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(foto di Giuseppe Di Lorenzo)
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Principi di sottrazione. Un dossier sui 25 anni di Teatro Magro #1

di Giuseppe Di Lorenzo

Questo articolo è frutto di una partnership tra Altre Velocità e Teatro Magro

Ho avuto modo di seguire le attività di Teatro Magro nella città di Mantova da marzo fino a novembre 2024, con il compito di raccontare criticamente un metodo, uno spazio, una compagnia. L’occasione per lo sviluppo di questa collaborazione era il 25esimo anniversario di Teatro Magro, (avvenuto sabato 21 settembre dello stesso anno). Una data di comodo, perché Teatro Magro nasceva già nel 1988, ma la sua è una storia particolare costellata di piccole omissioni, costanti mutamenti e nervose digressioni. Non mi sono soffermato sul raccontare la storia di Teatro Magro, ciò che troverete in questo dossier diviso in tre articoli è un approfondimento sulle prassi laboratoriali, sulla poetica e sulle relazioni col territorio messe in atto da Teatro Magro in questi 25 anni. Nei mesi necessari per questa restituzione ho raccolto più di 12 ore di interviste, racconti, testimonianze, ricordi, ho assistito a otto messe in scena, osservato svariati laboratori in essere, sono stato a teatro ma anche in carcere, nelle scuole, in un prato circondato da greci, palermitani, belgi, arabi e ragazzi immigrati da diverse nazioni africane. Un dossier in tre puntate.

Pensiero non strutturato. Analisi di un metodo

Tutte le tribù […] contano i loro individui “anormali”, i loro outsiders. […] Il dilemma di un individuo del genere si risolve di solito nel modo più felice quando egli fa violenza ai suoi più forti impulsi naturali, e si adatta a svolgere la parte che la sua civiltà gli assegna; se poi è un uomo a cui il riconoscimento della società è necessario, questa è di solito l’unica via ch’egli possa seguire.

Ruth Benedict, Modelli di cultura (1934)

Di tutti gli spettacoli di Teatro Magro che ho avuto modo di visionare negli otto mesi di ricerca, Tipi è sicuramente quello che mette in scena una sequenza di assenze quantomeno peculiari, che definiscono in modo piuttosto preciso non solo un metodo ma il pensiero che lo precede. Il progetto nasce da un’urgenza pragmatica. Intorno al 2016 Teatro Magro desiderava condividere la sua “Home” (la sede amministrativa, laboratoriale e artistica della compagnia, attualmente in Via Brescia 2C a Mantova) con il pubblico mantovano. Secondo il direttore artistico della compagnia, Flavio Cortellazzi (uno dei membri fondatori del gruppo nel 1988), c’era bisogno di «fare una cosa semplice». E in effetti Tipi semplice lo è semplice, ancora prima di essere essenziale.

Quante volte passeggiando per strada e incrociando delle persone ci capita di pensare: «certo che questo è proprio un tipo»? Magari per come si veste, o per una strana inflessione quando parla, per uno sguardo irriverente, oppure ancora per una stranissima ossessione che lo differenzia da noi, dagli altri. Il progetto infatti si pone come obiettivo di intercettare persone che normalmente non frequentano il teatro e mettere sul palco la loro specificità, il loro essere in qualche modo degli “outsiders”. Quello di Tipi infatti, ci tiene a precisare Cortellazzi: «non è un laboratorio, ma un’indagine», una sorta di catalogo antropologico in cui negli anni si sono sommati tanti “tipi” diversi raccogliendo testimonianze di ogni genere ma di difficile comparazione. A parte alcune piccole accortezze formali (come il chiedere al “tipo” di parlare verso il pubblico, o la sporadica presenza in scena di un attore della compagnia, Elia Grassi, che agisce in vece del regista per compiere delle misurazioni, come per esempio quella sulla circonferenza del cranio – richiamando il mondo lontano e inquietante della frenologia) Flavio non lascia alcuna nota registica, né limiti alla possibile azione scenica. Dopo una prima prova per selezionare i “tipi” avviene un secondo incontro, strutturato esattamente come il precedente: Flavio fuori scena legge delle domande (sempre le stesse) e l’attore risponde. Sulla scena, quasi spoglia, c’è un foglio poggiato su una tavola verticale sul quale di volta in volta Grassi tratteggia la silhouette dei vari “tipi” che si susseguono in giornata. Sembra quasi una di quelle situazioni coreografiche alla Kinkaleri o Sosta Palmizi, a metà tra lo sguardo scientifico e l’ironia involontaria che questo possiede una volta decontestualizzato. Non di rado le risposte che ogni “tipo” fornisce al regista nelle due prove a disposizione sono (quasi) sempre diverse, ma in certe ripetizioni si nota l’esigenza di “fare teatro”, di cercare una risposta nello spettatore, ed è lì che interviene la regia, cercando di eliminare sul nascere ogni elemento che possa trasmettere un’idea di “teatralità” che, inevitabilmente, apparirebbe posticcia se non proprio fastidiosa nell’esibita amatorialità. Il terzo incontro è direttamente quello tra il pubblico e il “tipo”, ovvero lo spettacolo. Per questo è impossibile parlare di laboratorio teatrale per Tipi, laddove quello che viene messo in scena è qualcosa di totalmente spurio dai modelli di attorialità, con tutti i pregi e i difetti che questo comporta.

