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(foto di Gabriele Lopez)
(foto di Gabriele Lopez)

Di adesso si muore. Tre giornate nella 4ª edizione dell’Hystrio Festival

di Vincenzo “Notta” Riccardi

Se c’è una cosa che ho imparato durante i miei tre giorni a seguire l’Hystrio Festival è che “i dialetti non hanno coniugazione al futuro”. Lo dice Federico Mattioli nel talk tenuto a seguito della lettura scenica del suo Il Macello. Nel mentre che lo afferma, mi perdo nella mia testa ad enunciare quei tre-quattro verbi che mi capita di conoscere nei più svariati dialetti e sì, è vero, quando riesco a tirarne fuori una parola che sembra avere un minimo di senso suona più come un costrutto posticcio, qualcosa che sicuramente non fa parte della lingua originale. In effetti, come emanazione di una cultura popolare i dialetti nascono nei discorsi della “gente comune”: rispondono alle esigenze materiali del momento e si spingono molto poco a progettare o a immaginare un futuro, spesso incerto. Uscito dalla sala, mi chiedo quando questa dimensione investa, in quanto linguaggio, anche il teatro o le altre arti. Esiste una lingua madre, codificata e fatta di elementi prevedibili e schematici, ma dall’altro lato si affermano incontrollabili smanie di parlare di ciò che sembra fuori dai discorsi, una voglia di affondare le mani nella materia molle del contemporaneo.

Il risultato è un gioco che, nei suoi esempi più virtuosi, affronta le forme drammaturgiche in modo da restituire al pubblico la peculiare e inedita cifra dell’oggi, spesso in maniere divergenti ma immediate. Talvolta intelligibili, eppure capaci di arrivare al cuore delle cose. Ma parlare dell’oggi non ci apre necessariamente la strada del domani: il futuro, mai come ora, è un orizzonte fosco ma di cui abbiamo assolutamente il bisogno di parlare, per intima paura o dovere sociale. E il teatro tenta quindi di occuparsi di futuro, ma per farlo si butta ancora più nel vuoto, mette in scena finali aperti, interrompe bruscamente lo svilupparsi della sua storia verso una conclusione o semplicemente si limita a lasciarci un messaggio sull’oggi, sperando che sia invece il pubblico a proiettarlo nel domani.

Hystrio Festival naviga tranquillamente in queste zone d’ombra. Il festival – svoltosi all’interno delle sale del teatro Elfo Puccini di Milano dal 16 al 21 settembre 2025 e interamente dedicato al teatro under 35 – giunge quest’anno alla sua quarta edizione, mettendo in scena 10 spettacoli scelti tra circa un centinaio che hanno già avuto modo di girare in forma completa (quindi niente studi o anteprime), oltre ad alcune letture sceniche organizzate in collaborazione con l’associazione Situazione Drammatica e Progetto Il copione, volte invece a indagare e promuovere spettacoli che non hanno ancora avuto la possibilità di andare in scena.

Ho potuto seguire il festival dal 16 al 18 settembre fin dall’apertura con Piena come un uovo della Compagnia Caterpillar, un racconto sui disturbi alimentari affrontato attraverso 4 attrici in scena a farsi simbolo e corpo di diversi aspetti dell’argomento: una bulimica (Gaia Carmagnani), una mangiatrice compulsiva (Ilaria Longo), una cronicamente magra (Denise Brambillasca) e una ragazza sicura del suo aspetto fisico (Valentina Sichetti). La drammaturgia scompone l’argomento e lo affronta attraverso un pastiche di storie, monologhi e situazioni tanto comiche quanto assurde, rendendo l’operazione uno strumento consapevole, divertente e informativo ma che può risultare, nel complesso, un po’ troppo sfilacciato. Se da un lato infatti è da apprezzare la completezza dell’indagine, il suo spingersi ad abbracciare prospettive non banali – come le opinioni di chi vorrebbe un paio di chili in più ma non riesce a prenderli – mantenendo un ottimo equilibrio tra il serio e il frivolo, dall’altro forse questa sovrabbondanza di elementi rischia di frantumare eccessivamente il senso dello spettacolo, teso così tanto a “comunicare” da scordarsi in alcuni frangenti di “raccontare”.

