Per vedere I mangiatori di patate alla Biennale di Venezia si sale su un battello che porta nell’isola del Lazzaretto Vecchio, dalla superficie ristretta ma grande abbastanza per ospitare la struttura ormai in disuso. Varcando la soglia dell’edificio, sembra di entrare in un braccio della morte. Il foglio di sala, curato dalla dramaturg Piersandra Di Matteo, non a caso parla di catabasi: scendiamo ai morti.
La performance, andata in scena dal 31 maggio al 10 giugno alla 53ª edizione della Biennale Teatro sotto la direzione di Willem Defoe, si propone al pubblico come un’esperienza itinerante, un percorso, rigorosamente al buio, attraverso le diverse ampie stanze del Lazzaretto. La sola fonte di luce è una torcia nelle mani di una guida che introduce il funzionamento del dispositivo scenico, invitando inoltre a servirsi di tappi per le orecchie e a stare attenti a non muoversi nei momenti di buio totale, per evitare di urtare chi si ha accanto.
All’interno delle mura della struttura tutto è vuoto, e quel vuoto viene mantenuto da una nota forma di minimalismo estetico. Prime tre stanze, prime tre scene. In ognuna di esse, una struttura tubolare in ferro e un corpo interamente avvolto in un sacco nero che dà ancora qualche fremito di vita, restituendo il rumore della plastica spessa. Sono composizioni visive che non parlano a noi direttamente, quanto piuttosto a un’idea di futuro mortifero. In una delle stanze, un braccio animatronico, ovvero composto di tubi, cavi e giunture e animato elettronicamente, sembra intrattenere una qualche relazione con il corpo occultato dal sacco nero. Entrambi, braccio meccanico e corpo insacchettato, si agitano in scatti brevi votati al nulla. Che cos’hanno da dirsi? L’uno controlla l’altro? Il braccio animatronico emana un sentore di progresso tecnologico che risulta ormai paleolitico: come una vecchia idea di futuro.
Dopo queste tre brevi apparizioni si arriva nella quarta e ultima stanza, in realtà un lunghissimo corridoio, dove si resta in piedi fino alla fine a osservare un susseguirsi di azioni visive e sensoriali. La prima è la più potente. Schierati di fronte a una scena apparentemente vuota, il buio si fa a poco a poco totale, mentre si alza un vento sempre più forte. Il vento assale in faccia mentre la facoltà della vista viene del tutto preclusa. Monta al contempo un suono di basse frequenze a volume sempre più forte. Se l’effetto del tappeto sonoro è assicurato — complice il rimbombo che esso provoca nel petto — ci si pone qualche domanda rispetto alla sua originalità, vista la frequenza con cui viene usato soprattutto nell’ambito della performance. Nel buio, gli occhi si sforzano di intravvedere qualcosa, un movimento, un brillio di luce, ma nel tentativo di tenerli aperti è solo il vento che secca la sclera e il buio che rimanda indietro un grande “no”: voi non potete sapere. Non chiedetevi perché siete qui, non domandate dove state andando. Soli in una mischia, persi nel vuoto, ignari di cosa accadrà un momento dopo, si sta come in quotidiana disperazione nei deserti delle traversate, deportati dal futuro. Che cosa ci sta per accadere?

Si placa. Riappare a poco a poco la luce, svelando una statua alata con un indice rivolto al cielo – evidente richiamo all’angelo della storia di Walter Benjamin, che apre le ali al futuro tenendo il viso rivolto alle rovine del passato. Il vento di un attimo prima, allora, prende immediato senso: “Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta” (Walter Benjamin, Angelus Novus).
Scomparsa la statua in fondo al lungo corridoio, è un gruppo di minatori che lentamente si fa avanti. Sono ricoperti di polvere nera. Il colore della loro pelle è alterato da una cupezza che richiama le mani rugose e i tratti marcati dei personaggi nel dipinto eponimo di Van Gogh. Non si tratta, tuttavia, di umili raccoglitori riuniti attorno a una magra tavola, quanto piuttosto di un gruppo di subordinati atto a svolgere un ordine venuto da chissà dove. Il gruppo, tra lenti movimenti coreografati, fa rotolare sul pavimento un altro sacco nero contenente un corpo. Questa volta, il contenuto viene svelato: dapprima un piede, poi una gamba, interamente truccati di un bianco dall’effetto cadaverico e statuario insieme. Ci si interroga: a chi apparterrà il corpo? Arriva rapida, e ovvia, la risposta: a una donna. Una donna che è statua, è cadavere, è pezzi di corpo, è nuda, esposta al pubblico dal gruppo di minatori — tutti uomini. Il disvelamento lascia una punta di delusione.