(foto di Giuseppe Di Lorenzo)

Ma a volte sono i difetti ha rendere speciale un’esperienza. Sapete qual è il motivo per cui quando al telefono parte una segreteria telefonica la musica si sente così male? Per trasmettere la musica durante i momenti di attesa al telefono si usano dei programmi di compressione e decompressione dei dati detti codec, il loro scopo è rendere il più efficiente possibile la trasmissione dei dati vocali. Questo perché la banda passante, cioè il tubo da cui transitano tutti i dati delle nostre telefonate, sono pensati per prenderci meno spazio possibile dentro i muri di casa, e questo ne riduce la potenzialità di banda. Meno banda = meno dati. Il più utilizzato codec in ambito telefonico è sicuramente il G.711, per via della sua efficienza nel tradurre i dati vocali, ma tutto ciò che invece comprende armonie, ampiezza d’onda e un minimo di dinamica (cioè quasi qualsiasi componimento musicale) è troppo complicato da gestire per il codec, e così quello che sentiamo è un’improvvisa perdita di qualità nella trasmissione, che riempie lo spazio sonoro di artefatti che distorcono il suono in quel modo robotico e frustrante che tutti conosciamo. Ecco, il teatro di regia contemporaneo sotto molti punti di vista, è una banda passante di proporzioni bibliche, più spessa di un muro di mattoni. Questo perché la regia contemporanea cerca di massimizzare il ruolo dell’attore, per lasciarlo esprimere una complessità che in dialogo con spazio scenico affastella precisi significati e significanti, nell’ordine e nello sviluppo intesi dal regista.

Al contrario, Tipi è come la segreteria telefonica, ovvero un procedimento che volutamente carica lo spettacolo di artefatti di ogni genere: monologhi inutili, risate improvvise, isteria, paure, tempi morti e pianti melodrammatici, un rumore necessario perché ciò che interessa alla regia è evidenziare un gesto, una frase, una parola densa di significato. I protagonisti di Tipi sono se stessi sul palco, e non necessariamente questo è interessante per lo spettatore. Alla fine quello che resta allo spettatore è un esperimento antropologico estremamente specifico, senza alcuna funzione statistica che non sia l’archiviazione di una memoria, e dunque senza alcuna funzione scientifica e – verrebbe quasi da dire – senza alcuna funzione artistica, se non fosse proprio per l’attesa spasmodica che ogni persona nella sua assoluta aleatorietà porta con sé. Cosa avrà lei di speciale? Perché hanno scelto un tizio così? Per una volta non è il buio della sala o l’occultamento del sipario a creare l’attesa, ma l’imprevedibilità umana.

