La performance di Camilla Parini prende forma in un contesto intimo e raccolto: una piccola stanza, in un tempo indeterminato e riservato, allestita come un salotto domestico. Una poltrona, un tavolino, un vaso, una lampada accesa che diffonde una luce calda e soffusa: lo spazio è familiare ma allo stesso momento estraniante, quasi in sospeso. Non c’è un pubblico con cui condividere l’esperienza. Entrando da sola, in un momento che appartiene solo a te, lo spettacolo comincia immediatamente, ancora prima di varcare la soglia ti ritrovi dentro un gioco di specchi che ti interrogano sull’identità, sull’uso della maschera e sul confine tra ciò che siamo e ciò che scegliamo di raccontare di noi stessi.
L’esperienza inizia già prima dell’ingresso. L’attesa solitaria davanti alla porta genera ansia, curiosità e timore, preparandoti al mistero di ciò che accadrà. È come se la performance fosse già in atto dentro di te, nella tua immaginazione. Una volta dentro, ti accoglie una presenza muta: una figura travestita da orso. Un animale, un corpo mascherato, ingombrante e grottesco. I suoi gesti bizzarri, accompagnati dal silenzio, creano una tensione costante: un misto di ironia e inquietudine.
Non sei spettatrice passiva: sei parte integrante della scena, seduta accanto a lui.
La storia si svela attraverso un album fotografico che scorre tra le tue mani. Sfogliando le pagine, assisti alla storia di una ragazzina in cerca di sé stessa e delle proprie radici. Ma l’unica foto in cui appare con i genitori li mostra travestiti da orsi. È allora che la figura accanto a te acquista senso: non semplice elemento scenico, ma simbolo di un’identità mascherata.
Col passare del tempo, la protagonista sembra accogliere l’orso fino a identificarsi in lui, a vivere dietro quella maschera. A quel punto sorge un dubbio: se anche mascherati ci sentiamo a nostro agio, ha ancora senso parlare di identità autentica? Siamo ciò che siamo o piuttosto ciò che raccontiamo di essere? La domanda resta sospesa, volutamente ambigua.
La risposta, forse, non risiede nel contenuto ma nella forma stessa della performance. L’assenza di un pubblico tradizionale e la tua solitudine trasformano l’esperienza in un incontro personale e irripetibile. Essere sola significa poter guidare lo spettacolo, reagire in maniera unica e riflettere su di esso come fosse uno specchio: il disagio che provi non paralizza, ma stimola. In questo modo l’opera riesce ad attivare un processo critico, costringendoti a confrontarti con il tema dell’identità non come astrazione universale, ma come una questione personale.
Il culmine arriva quando ti viene chiesto se togliere la maschera all’orso. È una scelta che ricade su di te: mantenere il travestimento o avere il coraggio di rivelarne il volto. Ed è qui che l’opera rivela tutta la sua forza: ti mostra che siamo tutti, in modi diversi, un po’ orsi. Divisi tra la protezione della maschera e la necessità di affrontare il rischio della verità.
Eva Sadets’kyi
L'autore
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Redazione intermittente sulle arti sceniche contemporanee.