A una prima parte più giocosa e che salta tra diverse gag sul tema – gestire le tentazioni di un frigo sempre pieno, le diete, le taglie dei vestiti che cambiano da negozio a negozio – introducendo gradualmente al contempo la storia individuale della mangiatrice compulsiva (Lisa) segue infatti una seconda parte più drammatica e concentrata sulle storie individuali delle singole ragazze rimaste, con le loro storie spesso anche abilmente costruite ma gettate alla rinfusa, come il percorso di accettazione del sé di Martina (la ragazza sicura) che ci viene raccontato solo in un piccolo monologo a qualche minuto dalla fine. Che il disordine sia una scelta stilistica appare palese fin dalla suggestiva scenografia quasi liquida, con un frigo che sprofonda nel pavimento e diventa un cassetto magico da cui far fuoriuscire oggetti di scena o il tavolo in verticale al centro della scena abilmente usato per far scomparire temporaneamente le attrici dagli occhi del pubblico, ma diventa forse più un ostacolo per la loro missione che un meccanismo per far emergere l’urgenza della loro comunicazione. Nella sua idea di partire con dei personaggi stereotipo che piano piano acquisiscono nome e personalità, di fatto alcuni di questi rimangono tuttavia letteralmente senza nome (la ragazza magra o quella bulimica), o le loro particolarità vengono talvolta oscurate dal segmento comico che segue e precede i loro momenti di disvelamento.

Pur rimanendo un’operazione molto divertente, ciò che manca a Piena come un uovo è una visione artistica d’insieme capace di racchiudere al meglio il suo messaggio di body-positivity. Nonostante sia davvero apprezzabile il coinvolgimento come collaboratrici di psicologhe (quelle del centro Jonas Monza Brianza) e di una biologa nutrizionista (Alice Parisi), la pretesa di parlare al meglio di tutto finisce per fagocitare la costruzione drammaturgica, che educa e sensibilizza ma non coinvolge del tutto, apre degli spiragli per far crescere i suoi personaggi ma che poi bruscamente e senza preavviso li riporta a puri archetipi. E alla fine di questa grande abbuffata, ci si ritrova con tante cose smanguicchiate sul tavolo.

Altra drammaturgia che potremmo definire “a soggetto” è Cantanti. Ideato e diretto da Carlo Geltrude con la drammaturgia di Mario Gelardi, la pièce parte dalla storia dei pentiti fratelli Brusca per parlare di mafia e, più in particolare, della legge sui pentiti del 1991 fortemente voluta da Giovanni Falcone. Per farlo, adotta un approccio bizzarro ma sorprendentemente efficace: giocando sul doppio senso del verbo “cantare”, due chitarre sono sempre in scena e usate dagli attori per cantare toccanti interludi sul processo Andreotti, l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, di Falcone e Borsellino e di altre pagine della cronaca nera italiana. Nel mezzo, la storia dei due fratelli si dipana per vignette scarne dove gli attori, dopo aver portato dalle quinte qualche oggetto di scena, mettono insieme frammenti di vita dei due mafiosi eternamente sospesi tra cronaca, studio sui personaggi e una forte dimensione quotidiana, amplificata ulteriormente dall’uso del dialetto siciliano.

