motusonline.com

FUTURO FANTASTICO

Sarà proprio l’odio il protagonista del prossimo lavoro della compagnia: [ÒDIO] (2026) è il titolo della nuova produzione che dovrebbe segnare il “movimento conclusivo” del progetto sulle mostruosità, orientato maggiormente verso le arti visive, come abbiamo appena visto nel “secondo movimento” a history of hate.

Un ulteriore elemento di fascinazione di Motus per Frankenstein risiede probabilmente nel riconoscere al romanzo un principio generativo di riferimenti molto cari alla compagnia. 

La citazione cyberpunk è addirittura testuale in a love story: “Cosa sogna un ragno cyborg?” si chiede Alexia Sarantopoulou/Mary Shelley con evidente rimando a Gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip Dick, racconto da cui è liberamente ispirato il Blade Runner di Ridley Scott.

A riguardo, la lettura critica che inserisce il romanzo di Mary Shelley nella fantascienza – o meglio nella sua genesi – è abbastanza popolata: Isaac Asimov, Ursula LeGuin, Brian Aldiss, anche se il tema è ampiamente dibattuto negli studi di settore, come testimoniano le opinioni contrarie di Lester Del Rey, Darko Suvin e anche Sergio Solmi nell’introduzione all’edizione italiana de Le meraviglie del possibile.

Questo legame con la fantascienza segna forse un ulteriore elemento di attrazione fra Motus e il romanzo di Mary Shelley, avendo l’opera numerosi appigli di convergenza con la pluridecennale ricerca teatrale di Daniela Nicolò e Enrico Casagrande.

Frankenstein_diptych affronta un classico della letteratura attraverso una precisa lente, effettuando un’operazione al cuore dell’opera Frankenstein e della Creatura assemblata dal dottor Viktor in modo da farne riverberare gli aspetti meno affrontati da altre rivisitazioni dell’opera – più attratte da aspetti estetici, gotici o romantici di hybris dell’uomo nei confronti della natura – ovvero i sentimenti che ne reggono l’intera vicenda: amore e odio.

Il dittico di Motus mette in scena quindi un romanzo già ricco di diversi elementi che rispondono alle esigenze scaturite dal percorso artistico della compagnia, facendo emergere una propria lettura dell’opera e utilizzando i propri strumenti sia tecnici che teorici.

E non è forse esattamente questo, cioè il restituire di un’opera la sua natura più profonda facendola risuonare nella contemporaneità attraverso il proprio specifico punto di vista, il mandato principale che dovremmo richiedere ad un (riuscito) adattamento nell’era post-moderna?

Frankenstein (a love story) foto di Margherita Caprilli

Frankenstein (a love story)

ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Alexia Sarantopoulou, ed Enrico Casagrande
drammaturgia Ilenia Caleo
adattamento e cura dei sottotitoli Daniela Nicolò
traduzione Ilaria Patano
assistenza alla regia Eduard Popescu
scena e costumi Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande
disegno luci Theo Longuemare
ambienti sonori Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
grafica Federico Magli
video Vladimir Bertozzi
una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Festival delle Colline Torinesi, Kunstencentrum VIERNULVIER (BE) e Kampnagel (DE), residenze artistiche ospitate da AMAT & Comune di Fabriano, Santarcangelo Festival, Teatro Galli-Rimini, Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna
“L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale”, Rimi-Imir (NO) e Berner Fachhochschule (CH), con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna.
L’abito di Mary Shelley fu disegnato e indossato da Fiorenza Menni nello spettacolo “L’Idealista Magico”

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Frankenstein (history of hate)

ideazione e regia di Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
con Tomiwa Samson Segun Aina, Yuan Hu, Enrico Casagrande
in video Silvia Calderoni e Alexia Sarantopoulou
drammaturgia Daniela Nicolò
ricerca e collaborazione drammaturgica Ilenia Caleo
riprese e montaggio video per la scena Vladimir Bertozzi
ambienti sonori Demetrio Cecchitelli
assistenti alla regia Astrid Risberg e Juliann Louise Larsen
assistente al video Isabella Marino
scena e costumi Daniela Nicolò & Enrico Casagrande
direzione tecnica e fonica Martina Ciavatta
disegno luci e video Simona Gallo
tecnico video Theo Longuemare
una produzione Motus con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Snaporazverein (CH) e Romaeuropa Festival
residenze artistiche ospitate da AMAT & Comune di Fabriano, Sardegna Teatro e IRA institute
Contributo video dal film documentario [ÒDIO] vincitore dell’ITALIAN COUNCIL 2024

L'autore

  • Vittorio Lauri

    Nato e cresciuto a Fermo, attualmente vive a Bologna, dove ha conseguito la laurea in DAMS con una tesi sulla storia della musica dove cita sia Adorno che Charlie Charles. Lavora per festival e rassegne culturali, con diversi ruoli a seconda delle esigenze, e a volte ne organizza pure.

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