Era il 21 aprile 2024 a Mirano, nel Teatro di Villa Belvedere, Tipi era in programmazione dentro “Molecole”, una brillante stagione di teatro indipendente curata con acume e coraggio da Marco Duse e Marco De Rossi, della compagnia Farmacia Zooè. Durante la prova vedo G., l’attore che tra poche ore sarà in scena, entrare in teatro con una bustina di semi da «sgranocchiare». Si ferma con Flavio per discutere di alcuni dettagli, non ci sono delle indicazioni precise, piuttosto un dialogo: «Sei sicuro di venire vestito così?», gli chiede il regista mentre G. si lancia in bocca semi di girasole con la stessa enfasi con cui il Dr. House di Hugh Laurie ingurgitava Vicodin. «Prima facciamo, poi discutiamo», la taglia corto Flavio, vuole vedere G. in scena, vuole riscoprire quel momento in cui tutta la sua “tipicità” viene fuori. Quando intervistai Flavio qualche tempo dopo, il 4 maggio, raffrescati dall’ombra degli alberi di Parco Te a Mantova, gli volli sottolineare in modo pedante l’elemento di rischio che Tipi porta con sé, l’egocentrismo degli attori in scena, le digressioni senza scopo, la dimensione voyeuristica, e lui è stato molto lucido nell’esaminare le mie annotazioni: «Non voglio fare la seduta dello psicologo, anche se a volte lo ambisco con domande come: “Quali sono le tue paure?”. Certo, è rischioso: c’è chi può allungare dei tempi che non sono teatrali, perché vanno in scena senza troppi strumenti. Solo solo due prove e poi la terza volta vai in scena col pubblico, non c’è modo per costruire una struttura, è pensiero non strutturato.» Quel pensiero non strutturato a Villa Belvedere si svolse ben quattro volte, i “tipi” erano il numero 42, 43, 44 e 45. Quattro racconti diversi, quattro modi d’intendere il teatro inconciliabili. Tra le risposte albeggiavano quei tratti di assurda particolarità che accendevano in modo inaspettato la riflessione. Togliendo la tecnica lo spettacolo acquisisce un’immediatezza inusuale, senza reiterazione non c’è in scena alcun dogma formale, come lo scienziato ideale di Heidegger lo spettatore osserva la natura mentre il regista conduce il laboratorio di ricerca come un direttore d’orchestra, ma sul palco e in sala nessuno sa leggere lo spartito.

(foto di Giuseppe Di Lorenzo)

Come vedremo nei prossimi approfondimenti, molto del lavoro poetico di Teatro Magro si basa su relazioni di natura laboratoriale. Non è sempre stato così, anzi, ma negli anni è emersa la necessità di creare relazioni col territorio e di alimentare anche del nuovo pubblico, e per non perdere la propria identità di compagnia, spesso l’attività laboratoriale è diventata strumento poetico per degli spettacoli come Tipi. Diversamente le restituzioni dei laboratori si pongono altri obiettivi, come il caso di Remember ME, di cui ebbi modo di vederne la prova generale giovedì 2 marzo all’ARCI Tom di Mantova. Conclusione di un percorso dentro il Progetto LAIVin, che attraverso un bando di Fondazione Cariplo dal 2006 cerca di promuovere il teatro come una forma attiva di cittadinanza per i giovani studenti delle scuole superiori lombarde, mentre il network delle compagnie partecipanti è coordinato dall’associazione Etre. Non è un caso se come luogo per la restituzione finale si sia scelto l’ARCI Tom, infatti nella nuova gestione dello spazio partecipano anche Teatro Magro, ARCI Mantova e Strongvilla (etichetta musicale e collettivo artistico). Sebbene queste siano realtà che si conoscono e si frequentano già da tempo solo di recente è nata una vera e propria collaborazione nel tentativo di fare rete e scambiarsi pratiche, spazi e possibilità. Il tutto per favorire ai giovani luoghi in cui incontrarsi e fare esperienza della complessità di un territorio fuori dalla tavola apparecchiata delle istituzioni.