(dal sito di Argot Studio)

Così come Piena come un uovo, anche Cantanti ha la pretesa di parlare di un argomento specifico attraverso uno sguardo frammentato e poliedrico sulla materia scenica, e l’operazione riesce in quanto ogni elemento messo sul piatto va non solo ad arricchire un punto di vista sull’argomento ma a sfaccettare sempre di più due personaggi complessi e imperscrutabili. La musica è dolce quanto atroce; un singolo cono di luce illumina solo l’attore che la esegue fornendo una dimensione intima e quasi languida che stride enormemente con la violenza dei testi. Le porzioni di vita dei fratelli messe in scena hanno una dimensione quasi bucolica e di calma, le loro malefatte vengono più che altro suggerite al di fuori dello spazio della scena o recitate senza darci troppo peso. La performance attoriale (da parte di Luigi Bignone e Giuseppe Brunetti) contribuisce meritoriamente a rendere lo spettacolo non moralizzante, a descrivere un sistema dove la cattiveria a un certo punto diventa sistema, e come tale smette di far rumore e diventa abitudine. Così, quando sul finale lo schermo ci informa degli sconti di pena e degli assegni di mantenimento concessi dallo Stato ai testimoni di giustizia, non possiamo non trovarci di fronte ad un impasse: che dimensione ha la colpa per chi nel male ci ha sempre vissuto? Per loro, cantare può essere davvero una catarsi?

Anche SdisOrè è uno spettacolo che affronta la dimensione del perdono, in questo caso mancato e che si trasforma in cieca vendetta. Partendo dall’adattamento dell’Orestea di Eschilo da parte di Giovanni Testori, il Gruppo UROR (formato da Evelina Rosselli e Caterina Rossi) prende la lingua intricata e sporca del drammaturgo milanese – una grezza mistura di latino, volgare medievaleggiante, dialetto e onomatopea – e ne fa terreno fertile per la loro drammaturgia torbida e disturbante. Evelina Rosselli è il solo corpo in scena, un autoproclamato spirito del Teatro che non solo, come il coro del teatro classico, riflette sugli eventi in scena agendo da bussola morale ma dà voce e forma ai quattro personaggi (Oreste, Clitemnestra, Egisto ed Elettra) rappresentati da repellenti maschere e marionette. Non si può non rimanere indifferenti di fronte all’eccellente prova attoriale che non solo fa un ottimo lavoro a restituire ad ogni maschera/marionetta la sua voce e personalità, ma domina il palco con un incedere nervoso e convulso che quasi diventa carne assieme ai suoni stridenti e mozzati della lingua testoriana, aiutando nella comprensione del testo anche solo tramite azzeccate pennellate di intensità mimica.

Una performance che riempe la scena, cancella con la sua fluidità i momenti di pausa del passaggio tra una maschera e l’altra e ci guida in una spirale psicotica sempre più oscura e opprimente, fino all’omicidio finale di Oreste ai danni della fedifraga madre Clitemnestra che avviene in un’atmosfera di semibuio e accerchiata da suoni disumani. Consumato l’atto, dove l’opera di Eschilo sfocia in una catarsi liberatoria, la rielaborazione di Testori ci restituisce un Oreste succube del destino e delle sue più basse pulsioni, una rivalsa che non sarà da esempio ma che non potrà che generare altra violenza, altro odio, altra vendetta. Uno spettacolo di straordinaria intensità, che dietro un’operazione di maniera nasconde un’intima indagine sul nostro tempo, un ciclo di brutalità che lascia il palco e si ripercuote sul mondo intorno a noi.

Alquanto disturbante, pur con una storia più frugale e quotidiana, è anche Madri, coproduzione Corte Ospitale e SCARTI – Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione per la regia di Alice Sinigaglia e la drammaturgia di Diego Pleuteri. Un figlio torna a far visita alla madre durante un pomeriggio di pioggia trovandola indaffarata a cercare tra gli scatoloni di una stanza un ritaglio di giornale. La ricerca di questo oggetto al fine di completare una citazione che ha sulla punta della lingua (“Di intimo ci è rimasto solo il…”) porterà allo scoperto il rapporto tra i due, mentre il suono e il tempo si deformano e accartocciano di fronte ai vuoti della sua memoria scivolando tra i numerosi microfoni presenti in scena. Ciò che stupisce di Madri è il sagace equilibrio tra una dimensione squisitamente umana – frutto di un lavoro che sfrutta al massimo sia la semplicità dei dialoghi e le performance realistiche e spontanee degli attori (Valentina Picello e Vito Vicino) – e una intrigante ricerca avanguardistica sul suono che viene costantemente manipolato con overdub, reverse, sovrapposizioni, desincronizzazioni, accelerazioni e rallentamenti per creare effetti drammaturgici.