La sua portata simbolica è, al contrario, consistente e potrebbe racchiudere in sé sola la “manciata di parole” lasciata da Castellucci a descrizione della performance (che, sottolinea, possono essere tra loro legate in modi che esulano dalla sua “giurisdizione”). Tenteremo qui alcune delle possibili interpretazioni. Innanzitutto, risaltano i diversi richiami a figure, simboli e liturgie della religione cristiana: la vestizione, quando un piede della donna viene ricoperto attentamente dai minatori con un calzino nero; l’annunciazione, quando i minatori si compongono in schiera dietro alla figura femminile, dopo averla “nutrita” con un liquido rosso sangue che dalla bocca stilla sul ventre, reggendo tra le mani un lungo stelo di giglio bianco; la citazione biblica “In principio era il Verbo”, quando la prima azione della figura femminile sembra essere quella della parola. Sembra. Perché sta qui il segno opposto, il cambio di marcia che spiega pur celando ogni significato: la figura non articola suoni di senso compiuto, e muove labbra non sue, coperte come sono da due semicerchi neri animatronici che si muovono per comunicare in una lingua incomprensibile e distorta (curata da Scott Gibbons e Oliver Gibbons).
La figura-Vergine non è quindi annunciatrice di nessun verbo, la verità è nascosta nel suo contrario, nell’articolazione meccanica di una comunicazione che non può avvenire, o che, nel peggiore dei casi, può evocare l’alterazione di una lingua allo scopo di confondere e dissimulare (Lingua Imperii è una delle parole annotata da Castellucci nella sua descrizione). Il simbolo cristiano si disfa così in quello mitico della Pizia, chiaroveggente che esprime il futuro in vocalizzi incoerenti, figura femminile che, come estremizzato da Friedrich Dürrenmatt ne La morte della Pizia, veniva forzata a uno stato di trance per effetto di vapori o rituali. Presso l’oracolo di Delfi, le parole “divine” pronunciate dalla Pizia — rigorosamente donna — venivano poi trascritte e interpretate dai sacerdoti — rigorosamente uomini — che le traducevano in un responso “comprensibile”.
Qui, invece, i minatori sono muti, il logos è negato. La statua dell’angelo della storia torna sulla scena, questa volta priva della testa, mentre la Vergine-Pizia continua a muovere le sue nere labbra meccaniche, come un manichino parlato da suoni secchi e avversi. Di fronte a questa visione ci si sente come un momento prima, avvolti da folate di vento nell’oscurità più assoluta: che cosa ci sta per accadere?
L'autore
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ricercatrice di Storia del teatro presso l’Università di Bologna e docente a contratto presso l’Università Sorbonne Nouvelle e l’Università di Strasburgo. Ha conseguito il dottorato presso l’Università Paul-Valéry Montpellier 3 nell’ambito del progetto ERC “PuppetPlays” e in cotutela con l’Università di Bologna con la tesi La marionnette et son drame. Les dramaturgies pour le théâtre de marionnettes contemporain en France et en Italie (1980-2020). Qualificata come Dramaturg Internazionale presso la Scuola I. Gazzerro di ERT, nel 2020 co-scrive il radiodramma Claudio e Gertrude sono morti, produzione Teatro Metastasio con la regia di Roberto Latini, e Phoenicopteridae di Collettivo Inciampo, vincitore del bando Di nuovo Eretici. Nel 2021 il testo è trasposto in radiodramma dal Teatro i di Milano, con la regia di Renzo Martinelli. Tra il 2021 e il 2023 il testo Oracoli è portato in scena da Elisa Cuppini e Savino Paparella. Scrive o ha scritto su Altre Velocità, Stratagemmi - Prospettive teatrali, PAC.Haut du formulaireBas du formulaire