Tutto questo è possibile anche grazie a un sostanziale sostegno economico da parte del Comune di Mantova e una relazione consolidata con la politica locale. Considerando questo complesso quadro di relazioni è difficile giudicare Remember ME alla stregua di una produzione interna alla compagnia, così come è giusto differenziarla financo dalle attività laboratoriali interne (come Nè carne né pesce, Carni scelte – young e Carni scelte, di cui approfondirò il lavoro nei prossimi articoli), in tal senso diventa più rilevante valutare il processo di formazione, ma al tempo stesso è difficile non notare elementi ricorrenti nella poetica della compagnia mantovana anche nei laboratori per progettualità come LAIVin. Remember ME conta almeno quindici giovani studenti in scena, e sebbene la frontalità e la poca dinamicità che la regia gli impone, anche per evitare di mescolare memoria muscolare e testuale in quello che non è di certo un gruppo di attori scafati, si caratterizza comunque da una dispersione che è frutto di scelte sì consapevoli ma rischiose. Non ho potuto vedere lo spettacolo nella sua versione definitiva ma solo la prova generale prima del debutto, ma in questa riflessione attorno l’Amleto di Shakespeare, presentato come se il The Rocky Horror Show di O’Brien e Sharman fosse stato un teen-drama, spesso la regia di Alessandro Pezzali (socio fondatore della compagnia, attore e scenografo) faceva un passo indietro, lasciando grande respiro all’amatorialismo dei ragazzi. Non è semplice lavorare con gli adolescenti, progetti corali e iconici come quelli diretti da Enrico Casale per Gli Scarti (come l’ultimo lavoro per il laboratorio No Recess!, presentato alla scorsa edizione di “Tutta la vita davanti” a La Spezia: Gennariello. Una festa di merda) sono rarità nel panorama spettacolare italiano, ma c’è anche un’altra questione che ha un ruolo centrale nel giudicare lavori come Remember ME, ovvero che la progettualità dietro questi laboratori che prevedono delle tempistiche e degli scopi ben precisi. Non a caso Teatro Magro differenzia le proprie proposte anche sulla base delle finalità di ogni loro attività. In Remember ME la forma spettacolare è il mezzo, lo scopo è l’adesione a LAIVin e alle sue linee programmatiche – sperando che i semi piantati durante i giorni di pratica attoriale portino alcuni dei partecipanti a voler approfondire il mondo teatrale e nelle sue diverse velocità.

Diverso invece il lavoro che precede progetti come Walkie Talkie, ovvero lavori già più in linea con una produzione teatrale strettamente detta. Nello spettacolo, che si dispiega all’interno del centro storico di Mantova, lo spettatore non è seduto in platea ma viene accompagnato da un attore tra chiassi, giardini e piazze del capoluogo lombardo. Walkie Talkie nasce dalla partecipazione della compagnia al bando ministeriale FNSV 2024 sui Progetti Speciali, in cui Teatro Magro era presente come parte di 4D Teatro, assieme a ARS Creazione e Spettacolo, Carrozzeria Orfeo e Teatro all’Improvviso, tramite un progetto sostenuto anche dal Comune di Mantova: “Virgilio Me Genuit”. Con lo scopo di mettere in risalto la storia di Virgilio e il suo legame con Mantova, il progetto viene interpretato da Teatro Magro con uno spettacolo intimo e a tratti romantico. Dopo l’esperienza del COVID le pratiche teatrali che riscoprono gli spazi urbani sono esplose, ma non tutte hanno espresso la stessa efficacia. Su Altre Velocità vi avevamo raccontato di Consegne della compagnia Kepler-452, e ci sono delle prossimità con il lavoro di Teatro Magro nell’intimità della relazione che si crea tra l’attore e il pubblico, ma qua finiscono le somiglianze. In Walkie Talkie a ogni spettatore viene affidato un attore, per un totale di 12 spettatori per turno, 30 minuti ciascuno. Ogni attore segue un percorso diverso, impara un testo diverso, e interpreta la propria relazione con lo spazio e lo spettatore in modo diverso. La regia è di Flavio Cortellazzi, la cui mano si protende ancora su buona parte degli spettacoli ufficiali della compagnia. Ho avuto modo di assistere alle prove in “Home”, nella piccola sala nera dove si tengono i laboratori e le loro restituzioni. Gli attori divisi in due file da sei ai lati del palco, al centro il regista sciorinava i numeri dello spettacolo: «Ogni sessione dovrebbe durare 30 massimo 40 minuti, considerando che in un’ora si fanno 5 km e mezzo….», le tappe coincidono con diversi monumenti e luoghi storici della città dove si trovano rappresentazioni di Virgilio: «Il tribunale, Via Verdi, il municipio, Piazza Virgiliana…», nessuno però ha un percorso preciso da seguire: «Oggi siamo passabili di errore nell’itinerario, concentratevi sul testo». Per il testo la questione è complessa, nella fase a cui ho assistito c’era una parte di ascolto collettivo di frasi estrapolate da Camminare di Thomas Bernhard, si ragionava di costruire pause per dar respiro all’azione, si inserivano frasi tratte dagli scritti di Virgilio, se ne cercava una prossimità con Bernhard, s’iniziava a scrivere il copione leggendolo agli altri attori e rispondendogli, tessendo relazioni e connessioni soggiacenti.