Le interazioni madre-figlio restano per lo più leggere e spesso divertenti, ma i loro piccoli contrasti, le piccole attenzioni date ma non adeguatamente ricambiate, le bugie bianche come il dover scappare senza lasciare motivazioni costruiscono pian piano un microcosmo di piccole incomprensioni, crepe invisibili fatte di non detti, automatismi e parole vuote. È tutto così pieno di vita visto da fuori, ma al contempo così amaro visto da vicino. Come ingoiare un fiore di cui fino a prima si era sentito solo l’odore. E dove le parole non comunicano si sfilacciano e si svuotano, e come la citazione perduta non riescono a giungere ad un senso completo. Dopotutto se pur apparentemente vicini – con lo stesso sangue e più affini di quanto non sembri – madre e figlio non potrebbero essere creature più diverse: lei una vita ormai spezzata piegata al tedio e alla routine, lui una vita che cerca a malapena di tenersi insieme in un mondo sempre più frenetico. L’unico modo che hanno di incontrarsi è la maschera della convivialità, una facciata per nascondere la paura comune di cosa li aspetta nel futuro, per sentirsi più vicini, per anestetizzare il… dolore. Quel dolore che alla fine affiora nel marasma delle parole, sblocca i ricordi, riapre gli occhi, e fa calare il buio in scena.

(dal sito di Mittelfest)

Suoni e parole sono messi sotto indagine anche in C19H28O2 (o come avere le palle) della compagnia Lidi Precari. In un’atmosfera marinaresca sottilmente suggerita, Loris (Paolo Sangiorgio) e Gu (Leonardo Cesaroni) sono due amici e pescatori in cerca di fortuna, oltre ad essere entrambi fatalmente attratti dalla cameriera del bar del porto (Eny Cassia Corvo). In una scenografia buia e spoglia, gli attori caricano sulle loro spalle il peso di ricreare ambienti e situazioni attraverso scansioni ritmiche – come il battere sul microfono per simulare la sfilettatura di un pesce -, un uso delle luci espressivo e dinamico reso possibile attraverso dei piccoli led montati direttamente sui loro microfoni e una generale tendenza alla stilizzazione e alla frammentarietà.

Ma l’elemento più dirompente è forse la quasi totale di mancanza di contatto fisico tra i tre attori: la maggior parte delle azioni vengono declamate come se si stesse leggendo un copione, una scena di soffocamento viene eseguita sul microfono ma sentita dal soffocato sulla sua pelle e la lunga scena di sesso tra Gu e la cameriera lavora di verboso sfinimento indugiando su ogni dettaglio piuttosto che imbastire una disturbante sequenza visiva. Per quanto straniante, questo semplice espediente stilistico finisce per calzare a pennello con la storia che intende raccontare: la lotta di Gu e Loris per l’attenzione della cameriera è algida e distaccata e le emozioni in gioco difficili da interpretare non tanto perché criptiche o contraddittorie quanto infantili e non perfettamente costruite. La lotta tra i due amici, proprietari dell’unica barca incapace di fare affari di tutto il porto, è il grido di due mascolinità fragili e insicure che cercano a tutti i costi una rivalsa che risulta impossibile se non con la forza bruta, con il fare l’uomo e imporsi sull’altro ad ogni costo. Anche quando la fortuna sembra arrivare, nelle vesti dell’avvistamento di una creatura fantastica tenuta nascosta agli occhi dello spettatore, lo scontro sostituisce l’amicizia e di fatto l’occasione sfuma davanti ai loro occhi. Di fronte ad una messa in scena così originale, è quasi un peccato che C19H28O2 (non a caso, la formula chimica del testosterone) si perda forse un po’ troppo nel suo gioco di destrutturazione indugiando su alcuni elementi affascinanti ma non necessari. La dimensione onirica che emerge in una sequenza iniziale e poi semina il dubbio del sogno per tutta la pièce aggiunge un piano di interpretazione alla storia su cui diventa intrigante speculare ma che distrugge la sua carnalità e crudezza, così come la simbolica danza finale è una coda davvero suggestiva ma che rischia di sembrare come fuori posto, legata concettualmente ma staccata dall’atmosfera distaccata costruita fino a quel momento. In conclusione, un esperimento seducente quanto ingombrante. Come il testosterone, dopotutto.