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Per esempio in un esercizio un attore diceva una frase: «Sono triste perché oggi…» e l’altro, di fronte a lui, riprendeva: «Non ti ho visto.», e di nuovo: «Mi sembra assurdo» e subito dopo l’altro performer: «Che le galline non volino». Gli attori poi interpellano il regista, gli fanno domande: «È giusto sospendere o inserirsi in un discorso già chiuso? Quanta istintività ci deve essere?» le due file restano quasi immobili ai lati, Flavio passa nel mezzo, come un generale pensoso che sta ordinando la sua scacchiera strategica in vista della battaglia. «Non sopporto le persone in ritardo….» «Pensavo mentre ero in coda.», Flavio entra nelle sfumature, pungola, stimola, non risponde quasi mai, preferisce rilanciare domande e insinuare dubbi, decostruire certezze, inserire elementi di disturbo dentro una cornice di assoluto rigore. Per esempio in un esercizio di domanda e risposta: «Ma tu come fai con l’allergia?» «Eh, con l’antistaminico», Flavio si interviene facendo notare agli attori che non si crea relazione se non ci sono personalità, tutto quello che è generico cade nel silenzio dell’indifferenza. A chiusura dell’esercizio vengono enunciate una serie di frasi tratte da dei testi di Virgilio, ogni attore ne sceglie una, quella frase sarà il nucleo della drammaturgia spontanea che avverrà tra pochi minuti alla prova. Sono estratti del tipo: «Non tutti possiamo ogni cosa», «Si rinnova il gran giro dei secoli», «La paura aggiunse ali ai piedi», «La donna è sempre cosa varia e mutevole», «Fugge verso i salici, ma prima desidera di essere vista», «Il lupo non si preoccupa di quante siano le pecore», e così via. Per il mio turno, sempre in una prova generale e ormai col sole calato da un po’, vengo accoppiato per l’andata con Vanessa Dalla Ricca, partiremo da Piazza Virgiliana per arrivare al luogo d’incontro per tutti, ovvero Palazzo del Podestà, da lì ripartirò per un secondo giro assieme a Lorenzo Mirandola. Durante la camminata gli attori si sono registrati da soli, in seguito avrebbero mandato nel cloud della compagnia l’audio, la trascrizione di quell’audio diventerà la bozza del copione su cui poi verrà fatta una selezione. È stato stimolante poter seguire due attori diversi e con approcci quasi opposti, e nel farlo ho cercato anche io di pormi in modo diverso con i due, per avere reazioni eterogenee. Vanessa ha cercato di instaurare quasi un dialogo, pur mantenendo un’alta consapevolezza dello spazio, indirizzando lo sguardo dello spettatore, facendogli scoprire angoli, scorci, cercando sempre di cogliere una rima con Mantova.

Il suo testo preliminare si basava sulla relazione tra spirito e materia, partendo dai batteri per poi spingersi su sentieri puramente filosofici, perdendosi nelle strade della città come nelle strade del pensiero (mimando un’ipotetico errare virgiliano). Lorenzo invece era più orientato sul monologo, ponendo l’accento sulla performance a discapito della relazione con gli spazi, evocando figure come il coraggio e la conservazione, «amare la riva e lasciare agli altri il mare profondo». Questo tipo di relazione, che Walkie Talkie ricerca, ricorda molto certi lavori di Fernando Rubio, in cui attore e spettatore si trovano assieme, avvolti perfino dal silenzio, due corpi che si sintonizzano su frequenze minime, difficili da captare da fuori. Il difficile equilibrio tra racconto e lezione frontale viene a meno, ma d’altro canto l’elemento effimero e improvvisativo aumentano il rischio e quindi anche l’esposizione emotiva. Nella costante ricerca di un pensiero non strutturato Teatro Magro si apre alle fragilità, alla perfetta messa in scena preferisce sempre l’imprevedibilità, se lavori diciamo pure da “commissione” come 3e14 | infinito non periodico, di cui avremo modo di entrare nel dettaglio nei prossimi articoli, vengono elaborati come una forma finita e replicabile in modo quasi identico in ogni contesto, nella pratica quotidiana e nella progettualità interna alla compagnia, vi è sempre l’ardire di muoversi tra statico e dinamico, tra prassi e rottura, tra rigore e irrazionalità. Un metodo aperto, le cui regole non possono essere scritte perché mutano di replica in replica.

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