Con C19H28O2 siamo arrivati al 18 settembre. Il mio tempo al festival si avvicina alla fine ma per terminare davvero dobbiamo tornare all’inizio, con Il Macello di Federico Mattioli. Forse la lettura scenica che più mi ha colpito, Mattioli usa la vicenda personale del nonno e interviste con ex lavoratori dei mattatoi emiliani e ne imbastisce una narrazione sulla forza spersonalizzante del lavoro, sul denaro che distrugge tutti i legami affettivi e sul potere che diventa solitudine. Nel mezzo delle colline emiliane, ciò che viene raccontato con un piglio nostalgico in realtà si intinge del presente, delle nostre vite sempre più strette nel vortice del capitalismo e della perdita graduale del tempo libero. L’individuo muore tra le piaghe del tempo, e questa è una dimensione che investe tutti gli spettacoli di cui ho parlato perché è chi vive il teatro in prima persona a venirne schiacciato.

Ciò che è emerso con chiarezza nella seconda edizione della conferenza Mind the gap – Un ponte sul futuro del teatro under 35 ospitata nel foyer del Teatro Puccini il 17 settembre è proprio la criticità intrinseca nella creazione di una nicchia di autori under 35, una precisa linea di demarcazione che sotto di essa presenta anche una serie stimolante di iniziative (il Progetto Next, il bando SIAE “Per chi crea”, la residenze di ForeverYoung de La Corte Ospitale e altri) ma oltre quella soglia le possibilità certo non diventano inesistenti, ma si riducono sempre più. Fare teatro è ormai un costante affrontare non solo un pubblico sempre meno coinvolto nelle realtà emergenti ma anche un ambiente che sempre meno accetta il fallimento, che vuole personalità pronte ad intercettare quanto più pubblico possibile, factotum in grado di confezionare un prodotto fatto e finito al primo debutto e magari senza neanche sforzarsi più di tanto. Ma tale figura non esiste. Gli artisti si formano attraverso una collezione di esperienze che non ha scansioni temporali, chi prima chi dopo, un passo alla volta verso il futuro.

Se pur vero che (cito testualmente dall’intervento di Maurizio Roi) «i giovani hanno la prospettiva dell’avvenire», non esiste futuro in un sistema che investe nella produzione ma lascia una totale incertezza verso la circuitazione delle opere. Se il futuro manca, dove possiamo davvero andare? Se un accumulo di presente non sfocia verso il futuro, l’arte muore di autocombustione. Ed è così che, di adesso, si muore.

L'autore

  • Vincenzo "Notta" Riccardi

    Giornalista, montatore video, fonico di presa diretta, futuro bibliotecario. Dal 2024 nel nucleo redazionale di Ubu Dance Party. Segue con fervido entusiasmo le scene underground della sua città (Roma), tra serate di poetry slam, spazi mostre minuscoli e festival di arte performativa.

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